12 ottobre 2015

SUL CINEMA DI M. ANTONIONI

Un fotogramma di  L' eclisse (1962)

Proponiamo l’introduzione al volume Michelangelo Antonioni. Prospettive, culture, politiche, spazi, a cura di Alberto Boschi e Francesco Di Chiara, pubblicato qualche mese fa da il castoro. A tre anni dal convegno internazionale “Cronaca di un autore” svoltosi all’Università di Ferrara in occasione del centenario della nascita del regista, il libro – che comprende saggi di Manzolli, Schenk, Felten, Eugeni, Calabretto, Pitassio, Quaresima, Di Chiara, Steimatsky, Teti, Bernardi, Rhodes, Rascaroli, Winter, Bauer, Nowell-Smith, Moure, Marcus, Boschi, Galt, Bertozzi – prosegue e arricchisce i risultati di quel lavoro avvalendosi anche della possibilità di accedere ai documenti conservati nel Fondo Michelangelo Antonioni, acquisito dal Comune di Ferrara nel 1995 (dbr) 

Proviamo ancora con Michelangelo Antonioni


di Alberto Boschi e Francesco Di Chiara


Non si può certo affermare che Michelangelo Antonioni sia stato un autore maltrattato o negletto dalla letteratura critica sul cinema. Nel periodo culminante della sua carriera, il regista ferrarese ha dimostrato anzi la capacità di collocarsi stabilmente al centro del dibattito nazionale e internazionale, suscitando l’interesse non solo degli addetti ai lavori, ma anche di intellettuali provenienti dalle più svariate discipline. Nel corso del tempo, la critica e l’accademia italiana hanno prodotto una mole impressionante di pubblicazioni dedicate al suo cinema: dai preziosi volumi curati con affettuosa dedizione da Carlo di Carlo ai profili bio-filmografici di Aldo Tassone, dagli studi ormai classici di Giorgio Tinazzi e Lorenzo Cuccu agli importanti contributi di Sandro Bernardi, Giorgio De Vincenti o Leonardo Quaresima,[1] fino ai lavori di studiosi della generazione più recente come Saverio Zumbo, Federico Vitella o Roberto Calabretto.[2] Tuttavia da un po’ di tempo a questa parte in Italia l’interesse nei confronti di Antonioni sembra essersi lievemente affievolito. A partire dagli anni Novanta, gli studi italiani sul regista si sono nel complesso diradati e neppure l’occasione del centenario, celebrata degnamente a Ferrara[3] ma molto meno sentita fuori dalle mura del capoluogo estense, ha dato vita a iniziative editoriali di ampio respiro. Le ragioni di questa apparente disaffezione sono probabilmente molteplici. Innanzitutto può avere avuto un peso il lungo periodo di forzata inattività a cui è stato costretto il regista, interrotto soltanto tardivamente da due film non certo annoverabili fra le sue opere “maggiori” come Al di là delle nuvole e l’episodio di Eros (2004). In secondo luogo, gli stereotipi banalizzanti diffusi dalla stampa a proposito di Antonioni, definito di volta in volta come il regista dei “tempi morti”, della “alienazione” o della “incomunicabilità”, non hanno certo giocato a suo favore.[4] Simili etichette si sono infatti cristallizzate a dispetto delle stesse intenzioni del cineasta ferrarese,[5] associando la sua opera a mode culturali oggi desuete e condizionandone quindi in senso negativo l’attuale ricezione. Infine un cinema ostentatamente “artistico” ed elitario come quello di Antonioni non poteva trovarsi in grande sintonia con le nuove tendenze della cinefilia e della critica, più inclini a riscoprire e a studiare la produzione di genere che a occuparsi di figure autoriali già entrate nel “canone” e ampiamente celebrate in precedenza. Tale fenomeno appare invece meno percepibile all’estero, e in particolare nei paesi anglosassoni, dove sembra che questo autore non abbia mai smesso di suscitare l’interesse di studiosi di generazioni diverse: da Seymour Chatman a Peter Brunette, da Millicent Marcus a Geoffrey Nowell-Smith, da Angelo Restivo a Noa Steimatsky,[6] per citare qualche nome alla rinfusa, fino all’importante volume collettivo curato per il centenario da Laura Rascaroli e John David Rhodes.[7] E il panorama attuale si allarga ulteriormente se prendiamo in considerazione studiosi operanti in altri contesti nazionali, come il francese José Moure, i tedeschi Thomas Koebner e Irmbert Schenk o l’ungherese András Bálint Kovács.[8] La frattura tra il cinema d’autore e quello popolare, insomma, sembra aver colpito gli studi cinematografici italiani della nuova generazione più di quanto non sia accaduto altrove e, a parte le importanti eccezione sopra menzionate, il regista ferrarese sembra averne fatto le spese più di altri.
