In questo blog abbiamo già parlato del racconto di Federico De Roberto, cui si è ispirato Ermanno Olmi nel suo ultimo bellissimo film sulla prima guerra mondiale. Ci torniamo oggi con un pezzo pubblicato da un sito che seguiamo con simpatia http://www.leparoleelecose.it/
La paura. De Roberto e la guerra
di Gabriele Pedullà
[Federico De Roberto, uno degli
scrittori che hanno saputo raccontare meglio la prima guerra mondiale,
non aveva mai visto una battaglia. Garzanti ha da poco pubblicato un
volume che raccoglie i suoi racconti di guerra (La paura e altri racconti di guerra, a cura di Gabriele Pedullà). Queste sono alcune pagine dell’introduzione].
Mai raccolte tutte assieme vivente
l’autore, le novelle belliche di De Roberto costituiscono un corpus
quanto mai disomogeneo dal punto di vista della qualità letteraria.
Accanto a due racconti chiaramente molto deboli (Due morti e Il trofeo), ce ne sono almeno altri due di assoluto valore, come La posta e La retata
(quest’ultimo probabilmente ispirato, nel suo revanscismo comico, a
certi scritti brevi di Maupassant sulla guerra franco-prussiana come Compare Milon, Il duello o I prigionieri). Tra le novelle di De Roberto una però svetta nettamente su tutte le altre, La paura: senza dubbio uno dei vertici del racconto italiano dell’intero XX secolo.
Per quanto possa sembrare
contro-intuitivo e persino paradossale (e tanto più in un tempo come il
nostro, che illimitata fiducia ripone nello statuto privilegiato del
testimone), l’essenza profonda del primo conflitto mondiale sembra non
essersi mai rivelata come in queste pagine, scritte – senza mai
abbandonare la Sicilia – da uno narratore che a quell’altezza in molti
ormai consideravano un nobile relitto del secolo passato. Possibile che
il romanziere che non ha mai assistito a una singola battaglia sia
riuscito a cogliere la natura della guerra meglio dei tanti
poeti-soldati che tra il 1915 e il 1918 avevano passato le loro giornate
in trincea, facendo esperienza diretta, sulla propria pelle, della
violenza senza precedenti delle nuove tecnologie belliche? Si stenta a
crederlo, eppure è così: come per Omero e i poeti epici del mito, anche
nel caso di De Roberto la perdita della visione sembra essere stata
compensata con una speciale visionarietà che gli ha consentito si
trascendere il mero dato di cronaca e di calarsi alla radice stessa
dell’evento bellico.
Per molti versi La paura non è
troppo diverso dagli altri otto racconti. I suoi ingredienti principali
sono infatti gli stessi che troviamo anche nelle altre novelle belliche:
la centralità assegnata all’ufficiale (e l’affratellamento ai suoi
uomini nel sacrificio); la moltiplicazione dei dialetti parlati dai
diversi fanti a seconda della regione d’origine; l’importanza del
regolamento nella costruzione dell’intreccio; il colpo di scena finale…
Persino le dimensioni sono quelle delle altre novelle di questi anni
(una trentina di pagine). Tuttavia non è possibile non riconoscere anche
un chiaro elemento di discontinuità: per la prima volta ne La paura
la guerra non è sfruttata solo per osservare con maggiore chiarezza
caratteri e comportamenti, ma costituisce il tema stesso del racconto.
