Lo scadimento della
politica è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta solo di
corruzione, ma soprattutto dell'uso anche ai vertici di un linguaggio
sempre più grossolano e semplicistico che spesso diventa insulto.
Massimo Recalcati
Tramontate le ideologie resta la cecità delle pulsioni
Il Novecento ha
insegnato che il consenso nella vita politica non si raccoglie grazie
alle argomentazioni persuasive, ma alla potenza seduttiva e
carismatica del leader. Il fondo oscuro che ha aggregato l’adesione
delle masse alla politica delirante dei vari totalitarismi — come
Freud aveva visionariamente anticipato — non deriva da una
condivisione razionale delle tesi del leader, ma da una
identificazione cieca alla sua figura che assume i toni di una vera e
propria ipnosi. E che cancella ogni pensiero critico.
Nel nostro tempo la parola esaltata del leader carismatico che si elegge a interprete unico e indiscutibile della Causa (la Storia, la Razza, la lotta di classe) non ha più luogo. Il tramonto della figura simbolica del Padre patriarcale porta con sé anche la fine dell’epoca delle conflittualità ideologiche: lo sguardo magnetico e invasato del Führer ha lasciato il posto a modesti tribuni che non parlano più in nome della Causa universale, ma della affermazione narcisistica di se stessi o del proprio movimento.
Nell’agone politico
contemporaneo anche quando vengono impugnati ragioni apparentemente
ideologiche — razziste, nazionaliste, classiste — al centro resta
sempre l’interesse di bottega, l’accumulo di consenso personale.
La tragedia della storia ha lasciato il posto alla farsa della
cronaca.
In questo nuovo contesto l’insulto sembra essere un’arma irresistibile per fare crescere i propri meriti agli occhi degli elettori. Esiste un fondo pulsionale, acefalo — letteralmente “senza testa” — della lotta politica che prevale sulla dimensione socratica del confronto aperto e del dialogo critico. L’insulto ha lo stesso statuto dell’allucinazione psicotica; “verme”, “negro”, “troia”, “ladro”, “frocio” tagliano corto, fratturando ogni possibile dialettica critica.
Come l’allucinazione si
impone al soggetto nella forma di una certezza che non permette alcun
giudizio, allo stesso modo l’insulto interrompe la legge simbolica
della parola. Ma non si deve confondere questo statuto dell’insulto
con quello che imperava nel Novecento. Quest’ultimo aveva uno
statuto ontologico: l’ebreo, il comunista, il capitalista erano
incarnazioni reali del Male. La lotta politica assumeva un carattere
apocalittico: il Bene assoluto contro il Male assoluto.
L’insulto politico che
oggi invade pervasivamente i media non è ontologicamente fondato, ma
solo tatticamente astuto. In questo senso il trionfo dell’insulto
mostra il declino antipolitico della politica. Perché vi sarebbero
certamente altri modi per tenere conto del fondo pulsionale che
inevitabilmente accompagna l’azione politica.
La parola “desiderio”,
per esempio, è una parola che la politica farebbe bene a considerare
in tutta la sua forza per non accontentarsi di una gestione
burocratica dell’esistente. Fare prevalere una mentalità
aridamente ragionieristica che elimina il sogno dalla politica è
solo il rovescio dell’ingiuria che prepara, in realtà, il terreno
per il suo successo. Per questa ragione, l’insulto e la burocrazia
algida della politica ridotta ad amministrazione sono due facce di
una stessa medaglia.
La Repubblica – 30
settembre 2015
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