Quello che colpisce di
più nell'Italia di oggi è l'assoluta mancanza di memoria, non solo
storica, ma anche civile. E' su questo vuoto più che sulle
televisioni che si sono costruite le fortune di partiti come la Lega
o Forza Italia. Ma è un fenomeno che ha radici lontane.
I conti col
passato di un Paese che assolve tutti
Silvia Truzzi intervista lo storico Gianni Oliva
Che siamo un paese incapace di epurazioni lo si capisce bene osservando le vicende di questi giorni. O di vent’anni fa, quando – scavallata Tangentopoli – l’intera classe politica, processata e condannata, passò in tutta serenità da una Repubblica al-l’altra. Anche la Seconda guerra mondiale spiega molte cose: “La vulgata parla dell’8 settembre ‘43 come del giorno della scelta, della gente che va in montagna, dell’inizio della resistenza”, spiega Gianni Oliva, storico e autore de L’Italia del silenzio (Mondadori). “In realtà se si vanno a vedere le testimonianze delle persone che la resistenza l’hanno fatta davvero – da Calamandrei a Calvino a Fenoglio – ci si accorge che l’8 settembre fu un momento di grande confusione, in attesa di una liberazione che avrebbe comunque dovuto arrivare da altre”.
Professore, “il vizio assurdo” del silenzio ha attraversato la storia d’Italia fino a qui.
Quando la guerra è finita abbiamo fatto finta di averla vinta. E la Resistenza è stato quello che ci ha permesso di sostenere che eravamo dalla parte dei vincitori. Ma è stata una guerra civile! Non poteva non esserlo. Noi il fascismo l’abbiamo inventato, non è che ce l’hanno imposto con un’occupazione, come è capitato nella Francia di Vichy. Avevamo inventato il modello, era ovvio che da quello si uscisse con uno scontro che era anche culturale oltre che fisico. La resistenza è stata da un punto di vista geografico concentrata nel Nord e da un punto di vista quantitativo ha coinvolto un numero di persone che è sicuramente significativo, ma che non permette di dire che la maggioranza degli italiani ha aderito alla resistenza. Un grande storico liberale, Rosario Romeo, diceva: “La resistenza, opera di pochi, è stata usata da tanti per evitare di fare i conti con il proprio passato”. È stata proposta una rilettura del Ventennio nel quale la responsabilità di tutto ciò che accadeva era stata del re e di Mussolini. Nei manuali scolastici si legge che nel ‘31 Mussolini obbligò i professori universitari a giurare fedeltà al regime. E si ricordano i 12 che si rifiutarono di giurare. Giustissimo parlarne, ma bisogna anche dire che i professori universitari quel-l’anno in Italia erano 1.848: i 12 non sono statisticamente rilevanti.
Lo scontro fascismo-antifascismo è rimasto vivissimo durante tutto il ‘900, almeno come contrapposizione dialettica.
Lo scontro si è basato su un’interpretazione parziale del passato. Il fascista non è mai stato quello del Ventennio, ma quello di Salò. Se il fascista è solo quello, è chiaro che si assolvono tutti quelli che per vent’anni hanno retto le sorti del regime approfittandone in termini di carriera e guadagni. Quest’ambiguità interpretativa è essenzialmente servita a permettere che la classe dirigente transitasse da prima a dopo senza pagare pegni. Tutto ciò che ricordava che l’Italia aveva fatto una guerra e l’aveva persa è stato rimosso. Sui criminali di guerra italiani c'è stato un incredibile baratto dei silenzi. Alla fine del conflitto, la Commissione internazionale per i crimini di guerra ha mandato a Roma la richiesta di 2.200 estradizioni di ufficiali e funzionari accusati di aver compiuto crimini contro i civili in Jugoslavia, in Albania e in Grecia. L’estradizione avrebbe permesso che queste persone venissero processate nei paesi che ne avevano fatto richiesta. De Gasperi si mise di traverso, affidando la pratica al sottosegretario Andreotti che cominciò a prendere tempo.
Da che mondo è mondo si processano i vinti, non i vincitori.
Appunto. Dagli archivi è saltata fuori una lettera di Pietro Quaroni, che era l’ambasciatore italiano a Mosca, indirizzata a De Gasperi: “Caro Alcide, te l’avevo detto che questi criminali dovevamo processarceli noi; dargli trent’anni e tra due o tre anni, quando più nessuno ne avrebbe parlato, farli uscire. Visto che non l’abbiamo fatto abbiamo una sola strada. Cioè non pretendiamo di estradare e processare criminali di guerra tedeschi che hanno commesso crimini in Italia”. Così si spiega l’Armadio della vergogna, perché tutti i dossier relativi ai crimini di guerra compiuti in Italia dai tedeschi sono stati mandati da quella commissione a Roma con nomi, cognomi, gradi e indirizzo dei responsabili. Ma sono stati messi in un armadio nel sottoscala della Procura militare di Roma con le ante rivolte verso il muro. E lì sono rimasti fino al 1994 quando un impiegato incauto ha girato l’armadio e si è scoperto che sapevamo tutto da cinquant'anni.
In questo clima di grande rimozione quanto ha pesato l’amnistia Togliatti?
L'amnistia Togliatti è stata, per certi versi, comprensibile. Non si possono trascinare troppo a lungo i processi se si vuole uscire da un periodo turbolento come è stato quello della guerra. Il punto non è solo il processo alle singole persone, quello che è mancato è una consapevolezza delle responsabilità collettive. Di tutti quelli che durante il ventennio hanno fatto i maestri, i professori, i giornalisti, chi rappresentava i grandi poteri economico finanziari, l’esercito, la magistratura: tutti quelli che per convenienza, indifferenza, complicità o convinzione hanno sostenuto il regime.
In un capitolo lei dice che la letteratura spiega il fascismo meglio della storia: perché?
Il letterato, quando racconta, lo fa sulla spinta di un’emozione. Ciò che muove lo storico invece è un processo razionale. In un libro come Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino trovi una Resistenza che non ha nulla di eroico, ma è piena di contraddizioni, debolezze, casualità. La letteratura arriva prima, spesso dice cose che la storiografia trascura per anni. Penso alle esecuzioni successive alla fine della guerra, quelle che poi Pansa ha trasformato in un libraccio, Il sangue dei vinti, dove si dicono tutte cose vere, ma non c'è nulla che faccia capire perché sono accadute. La ragazza di Bube, di Carlo Cassola, pubblicato nel ‘58, racconta esattamente la stessa cosa. Il partigiano Bube che a guerra finita uccide il maresciallo del suo paese perché era stato fascista.
(Da: il Fatto 11
settembre 2013)
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