Il presente volume si propone dunque di offrire un modesto contributo al rilancio del dibattito critico su una figura imprescindibile del cinema italiano postbellico attraverso il dialogo fra studiosi di diversa formazione e provenienza nazionale. Senza alcuna pretesa di esaustività nella scelta degli argomenti trattati o di coerenza nelle metodologie utilizzate, ma privilegiando anzi la pluralità delle prospettive, esso mira a offrire al lettore nuove chiavi di lettura e nuove linee di ricerca (talora già in corso, talora soltanto ipotizzate) inerenti ad aspetti generali o a tratti specifici del cinema di Michelangelo Antonioni. Da tale approccio emerge innanzitutto l’inesauribile ricchezza formale e semantica della sua opera, capace di suscitare ogni volta inediti percorsi interpretativi, secondo un processo che Umberto Eco definirebbe di “semiosi illimitata”. Così alcuni contributi, attraverso la rilettura di singoli film o sequenze, riescono a rinvenire indizi ignorati in precedenza all’interno di opere maggiori già passate al setaccio dalla critica come per esempio L’avventura (1960). Altri saggi mirano invece a ricostruire attraverso il ricorso a materiali d’archivio il contesto cinematografico o la temperie culturale che fanno da sfondo alla carriera del regista, oppure alcuni aspetti specifici della sua poetica, avventurandosi in territori finora inesplorati dalla filologia antonioniana. Altri ancora, con un approccio più speculativo, ne rileggono la filmografia attraverso strumenti concettuali forniti da teorici classici e moderni quali Worringer, Benjamin, Jameson o Rancière, commisurandola a concetti come quelli di “astrazione”, “postmodernismo” o “cartografia cognitiva”. Non mancano infine gli autori che ne mettono in luce la vocazione antropologica, l’influenza sull’“art cinema” contemporaneo (dalla “Berliner Schule” alle new wave dell’Estermo Oriente) e non ultimo il valore politico, rinvenibile nella straordinaria capacità della cinepresa di Antonioni di registrare il cambiamento. I film della “Grande Tetralogia”[9] forniscono in tal senso un modello messo a punto in relazione al contesto specifico dell’Italia del boom economico ma applicabile anche ad altre società in rapida espansione (per esempio le nuove economie asiatiche). Nonostante l’eterogeneità degli approcci e degli oggetti analizzati, nei ventuno contributi del volume emergono senza dubbio alcuni centri di interesse privilegiati, che giustificano la sua suddivisione in quattro diverse sezioni.
