11 ottobre 2015

IL GABBIANO DI CECHOV


Pubblichiamo un estratto da “Il medico, la moglie, l’amante. Come Čechov cornificava la moglie-medicina con l’amante-letteratura“, scritto da Fausto Malcovati e pubblicato da marcos y marcos, che ringraziamo.

di Fausto Malcovati

Nella piccola dipendenza che ha fatto costruire per sé, l’autunno del 1895 Čechov lavora a uno dei suoi racconti più complessi e battaglieri, La casa col mezzanino: un tenero amore sullo sfondo di accese polemiche sull’inutilità di scuole e biblioteche per i contadini estenuati dal lavoro.
Ogni tanto si distrae, gli viene in mente un soggetto per il teatro. “Figuratevi”, scrive a Suvorin “sto scrivendo un testo teatrale, sarà pronto non prima di novembre. Scrivo con gusto, anche se mando all’aria tutte le buone regole. È una commedia, ci sono tre parti femminili, sei maschili, quattro atti, un bel paesaggio (vista sul lago), molti discorsi sulla letteratura, poca azione, un quintale d’amore”.
Il 14 novembre annuncia il titolo: Čajka, Il gabbiano (in russo, attenzione, è sostantivo femminile, dunque l’identificazione con la protagonista è diretta). Come al solito non è contento, cambia, corregge, accumula varianti, intreccia invenzione a episodi e personaggi presi dal vero, parla del mestiere di scrittore mettendosi in gioco con spietata lucidità, dice tutto quello che pensa (di male) sul teatro contemporaneo, protesta contro la soporifera routine dei suoi colleghi, invoca a gran voce un rinnovamento a cui vorrebbe ispirare il suo teso, sapendo di non riuscirci.
“L’ho cominciato” dice “con un tempo forte, l’ho finito, contro ogni regola, con un pianissimo. Nel complesso sono più insoddisfatto che soddisfatto. Leggendolo, mi convinco una volta di più che non sono un drammaturgo”.
La storia è molto semplice. Siamo nella tenuta di campagna di due fratelli, Pëtr Sorin, magistrato in pensione pieno di acciacchi, e Irina Arkadina, celebre attrice, bella donna, elegante, superficiale, gelosa, avara, che convive con Boris Trigorin, mediocre scrittore di successo. L’Arkadina ha un figlio ventenne, Kostja Treplev, che non si sente amato dalla madre: aspirante drammaturgo, disprezza il tipo di teatro routinier da lei interpretato, sogna “forme nuove e se non ce ne sono, allora meglio niente”. Ha scritto un monologo sul futuro dell’umanità, prolisso, confuso, pieno di simboli decadenti: lo mette in scena nel giardino di casa, di fronte a un ristretto pubblico di ospiti della tenuta. A interpretarlo è Nina, una vicina di cui è innamorato. La madre critica il testo: Treplev, offeso, interrompe lo spettacolo. Nina vorrebbe fare l’attrice: infatuata di Trigorin, pronto a sedurla nonostante il suo legame on la Arkadina, decide di fuggire a Mosca per unirsi all’amante e cominiciare la sua carriera artistica.
Dopo un iniziale successo, Nina non riesce a ‘sfondare’. Abbandonata da Trigorin, da cui ha avuto un figlio morto dopo pochi mesi, rifiutata dagli impresari, accetta modeste scritture in provincia. Un giorno, dopo tre anni di assenza, ritorna, durante una tournée, nella villa dove vive Treplev, diventato intanto scrittore affermato, anche se insoddisfatto di sé. Nel loro ultimo incontro Treplev, ancora innamorato di lei, la scongiura di non partire, di rimanere con lui. Nina rifiuta: si sente simile ai liberi gabbiani che volteggiano sul lago di fronte alla villa, crede nel suo mestiere, ne accetta tutte le dolorose, umilianti fatiche, e riparte.
“Nel nostro mestiere, Kostja, che sia recitare o scrivere fa lo stesso, l’importante non è la gloria, il successo, ma saper sopportare. Sappi portare la tua croce e abbi fede. Io ho fede, questo mi allevia il dolore, e quando penso alla mia missione non ho più paura della vita”. Treplev, abbandonato da Nina, disperato, si spara un colpo di rivoltella.
Il testo, finito ai primi di dicembre, deve passare al vaglio della censura. Se ne occupa a Pietroburgo l’amico Ignatij Potapenko, con la supervisione di Suvorin. Non dovrebbero esserci problemi, e invece ce ne sono eccome. Sono anni bui, anni in cui il paese è sotto le grinfie di Konstantin Petrovič Pobedonoscev, procuratore del Santo Sinodo, eminenza grigia a corte: fanatico sostenitore della chiesa ortodossa e della sua morale più angusta, ferreo paladino dell’autocrazia, torvo, inflessibile inquisitore di ogni minima intemperanza. Peccato che questo libro non abbia illustrazioni, basta la sua foto per far venire i brividi: un volto scarno, lungo, cadaverico, gli occhi spenti, l’espressione arcigna di chi non sa sorridere, lunga barba da monaco intransigente. Pobedonoscev da tempo incalza i censori perché pongano freno con durezza alla dilagante depravazione, all’inaccettabile immoralità di una società che ha ormai perduto ogni freno.
Ecco allora l’intoppo: nel Gabbiano non solo un’attrice convive spudoratamente con l’amante più giovane, ma sopratutto il figlio di lei considera la loro relazione del tutto naturale, non c’è ombra di condanna. Bisogna prontamente correre ai ripari.
Per fortuna il censore Litvinov, tra le cui mani finisce Il gabbiano, non è tra i più severi: invece di vietare il testo senza commenti, scrive a Čechov personalmente, proponendogli alcune varianti sopratutto nelle battute in cui il giovane Treplev parla della madre nel primo atto e nella scena tra l’attrice e l’amante alla fine del terzo. Poche correzioni, che Čechov fa di buon grado (ma ripristina l’originale nell’edizione a stampa di qualche mese dopo), anche se gli ripugna ogni forma di moralismo.
“Voi mi rimproverate”, scrive a Suvorin “la mia obiettività, la chiamate indifferenza al bene e al male, mancanza di ideali e via dicendo. Vorreste che, descrivendo i ladri di cavalli, dicessi ‘rubare è male’. Ma questo è già noto anche senza di me. Per condannarli ci sono i giudici, a me spetta di mostrarli come sono e basta”.

Pezzo tratto da   http://www.minimaetmoralia.it/

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