Un fotogramma di L' eclisse (1962)
Proponiamo l’introduzione al volume Michelangelo Antonioni. Prospettive, culture, politiche, spazi, a cura di Alberto Boschi e Francesco Di Chiara, pubblicato qualche mese fa da il castoro. A tre anni dal convegno
internazionale “Cronaca di un autore” svoltosi all’Università di
Ferrara in occasione del centenario della nascita del regista, il libro –
che comprende saggi di Manzolli, Schenk, Felten, Eugeni, Calabretto,
Pitassio, Quaresima, Di Chiara, Steimatsky, Teti, Bernardi, Rhodes,
Rascaroli, Winter, Bauer, Nowell-Smith, Moure, Marcus, Boschi, Galt,
Bertozzi – prosegue e arricchisce i risultati di quel lavoro avvalendosi
anche della possibilità di accedere ai documenti conservati nel Fondo
Michelangelo Antonioni, acquisito dal Comune di Ferrara nel 1995 (dbr)
Proviamo ancora con Michelangelo Antonioni
di Alberto Boschi e Francesco Di Chiara
Non si può certo affermare che
Michelangelo Antonioni sia stato un autore maltrattato o negletto dalla
letteratura critica sul cinema. Nel periodo culminante della sua
carriera, il regista ferrarese ha dimostrato anzi la capacità di
collocarsi stabilmente al centro del dibattito nazionale e
internazionale, suscitando l’interesse non solo degli addetti ai lavori,
ma anche di intellettuali provenienti dalle più svariate discipline.
Nel corso del tempo, la critica e l’accademia italiana hanno prodotto
una mole impressionante di pubblicazioni dedicate al suo cinema: dai
preziosi volumi curati con affettuosa dedizione da Carlo di Carlo ai
profili bio-filmografici di Aldo Tassone, dagli studi ormai classici di
Giorgio Tinazzi e Lorenzo Cuccu agli importanti contributi di Sandro
Bernardi, Giorgio De Vincenti o Leonardo Quaresima,[1] fino ai lavori di studiosi della generazione più recente come Saverio Zumbo, Federico Vitella o Roberto Calabretto.[2]
Tuttavia da un po’ di tempo a questa parte in Italia l’interesse nei
confronti di Antonioni sembra essersi lievemente affievolito. A partire
dagli anni Novanta, gli studi italiani sul regista si sono nel complesso
diradati e neppure l’occasione del centenario, celebrata degnamente a
Ferrara[3]
ma molto meno sentita fuori dalle mura del capoluogo estense, ha dato
vita a iniziative editoriali di ampio respiro. Le ragioni di questa
apparente disaffezione sono probabilmente molteplici. Innanzitutto può
avere avuto un peso il lungo periodo di forzata inattività a cui è stato
costretto il regista, interrotto soltanto tardivamente da due film non
certo annoverabili fra le sue opere “maggiori” come Al di là delle nuvole e l’episodio di Eros
(2004). In secondo luogo, gli stereotipi banalizzanti diffusi dalla
stampa a proposito di Antonioni, definito di volta in volta come il
regista dei “tempi morti”, della “alienazione” o della
“incomunicabilità”, non hanno certo giocato a suo favore.[4] Simili etichette si sono infatti cristallizzate a dispetto delle stesse intenzioni del cineasta ferrarese,[5]
associando la sua opera a mode culturali oggi desuete e condizionandone
quindi in senso negativo l’attuale ricezione. Infine un cinema
ostentatamente “artistico” ed elitario come quello di Antonioni non
poteva trovarsi in grande sintonia con le nuove tendenze della cinefilia
e della critica, più inclini a riscoprire e a studiare la produzione di
genere che a occuparsi di figure autoriali già entrate nel “canone” e
ampiamente celebrate in precedenza. Tale fenomeno appare invece meno
percepibile all’estero, e in particolare nei paesi anglosassoni, dove
sembra che questo autore non abbia mai smesso di suscitare l’interesse
di studiosi di generazioni diverse: da Seymour Chatman a Peter Brunette,
da Millicent Marcus a Geoffrey Nowell-Smith, da Angelo Restivo a Noa
Steimatsky,[6]
per citare qualche nome alla rinfusa, fino all’importante volume
collettivo curato per il centenario da Laura Rascaroli e John David
Rhodes.[7]
E il panorama attuale si allarga ulteriormente se prendiamo in
considerazione studiosi operanti in altri contesti nazionali, come il
francese José Moure, i tedeschi Thomas Koebner e Irmbert Schenk o
l’ungherese András Bálint Kovács.[8]
La frattura tra il cinema d’autore e quello popolare, insomma, sembra
aver colpito gli studi cinematografici italiani della nuova generazione
più di quanto non sia accaduto altrove e, a parte le importanti
eccezione sopra menzionate, il regista ferrarese sembra averne fatto le
spese più di altri.