La prima di esse, intitolata “Prospettive”, offre alternativamente riletture complessive dell’opera di Antonioni e nuove proposte critiche concernenti aspetti specifici della sua filmografia. Ed è proprio a partire da una rivisitazione semiseria della saggistica dedicata al regista che Giacomo Manzoli avanza un’ipotesi provocatoria ma di sicuro interesse: e se la “pesantezza” attribuita proverbialmente ad Antonioni appartenesse in realtà ai suoi esegeti e fosse quindi necessario liberare i suoi film dalla zavorra di decenni di letteratura critica per vederli librarsi leggeri nell’aria? Comunque sia, l’opera antonioniana necessita di nuovi strumenti interpretativi, capaci di riconoscervi all’interno qualcosa che non si era colto in precedenza, a cominciare con i suoi rapporti – evidenziati da Manzoli – con la popular culture degli anni Sessanta. In questa prospettiva, essa può essere considerata non tanto (o non solo) una critica all’Italia del boom economico, quanto piuttosto un suo prodotto – attraente sul piano sensoriale e a tratti addirittura frivolo. I contributi di Irmbert Schenk e Uta Felten presentano, nonostante le apparenze, un evidente punto di contatto: secondo entrambi opere come L’avventura, La notte (1961) o L’eclisse (1962) inaugurano il modernismo e al tempo stesso lo superano, ma sono anche eredi di tradizioni culturali preesistenti. Il primo rilegge alcune caratteristiche dello stile narrativo di Antonioni alla luce del concetto di “contingenza” – attraverso il quale il regista spinge il proprio cinema al di là delle categorie della modernità, proiettandolo verso il postmodernismo – ma sottolinea al tempo stesso l’influenza della poetica esistenzialista su un film come Il grido (1957), che segna a suo avviso l’inizio di tale processo; la seconda rileva invece la qualità allucinatoria delle immagini di Antonioni, tracciando una linea che coniuga il suo stile alle esperienze dell’avanguardia letteraria e cinematografica dei primi decenni del Novecento, dalla passione proustiana per i dispositivi della visione ai film surrealisti di Man Ray e Luis Buñuel. Dotarsi di nuovi strumenti può consentire altresì di verificare e approfondire ipotesi interpretative già avanzate in precedenza, come fa Ruggero Eugeni prendendo in esame il rapporto di Michelangelo Antonioni con la cultura psichiatrica italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Infatti, sebbene un interesse costante per le tematiche relative al disagio psicologico e alla malattia mentale fosse già stato riscontrato dalla critica antonioniana “classica”, Eugeni conferisce una nuova sostanza a queste intuizioni, dimostrando attraverso verifiche effettuate nella biblioteca personale del regista la sua assidua frequentazione della letteratura psichiatrica e psicanalitica dell’epoca. Le suggestioni presenti nei film – come il tema ricorrente del suicidio – trovano allora un preciso riscontro nelle numerose sottolineature effettuate da Antonioni sulle pagine dei volumi in suo possesso. In modo analogo, Roberto Calabretto utilizza articoli e dichiarazioni talora inedite per ricostruire il processo creativo che ha dato vita alla colonna sonora di Il deserto rosso (1964), nella quale sono incorporati frammenti di composizioni elettroniche del musicista Vittorio Gelmetti.
La seconda sezione del volume, intitolata “Culture”, ruota intorno al rapporto intrattenuto da Antonioni con due elementi chiave della temperie italiana postbellica, ovvero il neorealismo e la cultura di massa. Ovviamente il termine “neorealismo” deve essere inteso nell’accezione più ampia possibile: ciò giustifica il fatto che i saggi qui raccolti si muovano lungo un arco temporale che va dai primi anni Quaranta alla fine degli anni Sessanta, comprendendo quindi anche i suoi prodromi e la sua eredità. In questa prospettiva Francesco Pitassio, prendendo in esame sia i primi cortometraggi del regista che alcuni soggetti inediti custoditi dal Museo Michelangelo Antonioni, indaga il suo rapporto con le pratiche produttive ed estetiche di matrice neorealista che caratterizzano il documentario italiano degli anni Cinquanta. L’idea di fondo è che fin dalla pubblicazione del celebre articolo Per un film sul fiume Po[10] egli rappresenti un ideale percorso alternativo, capace di integrare l’osservazione della realtà con istanze di tipo modernista. La cultura di massa della seconda metà del Novecento è invece al centro del contributo di Leonardo Quaresima, che si occupa dei cineromanzi italiani e francesi desunti negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta dai film di Antonioni. Infatti tale sorte è toccata non solo a pellicole ancora imperniate sui meccanismi del melodramma, come Cronaca di un amore (1950) o Le amiche (1954), ma perfino a opere della fase modernista dell’autore come L’avventura o La notte, che fanno del disorientamento del fruitore uno dei propri elementi fondativi. Nell’ottica di Quaresima, queste pubblicazioni non sono una mera curiosità editoriale, bensì un prezioso documento che mostra, nelle sue omissioni e censure, il modo in cui il cinema di Antonioni veniva recepito dal pubblico dell’epoca. Il saggio di Francesco Di Chiara riassume i due centri di interesse su cui si struttura la sezione: prendendo in esame I vinti (1952) come parte di un corpus di opere che combinano forme del neorealismo e del cinema popolare al fine di rappresentare il disagio dei giovani del dopoguerra, l’autore mette in evidenza il contributo italiano alla nascita e alla diffusione di un “genere” che nel corso degli anni Cinquanta acquisirà un’importanza sempre maggiore tanto nelle cinematografie europee quanto a Hollywood. Noa Steimatsky collega similmente eredità neorealista e cultura di massa in un saggio che prende in esame una delle opere meno conosciute del regista, l’episodio del film I tre volti (1965) intitolato Il provino, con il quale Dino De Laurentiis intendeva lanciare la carriera cinematografica dell’ex principessa Soraya. Rendere conto di questo “provino fallito” diviene per Steimatsky un’occasione per riflettere in generale, a partire da alcune osservazioni di Walter Benjamin, sulla forma specifica dello screen test e sulla sua relazione con i meccanismi che presiedono alla produzione di figure divistiche. Infine Marco Teti, indagando il rapporto tra Antonioni e Pirandello attraverso un confronto diretto tra il romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore e Blow-up (1966), individua nuovamente nel suo cinema una contrapposizione tra le istanze del modernismo e l’eredità neorealista.
