06 settembre 2013

RITORNA LA SPARTENZA...



Domani 7 settembre 2013, alle ore 17.30,  in via dell'Arsenale 7  Palermo, si presenta la nuova edizione de La Spartenza di Tommaso Bordonaro  che nel 1990 ha vinto il I° premio al Concorso nazionale dei diari inediti di Pieve Santo Stefano. Interverranno Luisa Amenta, Barbara Evola, Marcello Saija e Santo Lombino.
 Il libro, edito nel 1991 da Einaudi, con una Introduzione di Natalia Ginzburg, è ora pubblicato da Navarra editore, con prefazione di Goffredo Fofi, glossario di Gianfranco Folena e una intervista inedita con l'autore.
“La spartenza”, esempio ormai classico di italiano popolare, è il racconto autobiografico  di Tommaso Bordonaro (1909-2000), pastore e contadino a Bolognetta nella prima metà del XX secolo, emigrato negli Stati Uniti d’America nella seconda metà Novecento.
Siamo particolarmente lieti di anticipare, in esclusiva, una parte della nuova Prefazione scritta da Goffredo Fofi per la  nuova edizione del libro.


Dalla nuova Prefazione di Goffredo Fofi


Mia madre non studiò oltre la terza elementare – e poi, al lavoro, come sua madre e sua sorella, figlie di un contadino morto ammazzato sul Grappa. Mio padre la terza e mezzo e poi al lavoro anche lui. Di quel “mezzo” si vantava – quarto dei cinque figli di un bracciante analfabeta che, con la moglie, analfabeta anche lei, aveva messo da parte i soldi per costruirsi, con suo fratello, una casa, lavorando lui in miniera e la moglie in una locanda, a Metz era ancora Prussia. Mio padre e mia madre sono morti entrambi nella periferia di Parigi e lì sono sepolti. Vi erano emigrati nei primi mesi del 1957, ma mio padre era già operaio in gioventù nella Germania hitleriana. Ho parenti o amici d’infanzia in molti paesi, dall’Australia agli Stati Uniti, dall’Argentina al Belgio, dal Venezuela al Sudafrica. A Scranton, Pennsylvania, e a Charleroi, Belgio, sono le comunità di miei compaesani più numerose, e a Charleroi sono stato più volte.
Questa non è una storia eccezionale, bensì normale, è la storia di milioni di italiani poveri dell’Ottocento e del Novecento, ed è anche la storia che ci racconta Tommaso Bordonaro nella Spartenza. Scritta da sé medesimo, nell’italiano incerto di chi scuola ne ha vista poca e di chi ha dovuto dividersi tra due lingue, di conseguenza mescolandole. Ma sapere due lingue (che può anche significare avere due patrie) e avere due amori, come recita un proverbio antillese, è molto meglio che sapere una sola lingua e avere un solo amore. Bordonaro sapeva due lingue e ha avuto due amori, apprendendo della vita l’essenziale: la condanna della fatica (il sudore della fronte) ma anche la soddisfazione del lavoro ben fatto e utile anche gli altri, le virtù della tolleranza dettate da una curiosità non malevola per i casi altrui e cioè per il prossimo, il rispetto per la propria consorte e la fedeltà antica alla famiglia, che è stata e continua a essere troppo spesso, come constatava Christopher Lasch in un suo celebre saggio, l’“unico rifugio in una società senza cuore”.
 Mancarono a Bordonaro (ma non mancarono ad altri, e per esempio ai miei, di solida vocazione socialista) la passione per il bene comune e le virtù dell’impegno civile, del sentirsi responsabili nei confronti di una comunità, anche se di una comunità si sa di far parte e se ne condividono le sorti. Bordonaro si apre alla famiglia allargata, quasi clan, ma non si spinge fino all’identificazione nelle sorti di un villaggio, di un paese, di una parte sociale, e il massimo di apertura che si consente, già “americano”, è quella nei confronti di un’identità che sta nella rivendicazione di radici locali, non nazionali, e che si esprime nel farsi carico di una tradizione religiosa, un’appartenenza anche in questo caso circoscritta: il santo del paese e la sua festa, più importanti delle stesse convinzioni religiose.
Quando si legge La spartenza, la prevalenza del particulare è peraltro assai comprensibile: la lotta per la sopravvivenza la determinava e la imponeva; la fame è fame e la scarsità è scarsità, e per l’individuo che appartiene volente o nolente a una società in cui impera la disuguaglianza – gabellata oggi per meritocrazia – la prima legge è quella di sopravvivere assicurando la sopravvivenza dei propri famigliari, dei propri cari. Il “familismo amorale” ha una sua necessità, prima di diventare un modo di distinguersi dagli altri e di viverli come rivali e nemici. E legge di ogni emigrazione, da che mondo è mondo, è la sconfitta della solitudine per l’aiuto che viene al singolo dal suo primario gruppo di appartenenza, la famiglia allargata e i compaesani e corregionali, e solo accessoriamente i connazionali. Sono coloro che sono arrivati a destinazione prima di noi e che hanno il nostro stesso sangue e che parlano la nostra stessa lingua, sono essi che possono darci una mano e introdurci, proteggendoci, dentro un nuovo ambiente, a nuove forme e regole di convivenza, a una nuova lingua e a una nuova comunità. Solo loro ci capiscono, solo loro possono identificarsi nelle nostre ambasce, perché ci sono già passati. Solo più tardi, e non sempre, arrivano i sindacati, i partiti.