Il presente volume si propone dunque di
offrire un modesto contributo al rilancio del dibattito critico su una
figura imprescindibile del cinema italiano postbellico attraverso il
dialogo fra studiosi di diversa formazione e provenienza nazionale.
Senza alcuna pretesa di esaustività nella scelta degli argomenti
trattati o di coerenza nelle metodologie utilizzate, ma privilegiando
anzi la pluralità delle prospettive, esso mira a offrire al lettore
nuove chiavi di lettura e nuove linee di ricerca (talora già in corso,
talora soltanto ipotizzate) inerenti ad aspetti generali o a tratti
specifici del cinema di Michelangelo Antonioni. Da tale approccio emerge
innanzitutto l’inesauribile ricchezza formale e semantica della sua
opera, capace di suscitare ogni volta inediti percorsi interpretativi,
secondo un processo che Umberto Eco definirebbe di “semiosi illimitata”.
Così alcuni contributi, attraverso la rilettura di singoli film o
sequenze, riescono a rinvenire indizi ignorati in precedenza all’interno
di opere maggiori già passate al setaccio dalla critica come per
esempio L’avventura (1960). Altri saggi mirano invece a
ricostruire attraverso il ricorso a materiali d’archivio il contesto
cinematografico o la temperie culturale che fanno da sfondo alla
carriera del regista, oppure alcuni aspetti specifici della sua poetica,
avventurandosi in territori finora inesplorati dalla filologia
antonioniana. Altri ancora, con un approccio più speculativo, ne
rileggono la filmografia attraverso strumenti concettuali forniti da
teorici classici e moderni quali Worringer, Benjamin, Jameson o
Rancière, commisurandola a concetti come quelli di “astrazione”,
“postmodernismo” o “cartografia cognitiva”. Non mancano infine gli
autori che ne mettono in luce la vocazione antropologica, l’influenza
sull’“art cinema” contemporaneo (dalla “Berliner Schule” alle new wave
dell’Estermo Oriente) e non ultimo il valore politico, rinvenibile nella
straordinaria capacità della cinepresa di Antonioni di registrare il
cambiamento. I film della “Grande Tetralogia”[9]
forniscono in tal senso un modello messo a punto in relazione al
contesto specifico dell’Italia del boom economico ma applicabile anche
ad altre società in rapida espansione (per esempio le nuove economie
asiatiche). Nonostante l’eterogeneità degli approcci e degli oggetti
analizzati, nei ventuno contributi del volume emergono senza dubbio
alcuni centri di interesse privilegiati, che giustificano la sua
suddivisione in quattro diverse sezioni.
La prima di esse, intitolata
“Prospettive”, offre alternativamente riletture complessive dell’opera
di Antonioni e nuove proposte critiche concernenti aspetti specifici
della sua filmografia. Ed è proprio a partire da una rivisitazione
semiseria della saggistica dedicata al regista che Giacomo Manzoli
avanza un’ipotesi provocatoria ma di sicuro interesse: e se la
“pesantezza” attribuita proverbialmente ad Antonioni appartenesse in
realtà ai suoi esegeti e fosse quindi necessario liberare i suoi film
dalla zavorra di decenni di letteratura critica per vederli librarsi
leggeri nell’aria? Comunque sia, l’opera antonioniana necessita di nuovi
strumenti interpretativi, capaci di riconoscervi all’interno qualcosa
che non si era colto in precedenza, a cominciare con i suoi rapporti –
evidenziati da Manzoli – con la popular culture degli anni
Sessanta. In questa prospettiva, essa può essere considerata non tanto
(o non solo) una critica all’Italia del boom economico, quanto piuttosto
un suo prodotto – attraente sul piano sensoriale e a tratti addirittura
frivolo. I contributi di Irmbert Schenk e Uta Felten presentano,
nonostante le apparenze, un evidente punto di contatto: secondo entrambi
opere come L’avventura, La notte (1961) o L’eclisse
(1962) inaugurano il modernismo e al tempo stesso lo superano, ma sono
anche eredi di tradizioni culturali preesistenti. Il primo rilegge
alcune caratteristiche dello stile narrativo di Antonioni alla luce del
concetto di “contingenza” – attraverso il quale il regista spinge il
proprio cinema al di là delle categorie della modernità, proiettandolo
