La recente lettera di Papa Francesco ad un esponente del mondo laico italiano ha suscitato notevole interesse. Anche in questo gesto è stato colto un segno dei tempi. Ci sembra di essere tornati al clima conciliare dei primi anni sessanta che gli ultimi papi avevano cancellato. Francesco torna a parlare a tutti, con uno stile nuovo che ricorda tanto quello di Giovanni XXIII.
A questo punto però il dialogo deve spingersi più avanti del passato. Non basta più cercare quello che unisce tutti gli uomini di buona volontà. Se il vero, il bene, il giusto esistono, non deve apparire insensato cercarli insieme, riconoscendo che nessuno li possiede da
solo. fv
GUSTAVO ZAGREBELSKY - QUEL CAMMINO COMUNE
LO STATO laico è un aspetto della
secolarizzazione, cioè del rovesciamento della base di convivenza tra gli
esseri umani: dalla trascendenza all’immanenza; dall’eternità al saeculum; da Dio
agli uomini; dalla Chiesa alle istituzioni civili. Questo rovesciamento ha
investito tutti gli aspetti delle relazioni sociali e quindi anche le relazioni
politiche. La città degli uomini s’è resa autonoma dalla città di Dio.
La
secolarizzazione, tuttavia, non significa affatto poter fare a meno d’una
dimensione trascendente della vita collettiva. Senza una forma di trascendenza,
non c’è società possibile. Ci sarebbe soltanto collisione d’interessi in
conflitto. La società secolarizzata ha posto il rapporto tra istituzioni civili
e fedi religiose in una luce diversa da quella che, per secoli, l’ha
illuminato. La scena non si è affatto semplificata. La questione resta aperta,
e le discussioni mai sopite ne sono la prova. Thomas Mann ha espresso questo rapporto
mobile con l’immagine dello scambio della veste: «Significherebbe disconoscere
l’unità del mondo ritenere religione e politica due cose fondamentalmente
diverse, che nulla abbiano né debbano avere in comune, così che l’una
perderebbe il proprio valore e finirebbe per essere smascherata come falsa
qualora si potesse dimostrare che in essa vi è traccia dell’altra […] In verità
religione e politica si scambiano per così dire le vesti […] ed è il mondo
nella sua totalità che parla, quando l’una parla la lingua dell’altra».
Ciò
che, invece, è chiaro è che la secolarizzazione ha scalzato la Chiesa dal mono-
polio della funzione culturale unificatrice ch’essa, nei secoli, ha preteso di
occupare: la gerarchia è stata sostituita da patti, espliciti o impliciti,
esclusivamente orizzontali. Il contrattualismo e il convenzionalismo sono le
teorie politiche di questa concezione. Non esistono più sovrani di diritto
divino; il governo delle società non è per grazia di Dio, ma per volontà del
popolo o della nazione.
Noi
siamo immersi in questa visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò
significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, d’un
punto di riferimento comune che stia sopra ciascuno di noi? Di una forza
culturale che c’induca ad atteggiamenti solidaristici, ci muova a obiettivi
comuni, promuova atteggiamenti, se non amichevoli, almeno non ostili tra chi
riconosce la propria appartenenza a una cerchia d’individui che, insieme,
formano unità? La dimensione puramente intersoggettiva dei rapporti è
sufficiente a creare legami nella vita concreta d’individui che, per lo più,
non si sono mai incontrati, faccia a faccia? L’esigenza di qualcosa che li
trascende, in cui si possa convergere, è permanente, anche se il modo di
soddisfarla è vario nel tempo.
Quest’esigenza,
che ci pervade in misura più o meno intensa a seconda delle circostanze
storiche, nasce dal fatto che la società non è la mera somma di molti rapporti
bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È, invece, un
insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono parti d’una medesima
cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Questa è
la questione decisiva per ogni vita sociale: “senza conoscersi personalmente”.
Come può esserci società, tra perfetti sconosciuti?