Nel suo percorso di avvicinamento al
fronte, De Roberto lavora in sottrazione, rinunciando a qualsiasi
dettaglio accessorio. Una postazione essenziale dal punto di vista
strategico ma collegata alla trincea italiana da un camminamento esposto
al fuoco nemico; un plotone di soldati guidati da un tenente
caritatevole; un cecchino nemico infallibile: sono questi, a voler
essere sintetici, gli elementi attorno ai quali prende vita il dramma di
De Roberto. Al nocciolo si arriva infatti solo per eliminazione di
tutto quello che non è strettamente irrinunciabile: giudizi morali,
psicologie, descrizioni. E lo stesso De Roberto aveva detto qualcosa di
simile nella prefazione ai racconti di Processi verbali, che, a distanza di oltre trent’anni, offre un primo ritratto piuttosto fedele de La paura:
Se il lettore
sfoglierà anche rapidamente questo volume, vedrà che tutte le pagine
sono piene delle lineette indicatrici del dialogo; due o tre volte
appena ho adoperato il dialogo indiretto. Le mie più lunghe descrizioni
non oltrepassano le cinque righe e credo che non mi si possa addebitare
un sol tratto di narrazione psicologica. In quasi tutte queste novelle
c’è unità di tempo e di luogo; non l’unità rigida e spesso inverosimile
della ribalta, ma quella che si può cogliere sulla scena del mondo.
A voler essere precisi ne La paura
l’analisi psicologica non del tutto è assente e un paio di descrizioni
superano (di poco) il numero di righe indicato da De Roberto; nel
complesso, però, le parole del 1889 si adattano straordinariamente bene
anche al nuovo racconto. Una indicazione soprattutto merita di essere
presa in considerazione. Mentre, come abbiamo visto, gli altri racconti
bellici di De Roberto insistono sulle connessioni e valorizzano la
tensione tra il fronte e le retrovie, La paura punta invece
dall’inizio sul sostanziale isolamento del plotone del tenente Alfani
(un isolamento evidenziato ancora di più dagli sporadici e inutili
contatti con il quartier generale). C’è l’uomo e c’è una montagna quanto
mai inospitale (sicuramente non priva di richiami al Vesuvio messo in
versi dal prediletto Leopardi ne La Ginestra). Ma rispetto al
senso di apertura che dovrebbe comunicare il paesaggio alpino, la
postazione presidiata dai soldati italiani possiede tutte le
caratteristiche di un luogo chiuso e progressivamente sempre più
asfittico. Di qui non si sfugge, sembra dirci De Roberto. E il
riferimento della prefazione ai Processi verbali alla tragedia antica, con le sue unità di tempo e di luogo, suona da questo punto di vista assai pertinente.
La trasformazione delle vette alpine in
un recinto claustrofobico che saremmo portati ad associare più
facilmente ai drammi di Racine o di Alfieri condiziona tutto lo sviluppo
successivo del racconto. De Roberto rifiuta in partenza qualsiasi
romanticismo del conflitto ad alta quota; La paura, anzi,
smentisce in anticipo un’idea destinata a diventare popolare soprattutto
in Germania e in Austria ne corso degli anni Trenta, vale a dire che,
in un conflitto chiaramente disumanizzato dalla tecnica, solo la «guerra
bianca» avesse tenuto in vita l’eroismo tradizionale (e qui, a mero
titolo di esempio, basterà una eloquente citazione da Guerra sulle Alpi
di Fritz Weber, apparso in prima edizione tedesca nel 1934: «La guerra
delle Dolomiti, quei combattimenti tra piccoli gruppi di uomini sperduti
tra cielo e terra, costituisce un caso unico nella storia. Anche se fu
fatto ricorso a tutti gli strumenti della tecnica moderna, restò sempre
una lotta primordiale dell’uomo contro l’uomo, una lotta nella quale si
inseriva la potenza superiore della natura e il furore degli uomini
diveniva gesta di eroi»).
Niente di simile per De Roberto. Al contrario la morte, ne La paura,
è associata a un’idea di meccanicità e di serializzazione industriale
del tutto analoga a quella che aveva contraddistinto gli scontri nella
pianura della Somme o sulle colline del Carso. Non ci sono
mitragliatrici in campo (l’unica che viene nominata è di parte italiana,
e non si è potuto installarla), ma poco importa: per quanto non ancora
tecnologicamente aggiornata alle armi più moderne, con la sua precisione
la carabina del cecchino austroungarico garantisce lo stesso effetto
implacabile, come rileva inorridito il tenente Alfani («l’atroce
ingranaggio ricominciava a funzionare […], il destino inesorabile doveva
compiersi meccanicamente»). A un simile stillicidio nemmeno l’eroismo
resiste. È probabile così che nella ideazione del proprio racconto De
Roberto sia partito proprio dal finale, dove un soldato sino a quel
momento famoso per i suoi atti di coraggio e addirittura decorato con
una medaglia d’argento viene colto dal panico e rifiuta di obbedire agli
ordini nonostante una simile risposta comporti per lui il rischio
concretissimo di finire immediatamente davanti al plotone di esecuzione.