Stupisce nella Spartenza l’assenza dei compari, una forma di allargamento della famiglia al gruppo amicale e parenterale che significava, nell’Italia povera, la corresponsabilizzazione di altri nel destino nostro e dei nostri figli, mentre non stupisce che Bordonaro non avverta la presenza di organizzazioni della solidarietà tra simili (neanche le parrocchie hanno svolto un ruolo significativo nella sua vita, non solo i sindacati e i partiti) sia nella sua Sicilia che nel suo New Jersey. Se penso alla vita dei miei e alla mia stessa, devo constatare che, nell’Umbria del dopoguerra, erano estremamente presenti – dopo i vent’anni del fascismo – partiti e organizzazioni sindacali e religiose o para-religiose, insieme alle vecchie organizzazioni delle categorie artigianali (che si chiamavano ancora, come nel Medio Evo, “università”), ma la Sicilia e il Sud erano lontani e le condizioni di vita, e insomma l’economia, vi erano ben più tragiche e miserabili, l’ordine delle classi sociali infinitamente più rigido e pesante. E chi decideva in Sicilia di dedicare la sua vita al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale, rischiò spesso la morte. Nella società statunitense, peraltro, si trovava protezione e solidarietà oltre il clan quando si era da tempo superata la fase più dura dell’inserimento, e la lotta per l’esistenza (la darwiniana struggle for life) aveva dato i suoi frutti.
 Documento assai istruttivo, le memorie di Bordonaro dicono anche quando non dicono, spiegano per assenza e non solo per l’immediata percezione di un vissuto e per il ricordo del tragitto affrontato e delle conquiste raggiunte. Dicono, cioè scrivono. Affrontano una prima persona come altri e tanti hanno fatto prima di lui, ma il cui risultato non è un documento di storia orale, un’intervista trascritta o registrata, bensì un’opera letteraria vera e propria. Nell’elenco ricco e importante delle “storie di vita” di cui l’editoria del dopoguerra e del boom ci ha consegnato molti e diversi esempi, da Scotellaro a Dolci, da Cagnetta ad Alasia, è però a quella parte delle Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi che vennero scritte dai diretti protagonisti e non trascritte dal curatore che si pensa leggendo Bordonaro. E la benemerita iniziativa di Saverio Tutino dell’archivio e del premio di Pieve Santo Stefano, che ha premiato La spartenza favorendone la scoperta da parte di una scrittrice del valore di Natalia Ginzburg e di un editore come Einaudi, ha stimolato la raccolta di centinaia di diari e memorie venuti dal “basso”, fornendo a chi voglia studiare la nostra società e in particolare come hanno vissuto la storia le sue “classi subalterne” dei materiali straordinari, i cui autori non raccontano oralmente ad altri la propria vita, ma se ne fanno direttamente carico, con maggiore o minore sincerità, capacità di narrare, significatività delle esperienze vissute. Oltre a La spartenza, merita di essere ricordato un altro eccezionale documento letterario e storico che in qualche modo – non solo perché ci è venuto anch’esso dalla Sicilia – gli si apparenta, anche se in esso la libertà e l’originalità della lingua è quella di uno scrittore “illetterato” ma grande, Terra matta di Vincenzo Rabito, anch’esso pubblicato da Einaudi.
La lingua, dunque. Quest’italiano essenziale che va subito al sodo, e che è quello delle antiche cronache perché il tempo passa lentamente per i senza-storia, ma che è nutrito di dialetto e di slang, di siciliano di italiano di inglese o, meglio, di americano. Che stimola il ricordo delle interviste di Dolci ma anche, altrettanto ignote all’autore, delle sintesi di storia siciliana di Savarese su Rossomanno (il feudo) e Petra (la città), che tanto piacevano a Sciascia e che meriterebbero – è un consiglio al nuovo editore di Bordonaro – di venir riproposte insieme alla Storia di un brigante, come una necessaria introduzione alla comprensione della grande isola-nazione. (Una lingua che a me ricorda anzitutto, e mi scuso per mettermi di nuovo in campo, le lettere che ho ricevuto per anni da un ergastolano italo-americano, David William Bianchi, cacciato come indesiderabile dagli USA e luogotenente del bandito Barbieri nella turbolenta Milano della Liberazione…).
È vero, come disse Natalia Ginzburg, che la lingua di Bordonaro è “rocciosa, simile a un sentiero di montagna che sale e scende in mezzo alle pietre”, […] senza “artifici o accorgimenti, nemmeno rudimentali” e che è una “scrittura selvaggia” però ampiamente dotata della “facoltà di comunicare”. Ma non è vero, credo, che essa “non assomiglia a niente che abbiamo già letto”. È la lingua delle “classi subalterne”, è la lingua scritta degli illetterati, dei semi-analfabeti, una lingua che trasceglie dal vissuto i fatti salienti e significativi per il protagonista-narratore e che è anche in questo significativa e comunicativa, perché ci ricorda come venga vissuta da los de abajo, come dicevano gli scrittori spagnoli e latino-americani, la Storia con la maiuscola, a partire dal prisma dell’esperienza diretta. Che non è mai piccolo. Che è stato e in parte è ancora, nonostante la rivoluzione del web, la lingua universale che troppi letterati hanno creduto non esistesse che oralmente, che non avesse dignità se non orale: la lingua degli “illetterati” e degli “innalfabeti” che sono stati la massa e il sale del genere umano.

[…]

Nessun commento:

Posta un commento