Qui
entra in gioco “il terzo” astratto, il punto di convergenza trascendente. Più
si risale indietro nel tempo, più risulta difficile distinguere tra istituzioni
religiose e istituzioni civili. Jan Assmann, il sapiente studioso del posto
delle religioni nell’Antichità, ha mostrato questo intreccio, affascinante per
un verso, terribile per un altro. Per molti secoli, il terzo astratto si è
rappresentato come il Dio, o gli Dei, della religione ufficiale, vigente in ciascuna
delle società umane. Si tratta della cosiddetta “religione civile” o, meglio,
della religione in funzione d’unità sociale. Nella tradizione classica, la religio
civilis, cioè il culto dovuto ai propri dei, assurgeva a fondamento della virtù
repubblicana, quella virtù che induceva i singoli ad anteporre all’interesse
individuale il bene comune, il bene della res publica, e li disponeva ad atti
di dedizione ed eroismo, testimoniati nelle historiae della Roma repubblicana.
Facciamo
un salto nel tempo. Nell’“allons enfants de la Patrie” della Marsigliese c’è
già tutta l’essenza del problema moderno della religione civile: la Patrie era
il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants: dunque fratelli
tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per
mezzo dei loro simboli politici, dopo aver abbattuti quelli teologici
dell’Antico Regime. Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-1794, in pieno
disfacimento della Francia rivoluzionaria, il “terzo” cambia natura, si
cristallizza. L’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”.
Compare la Dea Ragione, con i suoi templi, spesso chiese profanate, con i suoi
riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane
istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da
lui stesso celebrato, l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, al campo di
Marte sotto la regia di J.L. David. La vecchia religione e il vecchio Dio erano
stati uccisi, ma se ne tentava una risurrezione deista, per tenere insieme una
società in disgregazione. Quella cerimonia, artificiosa e ridicola perfino agli
occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo,
anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase
terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto
giustificava. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo la celebrazione,
entrava in vigore la Legge di pratile, la legge che porta al colmo il regime
del terrore giacobino, in nome dell’ossimoro formulato da Robespierre stesso:
“dispotismo della libertà”. La vicenda rivoluzionaria è rivelatrice. “Il
terzo”, quando si prospetta sulla scena, è, all’inizio della storia, un fattore
di liberazione. Ma, in seguito, ciò che è stato liberatorio può trasformarsi in
strumento d’oppressione morale, quando perde la sua autonomia, subordinandosi
alle ragioni e agli interessi del potere e diventando propaganda e imbonimento
e, perfino, “terrore”. In un saggio del 1967, dal titolo La formazione dello
Stato come processo di secolarizzazione, il costituzionalista cattolico tedesco
Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un “motto” che oggi è diventato quasi
una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla
base della politica, nell’interesse non tanto della religione, quanto della
politica stessa. È il motto della cosiddetta post-secolarizzazione: «Lo stato
liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di
garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della
libertà». Cerchiamo di comprendere. Ogni regime politico si basa su un
principio dominante, una “molla”, una “passione” che alimenta l’ethos pubblico
che lo fa muovere. Ed è nella natura delle cose, anche politiche, che questo
principio primo – nel nostro caso, “l’amore per la libertà”, tenda a rendersi
assoluto, con ciò realizzando non la perfezione ma l’inizio
dell’autodissoluzione. Non c’è ragione per escludere che ciò valga anche per
qualunque forma di governo, compresa la democrazia basata sulla libertà. Se
essa alimenta la pura e integrale libertà, cioè l’egoismo senza freni e
correttivi altruistici, realizzando integralmente la sua “molla”
individualistica, sprigionerà anch’essa la forza autodistruttiva d’ogni regime
che voglia rendersi assoluto.
La denuncia
teorica, circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri
presupposti di stabilità, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente
letteratura sulla decadenza delle società occidentali che, per diversi aspetti,
è una ripresa drammatizzata di quella diffusa nell’Europa del secolo scorso,
tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate,
disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni
autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo la vibrante
accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di
natalità, l'invecchiamento delle generazioni e la chiusura alla vita e al
futuro; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di senso e
anima e dotate di ambizioni smisurate; l’edonismo e l’idolatria del denaro
associato al potere. Benedetto XVI, calcando la mano, ha introdotto
un’espressione sorprendente e, almeno a prima vista, perfettamente contraddittoria:
la “dittatura del relativismo”. Sarebbe una “dittatura” che «lascia il proprio
io solo con le sue voglie » (espressione che ricalca le più crude formule di
condanna usate nei confronti del liberalismo del primo ‘800). Su questo humus s’innesta
una nuova proposta del magistero cattolico come forza salvifica generale, anzi
universale, valida al di sopra delle divisioni pluralistiche della società.