È questo, con ogni evidenza, ciò che sta a cuore a De Roberto: il
momento in cui la paura che dà il titolo alla novella assume una forma
abnorme, così abnorme da vincere persino l’istinto di conservazione che,
tra una morte certa e una morte solo probabile, dovrebbe spingere
chiunque a optare cento volte su cento per la seconda. «Ma come?…
Preferisci sei pallottole nella schiena ad una che può anche lasciarti
vivo?», gli chiede senza successo il tenente. Su un piano puramente
razionale il suo discorso non fa alcuna piega: per Morana è comunque
meglio giocarsi la vita con il cecchino nemico. Ma a De Roberto
interessa invece mettere in scena un sentimento talmente profondo e
sconvolgente che non c’è calcolo dei pro e dei contro che abbia più
presa sui personaggi. Per l’appunto: la paura.
Una catena di morti assurde,
l’annientamento della volontà, la crisi di ogni possibile eroismo, una
situazione senza vie d’uscita… Non doveva essere facile parlare in
questi termini del conflitto che si era appena concluso. Ma è anche per
questo che La paura è davvero uno dei capolavori dello
scrittore. Uno che sicuramente se ne intendeva, Vitaliano Brancati, sin
dal 1929 non aveva esitato a scrivere in proposito che, di tutta la
produzione più tarda, «solo in una novella, scritta durante la guerra, La paura,
ritroviamo il maggior De Roberto. Ma era troppo tardi per sperare un
ritorno sulla via dei capolavori». Per Brancati, che al momento della
tesi di laurea era al culmine della propria adesione al fascismo, si
trattava di un giudizio eminentemente letterario: le opere pubblicate da
De Roberto dopo la fioritura degli anni mirabili 1887-1894 non erano
complessivamente all’altezza delle prove precedenti (un giudizio sul
quale, ancora oggi, si riscontra una perfetta unanimità). Per i critici e
gli scrittori che a partire dagli anni Sessanta si sono battuti per
riscattare l’autore de I Viceré dal giudizio riduttivo con cui
nel 1939 lo aveva liquidato Benedetto Croce, questa senilità precoce
poteva essere interpretata però anche in chiave politica: il De Roberto
più fiacco letterariamente era il De Roberto che negli stessi anni aveva
sposato il credo nazionalista sino a concedere la propria adesione al
fascismo con parole di alto apprezzamento. In questo quadro
l’eccezionalità di un racconto come La paura poteva caricarsi
di implicazioni più ampie. Se almeno in parte l’indebolimento della vena
creativa di De Roberto era dovuto a questa svolta politica, come
giudicare la comparsa inattesa e quasi fuori tempo massimo di un testo
così perfetto? La risposta della critica è stata che nella La paura
– il racconto che si apriva con una denuncia dell’«orrore della guerra»
– bisognava leggere una presa di distanza dalle esplicite
manifestazioni di sostegno alle forze nazionaliste: la prova che, negli
stessi anni del progressivo avvicinamento a Mussolini, De Roberto era
andato elaborando sul piano dell’arte gli anticorpi necessari per
smentire i logori luoghi comuni patriottici di cui sono imbevuti gli
altri suoi testi del periodo (novelle sulla Grande guerra comprese).
Secondo questa interpretazione, con La paura De Roberto avrebbe
insomma «contraddetto» le proprie stesse prese di posizione pubbliche,
lasciando balenare nel possidente siciliano che guardava con simpatia ai
movimenti politici dei reduci (e che di lì a poco avrebbe salutato con
favore l’ascesa di Mussolini) una sorprendente inquietudine e una
capacità di resistenza alle parole d’ordine del regime.