verso il postmodernismo – ma sottolinea al tempo stesso l’influenza
della poetica esistenzialista su un film come Il grido (1957),
che segna a suo avviso l’inizio di tale processo; la seconda rileva
invece la qualità allucinatoria delle immagini di Antonioni, tracciando
una linea che coniuga il suo stile alle esperienze dell’avanguardia
letteraria e cinematografica dei primi decenni del Novecento, dalla
passione proustiana per i dispositivi della visione ai film surrealisti
di Man Ray e Luis Buñuel. Dotarsi di nuovi strumenti può consentire
altresì di verificare e approfondire ipotesi interpretative già avanzate
in precedenza, come fa Ruggero Eugeni prendendo in esame il rapporto di
Michelangelo Antonioni con la cultura psichiatrica italiana degli anni
Cinquanta e Sessanta. Infatti, sebbene un interesse costante per le
tematiche relative al disagio psicologico e alla malattia mentale fosse
già stato riscontrato dalla critica antonioniana “classica”, Eugeni
conferisce una nuova sostanza a queste intuizioni, dimostrando
attraverso verifiche effettuate nella biblioteca personale del regista
la sua assidua frequentazione della letteratura psichiatrica e
psicanalitica dell’epoca. Le suggestioni presenti nei film – come il
tema ricorrente del suicidio – trovano allora un preciso riscontro nelle
numerose sottolineature effettuate da Antonioni sulle pagine dei volumi
in suo possesso. In modo analogo, Roberto Calabretto utilizza articoli e
dichiarazioni talora inedite per ricostruire il processo creativo che
ha dato vita alla colonna sonora di Il deserto rosso (1964), nella quale sono incorporati frammenti di composizioni elettroniche del musicista Vittorio Gelmetti.
La seconda sezione del volume,
intitolata “Culture”, ruota intorno al rapporto intrattenuto da
Antonioni con due elementi chiave della temperie italiana postbellica,
ovvero il neorealismo e la cultura di massa. Ovviamente il termine
“neorealismo” deve essere inteso nell’accezione più ampia possibile: ciò
giustifica il fatto che i saggi qui raccolti si muovano lungo un arco
temporale che va dai primi anni Quaranta alla fine degli anni Sessanta,
comprendendo quindi anche i suoi prodromi e la sua eredità. In questa
prospettiva Francesco Pitassio, prendendo in esame sia i primi
cortometraggi del regista che alcuni soggetti inediti custoditi dal
Museo Michelangelo Antonioni, indaga il suo rapporto con le pratiche
produttive ed estetiche di matrice neorealista che caratterizzano il
documentario italiano degli anni Cinquanta. L’idea di fondo è che fin
dalla pubblicazione del celebre articolo Per un film sul fiume Po[10]
egli rappresenti un ideale percorso alternativo, capace di integrare
l’osservazione della realtà con istanze di tipo modernista. La cultura
di massa della seconda metà del Novecento è invece al centro del
contributo di Leonardo Quaresima, che si occupa dei cineromanzi italiani
e francesi desunti negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta dai
film di Antonioni. Infatti tale sorte è toccata non solo a pellicole
ancora imperniate sui meccanismi del melodramma, come Cronaca di un amore (1950) o Le amiche (1954), ma perfino a opere della fase modernista dell’autore come L’avventura o La notte,
che fanno del disorientamento del fruitore uno dei propri elementi
fondativi. Nell’ottica di Quaresima, queste pubblicazioni non sono una
mera curiosità editoriale, bensì un prezioso documento che mostra, nelle
sue omissioni e censure, il modo in cui il cinema di Antonioni veniva
recepito dal pubblico dell’epoca. Il saggio di Francesco Di Chiara
riassume i due centri di interesse su cui si struttura la sezione:
prendendo in esame I vinti (1952) come parte di un corpus di
opere che combinano forme del neorealismo e del cinema popolare al fine
di rappresentare il disagio dei giovani del dopoguerra, l’autore mette
in evidenza il contributo italiano alla nascita e alla diffusione di un
“genere” che nel corso degli anni Cinquanta acquisirà un’importanza
sempre maggiore tanto nelle cinematografie europee quanto a Hollywood.
