19 ottobre 2015

P. ODIFREDDI INVADENTE E INCOMPETENTE


Il Paradiso taroccato. Piergiorgio Odifreddi, dantista


di Marco Grimaldi

Quest’estate sono andato al Futura Festival di Civitanova Marche. Il giorno prima aveva parlato Piergiorgio Odifreddi e qualcuno mi ha subito chiesto che cosa ne pensassi di un’idea del matematico impertinente: e cioè che gli ultimi canti della Commedia non li avrebbe scritti Dante ma uno dei suoi figli. Cado dalle nuvole, penso a qualche ricerca recentissima che ignoro; poi ipotizzo che Odifreddi abbia orecchiato e mal inteso gli studi di un mio bravo collega, Riccardo Viel, sulla possibilità che gli ultimi canti del Paradiso si siano diffusi in maniera separata rispetto al resto del poema e sul ruolo di Iacopo Alighieri nella pubblicazione dell’opera del padre. Al ritorno mi procuro l’ultimo libro di Odifreddi, Il giro del mondo in 80 pensieri (Rizzoli, 2015), leggo il pensiero dedicato a Dante, che s’intitola La Quarta Cantica (pp. 285-89), e mi accorgo che mi ero sbagliato. Nessun fraintendimento di ricerche in corso: è Odifreddi stesso che ha avuto l’idea. La storia potrebbe finire qui, basterebbe dire che l’idea è sbagliata, che l’ipotesi non ha fondamento. Ma l’episodio non è interessante perché Odifreddi sbaglia, quanto per i motivi che lo fanno sbagliare e per il modo in cui lo fa. E anche perché, sbagliando, mette allo scoperto alcune debolezze tipiche degli studiosi che, come me, si occupano professionalmente di Dante Alighieri.
Prima di annunciare la scoperta, Odifreddi espone le sue opinioni generali su Dante. Innanzitutto, Dante va ridimensionato. Quindi quello che abbiamo imparato a definire “il padre della lingua italiana” sarà solo un «umanista del suo tempo, intriso di superstizioni medievali» (p. 285). Odifreddi ha buon gioco, sia perché l’immagine tradizionale del Sommo Poeta (come ancora scrivono alcuni studiosi) è quella di un saggio infallibile dalla memoria portentosa, sia perché, a voler credere a certe tendenze della critica dantesca, Dante conosceva a menadito ogni opera filosofica e scientifica disponibile nel Medioevo. Tuttavia Odifreddi non si accontenta delle carte che ha in mano, ha bisogno di bleffare. Basta aver fatto un buon liceo per sapere che definire Dante un umanista è un’affermazione azzardata; che sia poi «intriso di superstizioni medievali» è lapalissiano, ma a Odifreddi piace precisarlo perché sa che il suo lettore medio sarà facilmente portato a riconoscere che, sì, Dante non doveva essere poi tanto intelligente se viveva nel Medioevo.
Un’altra ottima carta è quella del prestigio della cultura scientifica. Quando, per esempio, nota che Dante era «sapiente di Aristotele e Tommaso d’Aquino», «ma ignorante di Euclide e Fibonacci» (p. 285), Odifreddi sa che una larga parte dei suoi lettori ritiene più importante conoscere un po’ di matematica piuttosto che la filosofia e la teologia. La carta è talmente forte che Odifreddi può sottovalutare il fatto che Dante probabilmente Euclide un po’ lo conosceva (per via indiretta) e che possedeva una cultura scientifica di buon livello per le competenze medie dell’epoca. Certo, anche questa posizione può essere considerata una reazione alla generale sovrastima da parte degli studiosi di Dante. A volte una lode eccessiva finisce infatti per nuocere al padre della lingua italiana, come in fondo gli nuoce l’idea, piuttosto diffusa tra i professionisti della materia, che nelle scuole debba esserci più Dante. Nelle scuole c’è bisogno di uno studio più intenso della storia, della storia della letteratura, della lingua, dell’arte, della scienza. Allo stesso modo, gli studi danteschi hanno bisogno di meno Dante e di più storia, scienza, sociologia, antropologia. Solo in questo modo Dante può essere restituito alla modernità, non aumentando le ore di lettura della Commedia.