Poiché «contraddizione» è il vocabolo che probabilmente ricorre più spesso negli scritti su La paura
apparsi negli ultimi cinquant’anni, è con questa parola che, per
comodità, ci si può riferire all’insieme di letture che hanno opposto
esplicitamente le due anime di un De Roberto non meno scisso al proprio
interno di tanti doppi del romanzo ottocentesco. Ma – è lecito chiedersi
– siamo proprio sicuri che sia andata davvero così? Nonostante il
generale consenso riscosso da questa lettura, poiché si tratta di un
punto centrale, vale la pena di riconsiderare tutti gli elementi ad uno
ad uno. La tesi della «contraddizione» si fonda infatti su due punti
cruciali: la chiara rappresentazione della guerra come «orrore», e i
duri rimproveri (tanto più efficaci quanto più rapidi) rivolti agli alti
comandi militari per la loro scarsa partecipazione alla sorte degli
uomini al fronte. Su tutti e due i punti De Roberto è estremamente
esplicito. La questione, dunque, non è stabilire se ne La paura
la guerra sia orribile (dal momento che su questo De Roberto si
pronuncia in maniera affermativa sin dalla frase di apertura), né se il
racconto sia ferocemente ostile nei confronti delle alte gerarchie
dell’esercito (seconda risposta affermativa). Si tratta, piuttosto, di
capire se questi due aspetti implichino necessariamente una smentita
(letteraria) delle posizioni politiche assunte in quello stesso giro di
anni dall’autore. Detto in altre parole: per un nazionalista viscerale
era possibile scrivere in termini così violenti del conflitto appena
concluso e delle responsabilità degli ufficiali superiori? O invece –
come la critica ha affermato sinora – tra il De Roberto narratore e il
De Roberto intellettuale pubblico per il tempo di un racconto si è
aperta davvero una crepa capace di far vacillare l’intero edificio?
Dalla risposta che si darà a simili domande dipende il significato de La paura nel percorso intellettuale e politico dello scrittore catanese.
Partiamo dunque dall’«orrore della
guerra». De Roberto non si fa nessuna illusione su quello che succede
realmente al fronte. Anche un nazionalista acceso, occorre pensare dopo
aver letto La paura, non coltiva per forza una visione ottusa e
stereotipata della vita militare e delle privazioni del fronte – bande,
fanfare, discorsi, mostrine, baionette scintillanti, ancora medaglie e
ancora discorsi, sino all’epifania della dea Vittoria, alata e
benedicente. Ma riconoscere l’enorme costo in termini di vite umane e di
sofferenze di ogni conflitto armato significa per forza condannare la
violenza in toto? Chiaramente no. È possibile ritenere che la guerra,
ogni guerra, sia orribile, ma che non ci sia modo di eliminarla del
tutto, esattamente come davanti a un male inscritto nei cicli naturali
dell’esistenza (la grandine è sicuramente una sventura per il contadino,
ma non esistono antidoti definitivi contro i brutti scherzi del cattivo
tempo). È la posizione del pessimista scettico, che condanna i difetti
inguaribili dell’animo umano e invita a non farsi troppe illusioni.
Oppure, a partire dal medesimo riconoscimento dell’«orrore della
guerra», è possibile pensare che ci siano guerre meno cattive delle
altre, o addirittura buone: vale a dire che – ad alcune precise
condizioni o in alcuni particolari momenti – abbracciare deliberatamente
quell’orrore possa avere un senso. Per esempio, si può credere che la
guerra ristabilisca la giustizia nei rapporti tra le nazioni, facendo
trionfare i popoli forti sui popoli deboli; che tempri gli spiriti dei
combattenti, migliorando la razza e selezionando la futura classe
dirigente; che, per quanto tremenda, essa sia il migliore (e forse il
solo) antidoto contro una rivoluzione sociale che poco prima del 1914 in
tanti giudicavano ormai prossima. Sono tutte idee che troviamo
ampiamente rappresentate nella opinione pubblica nazionalista alla
vigilia del conflitto mondiale. E, ancora a proposito dell’«orrore»,
viene in mente l’articolo con cui il 25 dicembre 1915 il “Popolo
d’Italia” diede solennemente annuncio ai propri lettori della
pubblicazione a puntate del diario dal fronte del proprio direttore,
Benito Mussolini: «È la guerra vista e vissuta giorno per giorno: la
guerra con tutto il suo fascino strano e il suo orrore». Fascino e
orrore: già.