Noa Steimatsky collega similmente eredità neorealista e cultura di massa
in un saggio che prende in esame una delle opere meno conosciute del
regista, l’episodio del film I tre volti (1965) intitolato Il provino,
con il quale Dino De Laurentiis intendeva lanciare la carriera
cinematografica dell’ex principessa Soraya. Rendere conto di questo
“provino fallito” diviene per Steimatsky un’occasione per riflettere in
generale, a partire da alcune osservazioni di Walter Benjamin, sulla
forma specifica dello screen test e sulla sua relazione con i
meccanismi che presiedono alla produzione di figure divistiche. Infine
Marco Teti, indagando il rapporto tra Antonioni e Pirandello attraverso
un confronto diretto tra il romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore e Blow-up (1966), individua nuovamente nel suo cinema una contrapposizione tra le istanze del modernismo e l’eredità neorealista.
I saggi della terza sezione, denominata
“Politiche”, riflettono sul rapporto fra il cinema di Antonioni e le
altre culture. Sandro Bernardi, per esempio, lo ricollega a una
tradizione antropologica che affonda le sue radici nell’illuminismo. A
suo avviso, in opere della maturità come Chung Kuo (1972) o Professione: reporter
(1975), la collocazione problematica dello spettatore rispetto alle
immagini che caratterizza il cinema moderno acquista un nuovo
significato in quanto modalità preferenziale per l’incontro con l’Altro,
con contesti geografici e culturali lontani dall’esperienza del regista
e del pubblico. In anni più recenti, inversamente, si è assistito
all’appropriazione di stilemi antonioniani da parte di cineasti
appartenenti a contesti lontanissimi. Ed è proprio sulle conseguenze di
questo incontro e sui rapporti intertestuali da esso istituiti che si
interrogano – con approcci e modalità differenti – gli altri contributi
della sezione, prendendo in esame la dimensione geopolitica dell’opera
di Antonioni e il valore della sua eredità all’interno del “World
Cinema” contemporaneo, con particolare riferimento alla produzione
dell’Estremo Oriente. Così il saggio di John David Rhodes prende le
mosse dal film del taiwanese Tsai Ming-liang Vive l’amour
(1994), il cui stretto legame con lo stile del regista ferrarese era
stato notato a suo tempo dalla critica. Dopo una lunga premessa teorica
che combina la riflessione di Wilhelm Worringer sul concetto di
astrazione con la nozione jamesoniana di “cartografia cognitiva”,
l’autore evidenzia come il rapporto tra i due cineasti dipenda da
un’affine attitudine a trattare le trasformazioni urbanistiche come
sintomo dei mutamenti economici e sociali – secondo una prospettiva che
prende forma per la prima volta in opere come L’avventura o L’eclisse,
si propaga nel cinema europeo e infine raggiunge i nuovi imperi
asiatici del neocapitalismo globale. Con un approccio molto simile ma
orientato maggiormente verso l’analisi testuale, Laura Rascaroli prende
in esame le citazioni da Blow-up presenti in un recente film
del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul. Tale confronto
fornisce all’autrice l’occasione per interrogarsi sul rapporto tra il
“World Cinema” e il film d’autore europeo, nonché sulla tenuta del
progetto estetico antonioniano nello scenario globalizzato del cinema
contemporaneo. Un confronto diretto con un cineasta dell’Estremo Oriente
è anche al centro del saggio di Rainer Winter, che rilegge il
modernismo di Antonioni alla luce delle categorie di Jacques Rancière,
per poi evidenziare le analogie fra i suoi film e alcune opere
dell’hongkonghese Wong Kar-wai. Pur senza chiamare in causa il cinema
asiatico, anche il contributo di Matthias Bauer ha come oggetto la
dimensione geopolitica dell’opera del regista ferrarese, che si
esplicita in un mutevole rapporto tra le immagini, gli spazi
rappresentati e le aspettative dei fruitori. Gli spostamenti dei
personaggi, in una prospettiva che va da Il grido a Zabriskie Point (1970), si confrontano allora con i flussi di merci e di persone del capitalismo globale.