Ancora più interessante è che il prestigio della cultura scientifica spinge Odifreddi a disprezzare ogni altra forma di cultura. Per parlare delle possibili riscritture della Commedia, Odifreddi prende spunto dai saggi di Jorge Luis Borges e da un romanzo, La quarta cantica di Patrizia Tamà, che mette al centro della storia l’alchimia e immagina che sia esistita una ulteriore cantica nella quale Dante avrebbe svelato i misteri di quell’arcana disciplina. Per quanto strano possa sembrare, a Odifreddi lo spunto piace e finisce per sembrargli plausibile; e ricordando che anche Newton dedicò molti sforzi all’alchimia, ne deduce che «se persino la mente scientifica di Newton era caduta vittima del morbo alchemico, figuriamoci se non poteva cascarci anche la mente letteraria di Dante». Da questa frase discendono tutti i ragionamenti successivi. Il problema è che in questa frase quasi tutto è sbagliato. Innanzitutto, che cos’è una mente scientifica? E che cos’è una mente letteraria? Se Newton credeva nell’alchimia (e credeva pure a una cronologia geologica basata sulla Bibbia), si può dire che avesse una mente scientifica? E uno come Dante, che apre una sua poesia con una perifrasi astronomica che nessuna persona di media cultura scientifica saprebbe oggi interpretare senza un commento, che inserisce nel Convivio lunghe digressioni sulla struttura del cosmo e che, se la Questio de aqua et terra è opera sua, interviene autorevolmente in una disputa accademica sul rapporto tra i mari e le terre emerse, ebbene dovremmo credere che uno come Dante avesse una mente letteraria e basta? Dante aveva invece un’ottima conoscenza osservativa dei cieli, con tutta la precisione consentita dal sistema tolemaico; insomma, possedeva i dati sperimentali, ovviamente quelli disponibili a occhio nudo. E forse oggi pochi laureati in Fisica potrebbero competere con lui in questo campo. Ma tutto questo a Odifreddi non importa: la distinzione tra mente scientifica e letteraria gli serve per sostenere la superiorità tout court di quella scientifica e della sua mente, in particolare.
Che cosa crede infatti di aver scoperto la sua mente scientifica? Odifreddi parte da un episodio narrato da Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, la più antica biografia del poeta: morto Dante, non si trovano gli ultimi tredici canti della Commedia; ai figli viene chiesto di completarla, ma poi Dante appare in sogno al figlio Iacopo e gli mostra dov’è nascosto il resto del poema. Odifreddi non si fida di Boccaccio (e fa bene), ma si fida un po’ troppo della propria intelligenza. Dovrebbe essere chiaro che il sogno è un’invenzione letteraria; ma lui va oltre e sostiene che «non ci vuol molto a immaginare cosa sia veramente successo: semplicemente, Iacopo aveva terminato il poema, ma per ragioni di marketing voleva attribuirne la paternità a Dante» (p. 288). E c’è di più. Forse si erano persino messi d’accordo, Dante e Iacopo. La prova sarebbero i versi 7-8 del canto XXV del Paradiso, «con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta», che per Odifreddi alludono al cambio d’autore e nei quali Dante ci dice invece che, se dovesse un giorno rientrare a Firenze dall’esilio grazie alla gloria ottenuta con la Commedia, dopo aver attraversato i regni ultraterreni e aver visto Dio con i propri occhi avrà acquisito una nuova consapevolezza di uomo e di poeta. Per darsi ragione, Odifreddi ricorre però a uno strumento retorico sperimentato: nessuno ha mai avuto il coraggio di dire quel che lui ora sta dicendo perché «la Commedia è diventata una specie di Bibbia, e come tale non si presta a discussioni razionali né su questa, né su altre cose» (p. 288). Ancora una volta si parte da un punto di vista condivisibile: la Commedia è un caposaldo dell’identità italiana e da molti studiosi e dai lettori comuni è vista come un monumento da venerare; ed è vero che nella critica dantesca, come in quasi tutti i campi di ricerca relativamente ben consolidati, le idee nuove emergono con difficoltà. Ciò non vuol dire che un’idea eterodossa sia di per sé giusta. E soprattutto non è per nulla evidente che l’ipotesi di Odifreddi rientri nella categoria delle “discussioni razionali”. Sia chiaro, l’idea non è in sé logicamente contraddittoria; ma è insostenibile perché non la si può dimostrare, perché non è falsificabile. Inoltre, ammettendo che sia vera se ne dovrebbero trarre onerose ipotesi aggiuntive. Per esempio che se gli ultimi canti li ha scritti Iacopo lo ha fatto esattamente come avrebbe fatto il padre, con quella stessa abilità tecnica che qualsiasi lettore riconosce all’autore della Commedia e che è comprovabile nel dettaglio da molti punti di vista; mentre quando scrive la sua opera in versi, il Dottrinale, Iacopo fingerebbe di trasformarsi in un poeta mediocre.
