26 settembre 2013

BERTOLUCCI, ARTE E VERITA'


 Una scena di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci.


GRAZIANO GRAZIANI - BERTOLUCCI, ARTE E VERITA'

L’aneddoto raccontato da Vittorio De Sica sulla lavorazione di «Ladri di biciclette», dove per ottenere un pianto di “scottante verismo” il regista umiliò pubblicamente il piccolo protagonista di nove anni, Enzo Staiola, ha avuto molta fortuna nella cultura popolare. È stato anche al centro di un passaggio di «C’eravamo tanto amati», memorabile commedia di Ettore Scola. Cos’era successo? De Sica aveva fatto nascondere delle cicche di sigaretta nella giacca del ragazzino, aveva fatto finta di trovarle per caso e fingendo scandalo gli diede del “ciccarolo”: il ragazzino pianse a dirotto.
Mi è venuto in mente questo aneddoto leggendo la polemica che c’è stata sui giornali in questi giorni per quanto dichiarato da Bernardo Bertolucci – e riportato da la Repubblica – riguardo la famosa scena di «Ultimo tango a Parigi», la cosiddetta scena del burro. Lui e Marlon Brando si accordarono, senza dire nulla a Maria Schneider, per ottenere una scena di sodomia più credibile. Anche in quel caso l’attrice, che aveva vent’anni, parlò di umiliazione.
Poiché il secondo dei due aneddoti “veristi” ha a che vedere col sesso, e per di più con la sodomia, non è stato accolto con la stessa bonaria simpatia che suscita il primo. Ne è nata “una gazzarra di commenti”, per dirla con Elena Stancanelli che è intervenuta sulla polemica sempre dalle pagine di Repubblica. Alcuni di questi commenti tirano in ballo il corpo delle donne come merce e arrivano a ventilare che è come se si fosse trattato di uno stupro. Così la scrittrice si è sentita in dovere di intervenire contro chi sposta “i confini tra realtà e finzione dove fa più comodo”, contro le anime belle che si scandalizzano per il cinismo del regista.
È chiaro che arrivare a equiparare tout court il comportamento di Bertolucci a un vero e proprio stupro è ridicolo, prima ancora che sciocco. È il risultato della faciloneria di un pensiero binario che tende a non vedere sfumature. Su questo non si può che concordare con Elena Stancanelli. Che però, presa dalla sua invettiva, finisce per giustificare il cinismo del regista non con il rigore della logica (è solo un film), ma attraverso un pensiero altrettanto binario. «Bertolucci è un grande regista, e sono sicura che nella sua carriera avrà maltrattato, ferito, fregato moltissime attrici e attori. Per ottenere quello che voleva. È così che si fa», chiosa Stancanelli.
Ammetto di entrare nella polemica in modo molto laterale. Il perbenismo che non consente di distinguere un film dalla realtà è certamente sciocco, ma come tale poco interessante (e comunque un conto è affermare che un film è un film, un altro rilevare che durante la recitazione di quel film un soggetto debole non è stato tutelato a dovere). Più interessante, invece, è per me quel meccanismo che ha permesso agli artisti di non mettere un confine tra finzione e realtà. Un meccanismo in grado di far considerare un certo tipo di comportamento, che in un altro contesto sarebbe censurato, come qualcosa di positivo. Come “uno dei metodi per ottenere verità al cinema”, per dirla con Stancanelli. Qualcosa che fa male, ma in fondo che ci si può fare? “L’arte è così, fa un po’ male a chi la fa”.
Nel corso del Novecento (e anche oggi) l’arte è stata per molta gente un orizzonte esistenziale. Qualcosa che dà senso alla vita, per intenderci. Ed è per questa sua funzione che, in certi casi, le è stata attribuita una valenza pari a quella che si attribuisce a una religione. In un certo senso per l’arte – esagero, ma non troppo – si può morire. È questo il motivo per cui l’artista può tenere una morale, se non doppia, quantomeno parallela a quella della vita reale. Puoi sentirti positivamente scandalizzato da film, magari perché scuote il tuo sistema di valori borghese, ma guai a spendere tempo e comprensione per un’attrice che si è ritrovata – per dirla con lo stesso Bertolucci – in qualcosa più grande di lei. È un prezzo da pagare in nome dell’arte.
Come accade per le religioni, anche l’arte ha i suoi fanatici. E uno dei fanatismi più ricorrenti riguarda proprio il dolore e, per estensione, il sacrificio. Guarda caso, due termini religiosi. Dall’artista maledetto a quello sofferente, la casistica degli ultimi due secoli è piuttosto nutrita. Ma spesso frutto di un equivoco. Perché certe opere d’arte saranno anche scaturite dalla sofferenza, ma da quella provata dall’artista in sé e non da quella imposta su qualcun altro. Ha a che vedere con le motivazioni dell’artista, con l’intima essenza dell’opera, e non con una qualunque metodologia di lavoro. Altrimenti ci ritroviamo in quel territorio del pensiero binario in cui c’è ancora chi crede che il “teatro della crudeltà” come lo intendeva Artaud dovesse contemplare gesti letteralmente crudeli e violenti sulla scena.