L’importanza della dimensione spaziale
nel cinema di Antonioni è stata riconosciuta ampiamente da quasi tutta
la critica, o almeno da quella più sensibile a problemi di linguaggio e
di stile, che ha esplorato i paesaggi naturali e artificiali in cui si
muovono i suoi personaggi, studiato il suo modo di riprendere
l’architettura moderna e analizzato la costruzione visiva delle sue
inquadrature. I saggi della quarta sezione, intitolata appunto “Spazi”,
intendono rilanciare e approfondire questa linea di ricerca attraverso
ricognizioni complessive e analisi testuali di singoli film o sequenze.
Dopo una riflessione sul concetto di “landscape” nella pittura inglese
tra il XVIII e il XIX secolo, Geoffrey Nowell-Smith conia il neologismo
“climatescape” (“paesaggio climatico”), registrando le variazioni
stagionali e i fenomeni atmosferici presenti nelle opere di Antonioni,
dalle nebbie padane di Il grido fino al sole che risplende nel suo ultimo documentario, Noto, Mandorli, Vulcano, Stromboli, Carnevale
(1993). José Moure si sofferma invece sulle numerose sequenze
antonioniane in cui è presente una scala, indagando il valore
iconografico, narrativo e simbolico di tale elemento architettonico
nella filmografia del regista, da Cronaca di un amore ad Al di là delle nuvole. Attraverso un’attenta analisi testuale di L’avventura,
Millicent Marcus pone l’accento sulla presenza ricorrente di
configurazioni triangolari, incluse nel profilmico o risultanti dalla
costruzione dell’immagine, in cui scorge la raffigurazione grafica delle
dinamiche del “desiderio mediato” (nell’accezione di René Girard) che
legano Sandro e Claudia ad Anna anche dopo la sua scomparsa. Alberto
Boschi focalizza l’attenzione sulla singolare costruzione spaziale della
seconda inquadratura del film, mostrando come gli elementi
architettonici presenti sullo sfondo, oltre a testimoniare i mutamenti
urbanistici in corso nell’Italia della speculazione edilizia, alludano
alla psicologia dei personaggi in primo piano e alle loro relazioni
reciproche all’interno del racconto. Anche Rosalind Galt si concentra su
L’avventura, chiamando in causa ancora una volta la pittura
inglese del Settecento attraverso la categoria del “pittoresco”, nata in
ambito britannico ma maturata proprio in relazione al paesaggio
italiano. La tendenza a racchiudere la realtà naturale nei confini del
quadro e la particolare visione dei rapporti di classe che emerge dalle
teorie del pictoresque divengono così una chiave di lettura per
interpretare l’immagine della Sicilia e dell’Italia offerta da
Antonioni nel suo film. Infine Marco Bertozzi si sofferma nuovamente su Blow-up,
uno dei rari casi di adattamento letterario presenti nella filmografia
del regista: nel suo saggio lo spazio aperto del parco e quello chiuso
dell’immagine fotografica divengono il punto di partenza per esplorare
il complesso rapporto che lega la pellicola al racconto di Julio
Cortàzar da cui prende le mosse.
Note
[1] Tra le numerosissime pubblicazioni curate da Carlo di Carlo ricordiamo qui: Michelangelo Antonioni, Bianco & Nero, Roma, 1964; Il deserto rosso, Cappelli, Bologna, 1964; Il primo Antonioni, Cappelli, Bologna, 1973; Professione: reporter, Cappelli, Bologna, 1975; i cinque volumi di L’œuvre de Michelangelo Antonioni, pubblicati tra il 1988 e il 1992 dall’Ente autonomo di gestione per il cinema (poi Cinecittà International); Il cinema di Michelangelo Antonioni, Il Castoro, Milano, 2002. Di Aldo Tassone si veda I film di Michelangelo Antonioni, Gremese, Roma, 2002. Giorgio Tinazzi è autore di Michelangelo Antonioni,
La Nuova Italia, Firenze, 1976 (nuova ed. aggiornata Il Castoro,
Milano, 2013), e curatore insieme a Carlo di Carlo di tre preziosi
volumi antologici dedicati agli scritti del regista: Fare un film è per me vivere, Marsilio, Venezia, 1994; I film nel cassetto, Marsilio, Venezia, 1995; Sul cinema, Marsilio, Venezia, 2004. Di Lorenzo Cuccu ricordiamo La visione come problema. Forma e svolgimento del cinema di Antonioni, Bulzoni, Roma, 1973, e Antonioni: il discorso dello sguardo e altri saggi, ETS, Pisa, 1997 (nuova ed. riveduta e aggiornata 2014). Sandro Bernardi ha dedicato al cineasta ferrarese la seconda parte di Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2002, e Antonioni: personnage paysage, Presses Universitaires de Vincennes, Saint-Denis, 2006. Di Giorgio De Vincenti si veda Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma, 1993, e “Michelangelo Antonioni: Le amiche e Il grido”, in Sandro Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano 1954/1959,
Vol. IX, Marsilio/Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2004. Nel corso del
tempo Leonardo Quaresima ha dedicato ad Antonioni alcuni importanti
contributi, da “Da Cronaca di un amore a Amore in città: Antonioni e il neorealismo”, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore,
Vol. I, Pratiche, Parma, 1983, a “Making Love on the Shores of the
River Po: Antonioni’s Documentaries,” in Laura Rascaroli, John David
Rhodes (a cura di), Antonioni: Centenary Essays, Bfi/Palgrave Macmillan, Londra, 2012, pp. 115-39.