Ovviamente, una proposta di questo genere, in quanto formulata quasi come
offerta di protettorato etico da parte del magistero cattolico, contraddice la
libertà e l’uguaglianza delle coscienze individuali: due aspetti irrinunciabili
dello “stato liberale secolarizzato”. Essa sottintende la condanna del
relativismo, che è invece l’essenza dell’uguale libertà; pretende l’esistenza
di materie eticamente “non negoziabili” nelle quali il legislatore civile debba
porsi al servizio delle concezioni della Chiesa; comporta disuguaglianza tra le
confessioni religiose, a favore del primato di quella cristiano-cattolica a
detrimento di tutte le altre, per non dire delle visioni del mondo atee. Queste
– secondo un’espressione terribile, anch’essa di Böckenförde – sarebbero
destinate a «vivere come nella diaspora». In altri termini, la cittadinanza piena
sarebbe appannaggio dei soli cattolici, e lo Stato assumerebbe, ancora una
volta, la veste confessionale.
Il
Concilio Vaticano II ha tentato una “conciliazione” del cattolicesimo con il
“mondo moderno”, espressione sintetica per dire: col pluralismo etico e
politico. L’invito ai cattolici a impegnarsi in re civili a fianco dei non
cattolici, con spirito di collaborazione e autonomia di giudizio era chiaro.
Così come chiaro era l’inibizione d’usare l’autorità della Chiesa per sostenere
posizioni politiche (“non osino” invocarla a proprio vantaggio). Sappiamo come
sono andate le cose, soprattutto nel nostro Paese. Questa indicazione, peraltro
non priva di zone d’ombra, è stata oscurata, messa in disparte, a vantaggio
d’una presenza molto accentuata della Chiesa nella vita politica, per affermare
le proprie verità.
Ora,
il pendolo sembra oscillare dall’altra parte. La gerarchia, con i suoi abusi,
le sue pompe, le sue ricchezze, la sua arroganza, pare lasciare il passo a un
atteggiamento diverso che riscopre la parte del Concilio Vaticano II che, per
mezzo secolo, è stato oscurato (non abrogato: nella storia della Chiesa nulla è
mai abrogato definitivamente).
no
spirito diverso da quello del passato spira nei primi atti e nelle prime parole
del papa attuale, Francesco. Nella Enciclica Lumen fidei (n. 34), troviamo
scritto risultare «chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella
convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la
verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci
abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci
mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti».
Nella lettera a Eugenio Scalfari, pubblicata
su questo giornale l’11 settembre scorso, il Papa indica la necessità di
«cercare […], le strade lungo le quali possiamo, forse, incominciare a fare un tratto
di cammino insieme». Non si dovrebbe parlare, per il Papa, «nemmeno per chi
crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò
che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è
l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione ».
In
ogni spirito che s’ispira alla laicità e, al contempo, crede all’utilità, anzi
alla necessità che forze morali possano unirsi per combattere il materialismo
nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile,
l’invito a «reimpostare in profondità la questione» suscita non solo interesse,
ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono,
che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li
possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del
discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà. Il vero, il bene, il
giusto possono dipanarsi nella storia, senza mai, però, raggiungere la
pienezza. Le tappe del cammino sono i giudizi che gli esseri umani pronunciano
“in coscienza”. Per i credenti, la pienezza ci sarà, ma non ora, in “questo”
tempo; per i non credenti, l’idea stessa d’una raggiungibile “pienezza” è senza
significato. Tuttavia, non è affatto privo di significato l’operare insieme per
combattere la menzogna, il male, l’ingiustizia. Tutti siamo nella dimensione
del contingente: i credenti, nella fede di poter sempre umilmente procedere
verso il bene; i non credenti, nella convinzione di poter sempre
provvisoriamente combattere il male. Il terreno per operare insieme, per fare
un cammino insieme, è aperto. Una chiosa, però: il Papa, rispondendo a
Scalfari, parla di “tratto di cammino”. Questa espressione non è priva
d’ambiguità: dove si colloca, e chi decide dove si colloca la fine del
“tratto”? E che cosa accadrà, allora? Su questo, un chiarimento da parte di coloro
che si protendono la mano sarebbe necessaria.