I nazionalisti non erano però gli unici a
pensare che fosse venuto il momento di imbracciare le armi: la stessa
disponibilità si trova in questi anni sul versante opposto dell’emiciclo
parlamentare. Tra i così detti interventisti democratici, certo, per i
quali la guerra all’Austria doveva servire ad affermare il principio di
nazionalità portando a far coincidere una volta per tutte i confini
politici con i confini linguistici, etnici e culturali. Ma persino tra i
repubblicani e i socialisti: persuasi che fosse necessario un ultimo
scontro violento per porre fine a tutti i futuri conflitti (come nel
caso di Pietro Nenni nel suo Vogliamo la guerra perché odiamo la guerra,
“Lucifero”, 6 settembre 1914), o pronti a scommettere sul logoramento
bellico come grimaldello per affrettare il tracollo finale del sistema
di produzione capitalistico. Anche se spesso il confronto con la realtà
del conflitto fu sconvolgente per quanti si erano battuti per
l’intervento italiano, in molti casi nemmeno la durezza della vita di
trincea sarebbe bastata a far cambiare loro idea sulla necessità di
quella scelta. Come scrisse parecchi anni dopo Pietro Nenni, «sedici
mesi ininterrotti di fronte, mettendomi a tu per tu con l’orrore della
guerra e con la morte che era l’indivisibile compagna dei nostri giorni,
non alterarono il mio convincimento sulla fatalità dell’intervento
italiano» (Pagine di diario, 1947).
Simili posizioni riguardano direttamente La paura perché
in quel periodo, con l’eccezione dei futuristi, portati a vedere nella
guerra una grande festa dei sensi e ad apprezzarla nei suoi elementi
gioiosi e persino giocosi, quasi tutti i sostenitori del conflitto, a
destra come a sinistra, si mostrarono consapevoli di quello che De
Roberto chiama l’«orrore della guerra», senza che tale chiara
consapevolezza fosse bastata però a distoglierli dalla convinzione che
per quell’“orrore” occorreva passare. Se nel discorso politico italiano
del tempo, per le ragioni più diverse, la guerra venne dipinta anzitutto
come un «farmaco» (stando alla bella definizione di Mario Isnenghi), in
pochi dubitarono che si trattasse di una «medicina forte» (per dirla
col Principe di Machiavelli): ovvero di una di quelle medicine
pericolose e non prive di spiacevoli effetti collaterali che i sistemi
più deboli, come si giudicava quello liberale, erano spesso restii a
somministrare al corpo politico, ma che nelle situazioni più compromesse
non bisognava aver paura di assumere, pena la degenerazione
dell’organismo e la rovina finale.
L’orrore è e rimane l’orrore. Ma – nella
prospettiva degli interventisti – ci sono orrori che possono e devono
essere deliberatamente scelti in nome di un obiettivo più alto o sotto
la spinta implacabile della necessità. La paura, così, mette in
scena la guerra nei suoi aspetti meno digeribili ed edificanti, ma non
la contesta mai in quanto tale. E in effetti, nonostante tutti i suoi
dubbi e tutti i suoi scrupoli, il protagonista del racconto, il tenente
Alfani, non suggerisce mai che ci si possa tirare indietro. Da un lato,
lo sa, disubbidire agli ordini significherebbe per lui la corte marziale
(«Ora esitava, ora sentiva che quella consegna costava già troppe vite.