[2] Cfr. Saverio Zumbo, Al di là delle immagini: Michelangelo Antonioni, Falsopiano, Alessandria, 2002; Federico Vitella, Michelangelo Antonioni: L’avventura, Lindau, Torino, 2010; Roberto Calabretto, Antonioni e la musica, Marsilio, Venezia, 2012.
[3]
In particolare con la bella mostra a cura di Dominique Païni “Lo
sguardo di Michelangelo. Antonioni e le arti” (Ferrara, Palazzo dei
Diamanti, 10 marzo – 9 giugno 2013), corredata di un ampio catalogo
dallo stesso titolo (Ferrara Arte, Ferrara, 2013).
[4]
Ne hanno fatto di recente un gustoso catalogo Laura Rascaroli e John
David Rhodes in “Interstitial, Pretentious, Alienated, Dead: Antonioni
at 100”, in Id. (a cura di), op. cit., pp. 1-17.
[5]
Il quale ha manifestato anzi un certo fastidio per l’uso indiscriminato
del termine “alienazione” a proposito del suo cinema. Ne è un esempio
la prefazione al volume Sei film, Einaudi, Torino, 1964, ora Id., Fare un film è per me vivere,
cit., pp. 53-65. Sullo stesso argomento si veda anche la divertente
intervista di Oriana Fallaci a Monica Vitti “Alienata con riserva”
(«L’Europeo», 21 aprile 1963), ripubblicata in Id., Intervista con il mito, Rizzoli, Milano, 2010, pp. 54-68.
[6] Cfr. Seymour Chatman, Antonioni, or, the Surface of the World, University of California Press, Berkeley, 1985; Peter Brunette, Michelangelo Antonioni, Cambridge University Press, 1998; Millicent Marcus, The Italian Film in the Light of Neorealism, Princeton University Press, Princeton, 1986; Geoffrey Nowell-Smith, L’avventura, Palgrave Macmillan, Londra, 1997; Angelo Restivo, The Cinema of the Economic Miracles: Visuality and Modernization in the Italian Art Film, Duke University Press, Durham, 2002; Noa Steimatsky, Italian Locations. Reinhabiting the Past in Postwar Cinema, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2008.
[7] Cfr. Laura Rascaroli, John David Rhodes, op. cit.
Di Rhodes si veda anche “The Eclipse of Place. Rome’s EUR from
Rossellini to Antonioni”, in Elena Gorfinkel, John David Rhodes (a cura
di), Trading Place. Location and the Moving Image, Minnesota University Press, Minneapolis, 2011, pp. 31-54.
[8] Cfr. José Moure, Michelangelo Antonioni: cinéaste de l’évidement, L’Harmattan, Parigi, 2001; Thomas Koebner, Irmbert Schenk (a cura di), Das goldene Zeitalter des italienische Films. Die 1960er Jahre, Edition text + kritik, München, 2008; András Bálint Kovács, Screening Modernism: European Art Cinema 1950-1980, University of Chicago Press, Chicago, 2007.
[9]
Termine con cui Chatman designa i quattro film con Monica Vitti diretti
da Antonioni nella prima metà degli anni Sessanta, ovvero L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Il deserto rosso (1964). Cfr. Seymour Chatman, op. cit., pp. 51-3.
[10] Cfr. Michelangelo Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», n. 68, 25 aprile 1939; ora in Id., Sul cinema, cit., pp. 77-80.
Testo tratto da http://www.leparoleelecose.it/
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