I saggi della terza sezione, denominata “Politiche”, riflettono sul rapporto fra il cinema di Antonioni e le altre culture. Sandro Bernardi, per esempio, lo ricollega a una tradizione antropologica che affonda le sue radici nell’illuminismo. A suo avviso, in opere della maturità come Chung Kuo (1972) o Professione: reporter (1975), la collocazione problematica dello spettatore rispetto alle immagini che caratterizza il cinema moderno acquista un nuovo significato in quanto modalità preferenziale per l’incontro con l’Altro, con contesti geografici e culturali lontani dall’esperienza del regista e del pubblico. In anni più recenti, inversamente, si è assistito all’appropriazione di stilemi antonioniani da parte di cineasti appartenenti a contesti lontanissimi. Ed è proprio sulle conseguenze di questo incontro e sui rapporti intertestuali da esso istituiti che si interrogano – con approcci e modalità differenti – gli altri contributi della sezione, prendendo in esame la dimensione geopolitica dell’opera di Antonioni e il valore della sua eredità all’interno del “World Cinema” contemporaneo, con particolare riferimento alla produzione dell’Estremo Oriente. Così il saggio di John David Rhodes prende le mosse dal film del taiwanese Tsai Ming-liang Vive l’amour (1994), il cui stretto legame con lo stile del regista ferrarese era stato notato a suo tempo dalla critica. Dopo una lunga premessa teorica che combina la riflessione di Wilhelm Worringer sul concetto di astrazione con la nozione jamesoniana di “cartografia cognitiva”, l’autore evidenzia come il rapporto tra i due cineasti dipenda da un’affine attitudine a trattare le trasformazioni urbanistiche come sintomo dei mutamenti economici e sociali – secondo una prospettiva che prende forma per la prima volta in opere come L’avventura o L’eclisse, si propaga nel cinema europeo e infine raggiunge i nuovi imperi asiatici del neocapitalismo globale. Con un approccio molto simile ma orientato maggiormente verso l’analisi testuale, Laura Rascaroli prende in esame le citazioni da Blow-up presenti in un recente film del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul. Tale confronto fornisce all’autrice l’occasione per interrogarsi sul rapporto tra il “World Cinema” e il film d’autore europeo, nonché sulla tenuta del progetto estetico antonioniano nello scenario globalizzato del cinema contemporaneo. Un confronto diretto con un cineasta dell’Estremo Oriente è anche al centro del saggio di Rainer Winter, che rilegge il modernismo di Antonioni alla luce delle categorie di Jacques Rancière, per poi evidenziare le analogie fra i suoi film e alcune opere dell’hongkonghese Wong Kar-wai. Pur senza chiamare in causa il cinema asiatico, anche il contributo di Matthias Bauer ha come oggetto la dimensione geopolitica dell’opera del regista ferrarese, che si esplicita in un mutevole rapporto tra le immagini, gli spazi rappresentati e le aspettative dei fruitori. Gli spostamenti dei personaggi, in una prospettiva che va da Il grido a Zabriskie Point (1970), si confrontano allora con i flussi di merci e di persone del capitalismo globale.