La Repubblica, 23 settembre 2013
P. S. La brevissima nota con cui ho voluto introdurre l'intervento di Zagrebelsky ha suscitato tra i lettori maggiore interesse del lungo e farraginoso testo del celebre giurista pubblicato oggi. D'altra parte non avevo alcuna intenzione di proporre il ragionamento di Zagrebelsky come modello quanto piuttosto come stimolo ad una più aperta ed approfondita discussione.
La breve replica di Rosario Giuè che pubblico di seguito costituisce per me un importante contributo in quest'ultima direzione. Anche per questo lo ringrazio particolarmente:
Caro Francesco, condivido ciò che hai scritto. sulla necessità di continuare e approfondire il dialogo. Non si può fare su tutto in un memento solo.
Ma trovo molto supponente, per esempio, l'approccio che hanno a questi temi Augias o anche il filosofo Galimberti.
Vorrei fare un brevissimo dialogo con te. Parlando della ragione/ragionevolezza.
Ragionevole o razionale sono per te la stessa cosa? Per me, no. Il termine ragionevole è usato spesso da Hans Kung ( ti invito a leggere il suo recente "Tornare a Gesù, per il taglio storico-critico). Ecco, mi piacerebbe che si prendesse sul serio la ragionevolezza, che non è l'esattezza dell'esperimento, ma non è insensatezza o supertstizione.
L'amore, la speranza, dunque, la fede, sono ragionevoli, non sono razionali nel senso ottocentesco o illuministico (Dea ragione). Che ne pensi? L'approccio di Augias e di Galimberti mi pare un dogmatismo all'incontrario di quello vetero-clericale.
La ragionevolezza della fede, ecco il punto. Per rispettarsi. E prendersi sul serio. Non l'accusare di infantilismo chi ha un'esperienza di fede (o di amore, o di libertà).
Detto questo, l'esperienza di fede (ragionevolmente fondata o argomentata, cioè su base umana) non ha alcun diritto di imporre agli altri la propria visione etica, come ha provato a fare la Conferenza Episcopale in questi decenni post-conciliari. E' stato un grave errore che ha alimentato l'anticlericalismo, giustamente.
Ti abbraccio (se lo ritieni, puoi pubblicare questa brevissima nota). Rosario
Ho sentito stamane il discorso fatto a braccio dal papa al popolo sardo nella piazza di Cagliari. Ha toccato le corde più sensibili dell'animo popolare parlando del lavoro della dignità e della speranza. Ha attribuito la difficoltà della Sardegna e quella dei lavoratori di tutto il mondo alla globalizzazione che ha al suo centro non l'uomo e la donna ma il Dio Denaro. Non ha pronunziato la parola capitalismo ma quando parlava di Denaro si capiva perfettamente che parlava proprio del sistema capitalistico. Ha detto che la globalizzazione è basata sugli scarti: lo scarto degli anziani che vengono lasciati morire senza cure e lo scarto dei giovani che hanno difficoltà enormi a trovare lavoro. Ha legato la dignità al lavoro, dicendo che senza lavoro non c'è dignità. E' una cosa che io non condivido ma il senso che gli dava il Papa non è da rifiutare.
RispondiEliminaMolte persone piangevano commosse e toccate profondamente dal discorso del Papa. Persone che sono da anni in cassa integrazione o disoccupati e che non hanno finora ricevuto conforto da parte di nessuno.
Mi ha ricordato che i momenti più salienti dei discorsi di grandi leader popolari come Di Vittorio, Nenni, Pertini, Togliatti, Berlinguer erano segnati dalla profonda commozione del popolo, dalle lacrime della gente sofferente che trovava finalmente conforto e luce nelle parole dei grandi interpreti delle speranze popolari.
Con tristezza ho pensato che oggi le lacrime di riconoscimento e di riconoscenza vengono versate per il discorso del Papa e non di un leader politico che ha anche gli strumenti politici per organizzare e rendere possibile il riscatto.. Cose che il Papa non ha. Il Papa si limita a segnalare la sua vicinanza verso le vittime del capitalismo e la loro sofferenza.
Riflettevo sul fatto che questo Papa spiazza l'establishment del PD e della stessa CGIL che hanno accettato da anni la globalizzazione che viene energicamente rifiutata e condannata da Francesco.
Che cosa racconteranno i PD e la CGIL da anni convertiti al monetarismo malthusiano e che predicano il pareggio di bilancio anche se questo fa sgorgare lacrime e sangue e milioni di persone?