Infrangerla? Assumersi la responsabilità delle conseguenze?… Il
Consiglio di guerra, allora; il plotone di esecuzione… Ah, no! Una
pistolettata nella tempia, prima!… O andare sulla piazzola, piuttosto:
accorrere presso i caduti, piantarsi egli stesso al posto dei suoi
soldati!»). A un livello più generale ancora, però, Alfani approva
l’ordine che gli è stato impartito. Per quanti uomini siano già morti,
il punto di osservazione è troppo prezioso perché lo si lasci senza
alcun presidio. È quello che spiega ai suoi soldati: «O credete che si
possa tralasciar la consegna perché i vostri compagni ci sono rimasti?…
Se bersagliano la vedetta è segno che non vogliono esser visti, che
preparano qualche colpo, che ammassano gente nel canalone, per piombarci
addosso senza mandarcelo a dire, e massacrarci tutti quanti!». E,
affinché non ci siano dubbi di sorta, poco più avanti De Roberto mostra
con chiarezza che non si tratta di un mero argomento per convincere gli
uomini della necessità di andare (per quanto Alfani speri fino
all’ultimo in una deroga dall’alto che venga a fermare la strage):
«l’insistenza con la quale tutte le ispezioni, dalle quotidiane del
maggiore a quella passata due giorni innanzi dal generale brigadiere, avevano dimostrato l’estrema necessità della vigilanza all’imbocco del canalone» (Corsivo mio).
Riconoscere l’«orrore della guerra» non
vuol dire insomma pensare per forza che ci siano delle alternative
percorribili. La vera domanda, per De Roberto e per tanti come lui, sarà
semmai stabilire quale lezione trarre da tanto orrore. Era qui,
soprattutto, che dopo l’armistizio, a cose fatte, si giocava la partita
politica. E le risposte potevano essere le più diverse. Per esempio,
mentre De Roberto scriveva La paura, per il riformato Papini il
trauma (indiretto) della guerra sarebbe diventato il vero motore della
conversione al cattolicesimo. Come ebbe a scrivere ad Aldo Palazzeschi:
«L’orrore ci ha insegnato quel che veramente siamo», intendendo con
questa espressione: siamo dei cristiani (lettera del 9 luglio 1920). Nei
racconti di De Roberto, invece, proprio l’incredibile asprezza della
guerra, lungi dal farsi atto di accusa contro tutti i conflitti passati e
futuri, è funzionale alla esaltazione di coloro che a essa avevano
immolato la propria giovinezza – una posizione piuttosto diffusa
nell’Italia dei primi anni Venti. Enfatizzare le sofferenze patite dai
soldati significava infatti mettere morti, feriti e mutilati sul piatto
della bilancia per influenzare le decisioni del traballante sistema
liberale e possibilmente abbatterlo, come stavano cercando di fare la
associazioni di reduci, Fasci di Combattimento in testa: proprio perché
la guerra appena conclusa era stata così terribile, coloro che avevano
sostenuto in prima persona la causa dell’Italia e si erano temprati nel
fuoco erano destinati ora a prendere il posto delle logore élite
liberali. Era la tesi dei reduci delle organizzazioni di ex combattenti e
naturalmente dei fascisti; per usare le parole di Curzio Malaparte, era
finalmente giunto il momento che a comandare fossero «quei buoni
ufficiali delle trincee e dei reticolati, i francescani, i “pastori del
popolo”» (La rivolta dei santi maledetti). Una caratterizzazione, quest’ultima, che si adatta particolarmente bene al tenente Alfani.