L’importanza della dimensione spaziale nel cinema di Antonioni è stata riconosciuta ampiamente da quasi tutta la critica, o almeno da quella più sensibile a problemi di linguaggio e di stile, che ha esplorato i paesaggi naturali e artificiali in cui si muovono i suoi personaggi, studiato il suo modo di riprendere l’architettura moderna e analizzato la costruzione visiva delle sue inquadrature. I saggi della quarta sezione, intitolata appunto “Spazi”, intendono rilanciare e approfondire questa linea di ricerca attraverso ricognizioni complessive e analisi testuali di singoli film o sequenze. Dopo una riflessione sul concetto di “landscape” nella pittura inglese tra il XVIII e il XIX secolo, Geoffrey Nowell-Smith conia il neologismo “climatescape” (“paesaggio climatico”), registrando le variazioni stagionali e i fenomeni atmosferici presenti nelle opere di Antonioni, dalle nebbie padane di Il grido fino al sole che risplende nel suo ultimo documentario, Noto, Mandorli, Vulcano, Stromboli, Carnevale (1993). José Moure si sofferma invece sulle numerose sequenze antonioniane in cui è presente una scala, indagando il valore iconografico, narrativo e simbolico di tale elemento architettonico nella filmografia del regista, da Cronaca di un amore ad Al di là delle nuvole. Attraverso un’attenta analisi testuale di L’avventura, Millicent Marcus pone l’accento sulla presenza ricorrente di configurazioni triangolari, incluse nel profilmico o risultanti dalla costruzione dell’immagine, in cui scorge la raffigurazione grafica delle dinamiche del “desiderio mediato” (nell’accezione di René Girard) che legano Sandro e Claudia ad Anna anche dopo la sua scomparsa. Alberto Boschi focalizza l’attenzione sulla singolare costruzione spaziale della seconda inquadratura del film, mostrando come gli elementi architettonici presenti sullo sfondo, oltre a testimoniare i mutamenti urbanistici in corso nell’Italia della speculazione edilizia, alludano alla psicologia dei personaggi in primo piano e alle loro relazioni reciproche all’interno del racconto. Anche Rosalind Galt si concentra su L’avventura, chiamando in causa ancora una volta la pittura inglese del Settecento attraverso la categoria del “pittoresco”, nata in ambito britannico ma maturata proprio in relazione al paesaggio italiano. La tendenza a racchiudere la realtà naturale nei confini del quadro e la particolare visione dei rapporti di classe che emerge dalle teorie del pictoresque divengono così una chiave di lettura per interpretare l’immagine della Sicilia e dell’Italia offerta da Antonioni nel suo film. Infine Marco Bertozzi si sofferma nuovamente su Blow-up, uno dei rari casi di adattamento letterario presenti nella filmografia del regista: nel suo saggio lo spazio aperto del parco e quello chiuso dell’immagine fotografica divengono il punto di partenza per esplorare il complesso rapporto che lega la pellicola al racconto di Julio Cortàzar da cui prende le mosse.
Note
[1] Tra le numerosissime pubblicazioni curate da Carlo di Carlo ricordiamo qui: Michelangelo Antonioni, Bianco & Nero, Roma, 1964; Il deserto rosso, Cappelli, Bologna, 1964; Il primo Antonioni, Cappelli, Bologna, 1973; Professione: reporter, Cappelli, Bologna, 1975; i cinque volumi di L’œuvre de Michelangelo Antonioni, pubblicati tra il 1988 e il 1992 dall’Ente autonomo di gestione per il cinema (poi Cinecittà International); Il cinema di Michelangelo Antonioni, Il Castoro, Milano, 2002. Di Aldo Tassone si veda I film di Michelangelo Antonioni, Gremese, Roma, 2002. Giorgio Tinazzi è autore di Michelangelo Antonioni, La Nuova Italia, Firenze, 1976 (nuova ed. aggiornata Il Castoro, Milano, 2013), e curatore insieme a Carlo di Carlo di tre preziosi volumi antologici dedicati agli scritti del regista: Fare un film è per me vivere, Marsilio, Venezia, 1994; I film nel cassetto, Marsilio, Venezia, 1995; Sul cinema, Marsilio, Venezia, 2004. Di Lorenzo Cuccu ricordiamo La visione come problema. Forma e svolgimento del cinema di Antonioni, Bulzoni, Roma, 1973, e Antonioni: il discorso dello sguardo e altri saggi, ETS, Pisa, 1997 (nuova ed. riveduta e aggiornata 2014). Sandro Bernardi ha dedicato al cineasta ferrarese la seconda parte di Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2002, e Antonioni: personnage paysage, Presses Universitaires de Vincennes, Saint-Denis, 2006. Di Giorgio De Vincenti si veda Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma, 1993, e “Michelangelo Antonioni: Le amiche e Il grido”, in Sandro Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano 1954/1959, Vol. IX, Marsilio/Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2004. Nel corso del tempo Leonardo Quaresima ha dedicato ad Antonioni alcuni importanti contributi, da “Da Cronaca di un amore a Amore in città: Antonioni e il neorealismo”, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore, Vol. I, Pratiche, Parma, 1983, a “Making Love on the Shores of the River Po: Antonioni’s Documentaries,” in Laura Rascaroli, John David Rhodes (a cura di), Antonioni: Centenary Essays, Bfi/Palgrave Macmillan, Londra, 2012, pp. 115-39.