Nel teatro, ad esempio, ci sono svariate aneddotiche che riguardano severissimi maestri che impongono esercizi così crudeli da rivelarsi delle vere e proprie violenze. Se ne accenna anche ne «Il serissimo metodo Morg’hantieff», riflessioni di due fittizi registi russi (Il Maestro Morg’hantieff e suo nipote Claudienko) dietro cui si cela l’acume di un artista come Claudio Morganti. Si parla di Russia per parlare, ovviamente, anche dell’Italia. «Mi dicono che a quelle latitudini ci sono dei registi molto crudeli – spiega Morganti in un’intervista – e dal momento che è facilissimo far piangere un attore, perché gli attori sono gli esseri più fragili e più buoni del mondo, Claudienko se la prende con chi utilizza queste pratiche di tortura. Si tratta però certamente di un’esperienza strettamente legata al suo freddo paese, la Russia”.
Velata dall’ironia, la concezione di Morganti apre però uno spiraglio luminoso verso un’idea di arte dove non è più «così che si fa». Dove è l’interazione con la sensibilità dell’attore a produrre verità, non la spinta violenta di un regista che tutto può e tutto sa, e ha quindi il diritto di plasmare l’attore a suo piacimento. Che lo spirito dei tempi vada in questo senso, o almeno anche in questo senso, sembra evidente da più segnali. La recitazione post-drammatica ne è un esempio. La messa in crisi dell’idea del grande regista demiurgo, un altro. E persino lo stesso Bertolucci in qualche modo lo intuisce se, commentando quel suo comportamento, afferma che esso “non appartiene all’oggi”. A rivendicarlo, dunque, restano soltanto i nostalgici dell’artista maudit, che oggi come oggi è più che altro un trito cliché critico – quando non una palese strategia commerciale – più che non un dato sostanziale del panorama artistico contemporaneo.
Persino il tema della “verità”, posto in quei termini otto-novecenteschi, credo sia qualcosa fuori tempo massimo. La vittoria di un documentario come «Sacro Gra» alla Mostra del cinema di Venezia di quest’anno è una testimonianza di come i termini del discorso artistico, nel rapporto tra arte e realtà, si stiano spostando definitivamente. Ma anche rimanendo nell’ambito della fiction, l’ultimo saggio di Walter Siti – «Il realismo è l’impossibile» – spiega con lucidità come l’effetto “realistico” non scaturisca dalla coincidenza dell’opera con la realtà, ma piuttosto da un certo grado di distanza da essa che, messa in arte, dà luogo per l’appunto a un discorso sulla realtà che sia credibile.
È poi così importante la “verità al cinema” che invoca Stancanelli? È dai tempi di Platone che gli artisti vivono una sorta di complesso d’inferiorità rispetto alla realtà, nonostante da tempo l’arte abbia dismesso al sua funzione mimetica. E questo complesso ha creato nel tempo un altro fanatismo, che ha a che fare con la “verità” presa in termini assoluti. Si tratta di un fanatismo che comprende una vasta gamma di applicazioni, che vanno dalla rappresentazione assolutamente realistica ottenuta con ogni mezzo fino agli squali sotto formaldeide di Damien Hirst. Non a caso il binomio principe di questo fanatismo è stato, per tutto il Novecento, lo scandalo e lo shock. Ma a chi non è evidente che il dispositivo dello scandalo, che nell’Ottocento e in parte del Novecento è stato un reale meccanismo di conoscenza in grado di scardinare il pensiero borghese, sia oggi piuttosto un addomesticato dispositivo di marketing?
Sia chiaro, credo che sia del tutto superfluo fare il processo a un film del 1972 e al suo regista che operava in una temperie culturale diversa dalla nostra. Ma credo sia anche doveroso, a oltre quarant’anni da quell’opera, disfarci di certa retorica maudit che, nel 2013, altro non serve che a flirtare col mercato.
È chiaro, infine, che l’arte deve avere anche oggi a che fare con la verità, ma non in quanto si sostituisce ad essa. Non è nel sostituirsi alla vita che l’arte colma il gap con la realtà. Essa ha a che fare con la vita nella misura in cui è in grado di essere un discorso significativo sul mondo. Un meraviglioso strumento di conoscenza che va oltre gli strumenti della razionalità e della logica. Per fare questo, l’arte ha più buon gioco nell’entrare in relazione con quegli “esseri fragili” che citava Morganti – che potrebbero essere gli attori ma anche gli spettatori – piuttosto che utilizzarli come oggetti di un dispositivo. Perché altrimenti sprofondiamo immediatamente in una delle tante logiche che l’arte, con la sua morale doppia, o parallela, dice spesso di voler combattere: quella del potere. Per dirla con Vassili Claudienko: «Se non riuscite a fare a meno di sentirvi leader, non potete avere a che fare con il teatro e nemmeno con lo spettacolo. Provate con la politica».

Da   http://www.minimaetmoralia.it/wp/bertolucci-ultimo-tango-a-parigi/

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