C’è poi il secondo punto, la denuncia delle alte gerarchie militari. Anche qui La paura
non è affatto reticente. Ma, più ancora che questa o quella frase
isolata – per esempio quando il narratore registra le invettive dei
soldati «contro i lontani colonnelli, contro i pezzi grossi ben tappati
al sicuro da ogni pericolo» o «il cruccio e lo sdegno contro i fieri
proponimenti ostentati dagli imboscati, dagli eroi da poltrona, dagli
speculatori che lucravano sulla grande sciagura» –, è soprattutto
l’intreccio a stimolare nel lettore una reazione di ripulsa e finalmente
di violenta indignazione. Il colonnello che comanda l’artiglieria non
può essere disturbato perché dorme; l’ufficiale di servizio all’altro
capo del telefono si lascia sfuggire un intollerabile «Allora,
s’arrangi!»; l’intervento dei cannoni si rivela prevedibilmente
inefficace; l’arrivo improvviso di un maggiore in ispezione contribuisce
soltanto a precipitare ulteriormente la conclusione rendendo tutte le
scelte più concitate… La critica, insomma, è inscritta nello stesso
tessuto del racconto, e con la critica la volontà di alimentare il
risentimento del lettore a mano a mano che la successione degli eventi
diventa psicologicamente insopportabile.
L’attacco de La paura al
comportamento degli ufficiali superiori non contraddice in alcun modo
però il nazionalismo di De Roberto, dal momento che in questi anni le
accuse contro i generali percorrono indifferentemente le opere di autori
diversissimi quali Ardengo Soffici, Curzio Malaparte e Carlo Emilio
Gadda (a destra) e Mario Mariani ed Emilio Lussu (a sinistra), come
quasi mezzo secolo fa rilevò già Mario Isnenghi: «A questo tipo di
polemica settoriale ben pochi fra i testimoni diretti della guerra
rinunciano. E tanto più se ne mostrano partecipi quanto più il disegno
oggettivo di fornire vie di sfogo alla conflittualità […] si salda
soggettivamente in ciascuno di loro […] al rancore di chi non vede il
proprio sacrificio e il proprio rischio egualmente condivisi da tutti».
A destra come a sinistra, nelle opere
dei reduci maggiori, colonnelli e generali sono presentati quasi
uniformemente come l’incarnazione della vecchia Italia liberale del
privilegio che la guerra dovrebbe aver spazzato via una volta per tutte.
De Roberto non fa eccezione. Anche la polemica de La paura
contro le alte gerarchie dell’esercito non implica dunque in alcun modo
la presa di posizione anti-militarista che vi si è voluto leggere, dal
momento che De Roberto non mette mai in questione l’etica del sacrificio
per la patria degli altri suoi tesi, ma si scaglia contro una casta di
burocrati che cercava di nascondere come gli anni dal 1915 al 1918
avessero rappresentato per tutti una cesura irreversibile. Lo stesso
atteggiamento che contraddistingue molti altri scrittori nazionalisti in
transito verso il fascismo.
Per vedere ne La paura una
smentita delle posizioni pubbliche dello scrittore catanese occorre fare
un passo che De Roberto si è sempre ben guardato dal compiere, ma che
agli interpreti degli ultimi cinquant’anni, formatisi in un’Italia
diversa – un’Italia che, almeno formalmente, ha rifiutato la guerra
nella propria costituzione repubblicana – è parso invece scontato. Per
quanto oggi possa dispiacerci, un capolavoro come La paura però non ha nulla a che spartire con Gli anni spezzati di Peter Weir (1981), esattamente come Il rifugio è lontano anni luce da Orizzonti di gloria di Stanley Kubrik (1957), da Per il re e per la patria di Joseph Losey (1964) e da Uomini contro
di Francesco Rosi (1970). Niente pacifismo. Niente internazionalismo.
Piuttosto, anche qui, un sordo risentimento verso i traditori di ieri e
di oggi: vale a dire, agli occhi dei nazionalisti come De Roberto, verso
tutti coloro che nel dopoguerra sembravano voler vanificare l’immane
sforzo compiuto da milioni di giovani al fronte.
L’adesione del narratore catanese al
fascismo – «la convulsione violenta, anzi la vera e propria rivoluzione
cominciata nel 1914», di cui leggiamo nella premessa alla ristampa dell’Ermanno Raeli del 1923 – è avvenuta anche su queste basi.
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