Quella che segue è una dimostrazione del procedere razionale della mente scientifica di Odifreddi. A suo giudizio, il parallelo tra Bibbia e Commedia è giustificato dal fatto che per millenni si è ritenuto il Deuteronomio opera di Mosè scoprendo poi che «in realtà l’aveva scritto Giosia» (p. 288). Lasciamo perdere chi sia l’autore del Deuteronomio; il parallelo non sta in piedi perché di Mosè sappiamo pochissimo e di Dante sappiamo relativamente molto: sappiamo ad esempio che ha scritto la Commedia. Odifreddi ritorna quindi al punto da cui era partito, le riscritture della Commedia. Se il poema sacro non si può riscrivere dato che Dante non l’ha nemmeno finito, è legittimo chiedersi come andare oltre. E secondo Odifreddi la Commedia sarebbe già stata superata da altri poeti «di nome Galileo o Newton» e da poemi intitolati Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo o Princìpi matematici della filosofia naturale: «Poemi che sarebbe ora prendessero il posto del suo, o almeno gli si affiancassero, nei programmi scolastici e nella considerazione dei sedicenti uomini di cultura» (p. 289). Forse Odifreddi un po’ di ragione ce l’ha. Nei programmi ci sarebbe bisogno di più cultura scientifica; Odifreddi non è però il primo a essersi accorto di questa mancanza: se n’era reso conto per esempio Giacomo Leopardi nel 1827 quando nella Crestomazia della prosa italiana inseriva un’ampia scelta di brani di Galileo. Ma Odifreddi ama il paradosso e deve auspicare che il Dialogo sopra i due massimi sistemi prenda il posto della Commedia. E lo fa perché non riesce a uscire da un sistema di pensiero in cui la mente letteraria e la mente scientifica devono essere in conflitto. Per questo crede che la Commedia sia patrimonio di «sedicenti uomini di cultura» e che gli uomini di cultura veri, quelli come lui insomma, debbano smettere di perdere tempo con Dante per dedicarsi a Galileo e a Newton. Ebbene, questa conflittualità tra le due menti è tutta moderna: Odifreddi manca il bersaglio proprio perché né in Dante né in Galileo esiste una netta separazione tra scienza e letteratura. Dante non era uno scienziato, eppure sapeva di scienza; Galileo era uno scienziato, ma anche un fine letterato che annotò l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata e studiò la topografia dell’inferno descritto nella Commedia; e per le sue stesse ricerche scientifiche la lettura di fonti antiche fu un impulso fondamentale. Ma allora Galileo aveva una mente scientifica o una mente letteraria? E dobbiamo quindi rinunciare a Dante o a un’idea del tutto inattuale del conflitto tra le due culture come quella fatta propria da Odifreddi?
Tra Dante e Galileo non dovrebbe esserci conflitto. C’è solo se allo studio della storia e alle argomentazioni razionali si sostituiscono gli aneddoti e il paradosso e se il gusto della provocazione conta più della soluzione dei problemi. E i problemi che pone, malamente, Odifreddi, sono due. Primo: il culto di Dante può effettivamente ostacolare il rinnovamento degli studi letterari e mettere in ombra grandi capolavori come i Dialoghi di Galileo. Secondo: oggi, in Italia, c’è bisogno di più cultura scientifica e di più storia della scienza. La soluzione però non è eliminare Dante: è studiare Dante e Galileo nel loro tempo o attraverso Dante e Galileo approfondire la storia, la cultura e la scienza del Medioevo e dell’età moderna. Senza trasformare il poeta e lo scienziato in eroi romantici che si aggirano in terre desolate. E non pretendendo di scoprire qualcosa di nuovo senza studiare.

(Un’ultima considerazione, sugli strumenti scientifici. Odifreddi legge Dante con gli strumenti sbagliati. Cita saggi belli e interessanti come quelli di Borges; saggi che però hanno il difetto di non essere stati scritti per spiegare quando e come sia stata composta la Commedia, ma per fornire un’immagine complessiva di Dante a un pubblico il più vasto possibile o addirittura per riscrivere Dante. Sono saggi importanti, che gli specialisti conoscono bene, ma sono a tutti gli effetti “letteratura” e non lavori storici e filologici basati su prove documentarie e argomentazioni razionali. È come se io mi mettessi a studiare le galassie lontane senza i dati di Hubble ma presumendo di vederle con un cannocchiale per astronomi dilettanti di un secolo fa. È questa la mente scientifica di Piergiorgio Odifreddi?)

Marco Grimaldi, 12 ottobre 2015. |

Nessun commento:

Posta un commento