I PD e la CGIL che accettano la legge Biagi che fa dei giovani "scarti", che sono per le guerre colonialiste e che hanno portato la pensione a 70 anni riducendola a circa un terzo del salario sono stati spiazzati a Cagliari e prima ancora a Lampedusa da un Papa che forse la Chiesa tenterà di fermare o di sfumarne la predicazione.
Pietro Ancona
STRAORDINARIO DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AI LAVORATORI E IMPRENDITORI DELLA SARDEGNA. Riporto a braccio quel che ricordo: "Coraggio!!! E' facile dire coraggio da un Papa, un impiegato della Chiesa che poi se ne va... Ma io non lascerò che resti una parola vuota faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità per darvi una mano concreta"
RispondiEliminaE ancora: "Conosco il vostro dolore perchè l'ho vissuto in famiglia,
la mia famiglia è stata una famiglia di immigrati"
"Viviamo in un sistema economico mondiale sbagliato che adora un idolo: IL DENARO. E questo idolo è nemico dell'uomo. Noi dobbiamo mettere al centro l'uomo e la donna ..... che col loro lavoro sono serviti e servono a migliorare e a mandare avanti il mondo in cui viviamo. "
"il lavoro è dignità ..... non possiamo rinunciare alla dignità!!! E nonostante i tempi siano duri non possiamo rinunciare
alla speranza, speranza non è ottimismo, è molto di più, è solidarietà tra voi, tra noi perchè questo stato di cose cambi"
Pregate con me: Dio aiutaci ad avere lavoro. a LOTTARE per il lavoro"
Cosa fanno i politici? Il Pdl a salvare Berlusconi. Il Pd a litigare con Renzi e a vedere se riesce a farlo fuori. Il governo con Letta alla stabilità ..... ma di che? Del lavoro che non c'è? Di questo mondo idolatra? Papa Francesco: tra questi NANI è un gigante!!!!
Vuela alto este Papa, pero antes de emocionarme, quiero esperar, las palabras son fáciles de decir, y la caída puede ser en picado, porque este Papa, molesta a muchos...
RispondiEliminaPablo Rey
Non avrei mai pensato di dover dire un giorno VIVA IL PAPA! Ma Francesco e' davvero straordinario!
RispondiEliminaCaro Rosario, non ti curare troppo di Corrado Augias, Umberto Galimberti ( e, aggiungo io Odifreddi). Si tratta di personaggi televisivi, privi di profondità e serietà! Zagrebelsky, pur con tutti i suoi limiti, merita più attenzione.
RispondiEliminaPer ora è a “Striscia la notizia”, ma altri sviluppi sono prevedibili. Il papa vedette è una novità. Francesco non è il primo papa che fa interviste, ma la prima vedette sì. Paolo VI che inaugurò la pratica con un giornalista fu contegnoso, nel ruolo, Francesco I con un gesuita è come se fosse allegro da Maria De Filippi. Potendo infine leggere le venti pagine di “Civiltà Cattolica”, per il pubblico “lanciate” in flash, per il pronto consumo che il genere vuole – “Papa Francesco mette a segno un altro colpo mediatico”, titola “la Repubblica”, il giornale del papa.
RispondiEliminaOra tutto quello che Antonio Ricci e Dario Ballantini hanno divisato per “fare il papa” popò a “Striscia la notizia”, il papa fa. Compreso bere alla cannuccia di qualcuno che gliela porge in piazza. Di suo il papa twitta, telefona, fa la foto coi fan, scrive a “Repubblica”, dorme in pensione, si risuola le scarpe (di gomma?), impone le mani, passa il tempo coi disoccupati. Ogni giorno va in tv, come se ogni giorno avesse qualcosa da dire, è tipico dei messia. E governa con collaboratori incapaci e inaffidabili. Insomma ha confuso il papa con Gesù. Anche la pensione dove abita, Santa Marta, è una ex casa per prostitute, seppure già redente, quelle di Ignazio di Loyola. Farà cardinale una donna, e anche questo è giusto, Gesù l’avrebbe fatto. Avrebbe anche preso una discepola donna, tipo Francesca Immacolata Chaouqui, perché no.
E “Amici”, Gesù non sarebbe andato ad “Amici”? Il papa non c’è andato, non ancora. Ma non è detto. Anche se il Cristo non poneva problemi, quelli li conoscono tutti, dava soluzioni.