[2] Cfr. Saverio Zumbo, Al di là delle immagini: Michelangelo Antonioni, Falsopiano, Alessandria, 2002; Federico Vitella, Michelangelo Antonioni: L’avventura, Lindau, Torino, 2010; Roberto Calabretto, Antonioni e la musica, Marsilio, Venezia, 2012.
[3] In particolare con la bella mostra a cura di Dominique Païni “Lo sguardo di Michelangelo. Antonioni e le arti” (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 10 marzo – 9 giugno 2013), corredata di un ampio catalogo dallo stesso titolo (Ferrara Arte, Ferrara, 2013).
[4] Ne hanno fatto di recente un gustoso catalogo Laura Rascaroli e John David Rhodes in “Interstitial, Pretentious, Alienated, Dead: Antonioni at 100”, in Id. (a cura di), op. cit., pp. 1-17.
[5] Il quale ha manifestato anzi un certo fastidio per l’uso indiscriminato del termine “alienazione” a proposito del suo cinema. Ne è un esempio la prefazione al volume Sei film, Einaudi, Torino, 1964, ora Id., Fare un film è per me vivere, cit., pp. 53-65. Sullo stesso argomento si veda anche la divertente intervista di Oriana Fallaci a Monica Vitti “Alienata con riserva” («L’Europeo», 21 aprile 1963), ripubblicata in Id., Intervista con il mito, Rizzoli, Milano, 2010, pp. 54-68.
[6] Cfr. Seymour Chatman, Antonioni, or, the Surface of the World, University of California Press, Berkeley, 1985; Peter Brunette, Michelangelo Antonioni, Cambridge University Press, 1998; Millicent Marcus, The Italian Film in the Light of Neorealism, Princeton University Press, Princeton, 1986; Geoffrey Nowell-Smith, L’avventura, Palgrave Macmillan, Londra, 1997; Angelo Restivo, The Cinema of the Economic Miracles: Visuality and Modernization in the Italian Art Film, Duke University Press, Durham, 2002; Noa Steimatsky, Italian Locations. Reinhabiting the Past in Postwar Cinema, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2008.
[7] Cfr. Laura Rascaroli, John David Rhodes, op. cit. Di Rhodes si veda anche “The Eclipse of Place. Rome’s EUR from Rossellini to Antonioni”, in Elena Gorfinkel, John David Rhodes (a cura di), Trading Place. Location and the Moving Image, Minnesota University Press, Minneapolis, 2011, pp. 31-54.
[8] Cfr. José Moure, Michelangelo Antonioni: cinéaste de l’évidement, L’Harmattan, Parigi, 2001; Thomas Koebner, Irmbert Schenk (a cura di), Das goldene Zeitalter des italienische Films. Die 1960er Jahre, Edition text + kritik, München, 2008; András Bálint Kovács, Screening Modernism: European Art Cinema 1950-1980, University of Chicago Press, Chicago, 2007.
[9] Termine con cui Chatman designa i quattro film con Monica Vitti diretti da Antonioni nella prima metà degli anni Sessanta, ovvero L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Il deserto rosso (1964). Cfr. Seymour Chatman, op. cit., pp. 51-3.
[10] Cfr. Michelangelo Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», n. 68, 25 aprile 1939; ora in Id., Sul cinema, cit., pp. 77-80.

Testo tratto da  http://www.leparoleelecose.it/

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