La condizione umana
della società digitale è la solitudine. Tutti con il cellulare in
mano o davanti ad uno schermo a mandare messaggi a chi è lontano (e
spesso virtuale) mentre viene trascurato chi è accanto a noi. Le
immagini sono tratte da un sito americano sulla "morte della
conversazione".
Jonathan Franze
Social solitudine
Sherry Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista ma non luddista: un’adulta. Ha una cattedra sovvenzionata al Mit e lavora a stretto contatto con gli esperti di robotica e affective computing che lavorano da quelle parti. A differenza di Jaron Lanier, che si porta dietro il pesante fardello di essere un dipendente Microsoft, o di Evgenij Morozov, che ha una prospettiva bielorussa, la Turkle è un’insider fidata e rispettata, e questo ne fa una sorta di coscienza del mondo high-tech.
Il suo precedente libro ( Insieme ma soli: perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri , pubblicato in Italia da Codice) era uno spietato rapporto sulle relazioni umane nell’epoca digitale. Osservando le interazioni delle persone con i robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini, raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini, cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi, meno esigenti.
Parallela a questo
mutamento corre una preferenza crescente per il virtuale rispetto al
reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le persone, ma i
soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi, con
sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo
stesso modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social
media trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli
impegni di una comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle
osservava ripetutamente una profonda delusione nei confronti degli
esseri umani, imperfetti, distratti, bisognosi, imprevedibili come le
macchine sono programmate per non essere.
Il suo nuovo libro, Reclaiming Conversation , estende la sua analisi critica, spostando l’attenzione dai robot all’insoddisfazione verso la tecnologia espressa dalle persone che ha intervistato di recente. La Turkle interpreta questa scontentezza come un segnale di speranza, e il suo libro rappresenta una vera e propria chiamata alle armi: la nostra entusiastica sottomissione alle tecnologie digitali ha portato a un’atrofizzazione di capacità umane come l’empatia e l’introspezione, ed è arrivato il momento di riaffermare noi stessi, comportarci da adulti e rimettere la tecnologia al suo posto. Come in Insieme ma soli , la forza della tesi della Turkle deriva dall’ampiezza della ricerca e dall’acume delle sue osservazioni psicologiche. Le persone intervistate hanno adottato nuove tecnologie perché ricercavano un maggior controllo, ma hanno finito per sentirsi controllate dalle tecnologie.
L’io amabile e idealizzato che hanno creato con i social media lascia ancora più isolato il loro io reale. Comunicano incessantemente, ma hanno paura delle conversazioni faccia a faccia; sono preoccupati, spesso in modo nostalgico, di tralasciare qualcosa di fondamentale La conversazione è il principio organizzativo della Turkle, perché gran parte degli elementi costitutivi dell’umanità è a rischio quando la sostituiamo con la comunicazione elettronica.
La conversazione
presuppone solitudine, per esempio, perché è nella solitudine che
impariamo a pensare per conto nostro e sviluppare un senso stabile
dell’io, elemento essenziale per accettare gli altri così come
sono. (Se non riusciamo a separarci dai nostri smartphone, dice la
Turkle, consumiamo le altre persone «a spizzichi e bocconi: è come
se le usassimo alla stregua di pezzi di ricambio per sostenere il
nostro fragile io».) Attraverso l’attenzione conversativa dei
genitori, i bambini acquisiscono un sentimento duraturo di
connessione e l’abitudine di parlare dei loro sentimenti, invece di
limitarsi ad agire sulla base di essi. (Turkle è convinta che
conversare regolarmente in famiglia contribuisca a «immunizzare» i
bambini dal bullismo.)
Quando parli a qualcuno
di persona, sei costretto a riconoscere la sua piena realtà umana,
ed è qui che inizia l’empatia. (Uno studio recente dimostra un
drastico calo dell’empatia, misurato con test psicologici standard,
fra gli studenti universitari della generazione degli smartphone.) E
la conversazione si porta dietro il rischio di noia, la condizione
che gli smartphone ci hanno insegnato a temere sopra ogni altra cosa,
ma anche la condizione in cui si sviluppano la pazienza e
l’immaginazione.
La Turkle esamina
ogni aspetto della conversazione – da soli con se stessi, con
parenti e amici, con insegnanti e partner, con colleghi e clienti,
con la società in generale – e racconta l’erosione elettronica
di ciascuno di essi. Facebook, Tinder, i Mooc, i messaggini
compulsivi, la tirannia delle mail di lavoro e la vuotezza
dell’attivismo sociale online finiscono tutti nel mirino
dell’autrice.
Ma la parte più commovente e rappresentativa del
libro riguarda la scomparsa delle conversazioni in famiglia.
Il circolo vizioso
funziona in questo modo, secondo i giovani intervistati dalla Turkle:
«I genitori regalano ai figli il telefono. I figli non riescono a
distogliere i genitori dal loro telefono e allora si rifugiano nel
loro. Poi i genitori interpretano il fatto che i figli siano
assorbiti dal loro telefono come un’autorizzazione a usare a loro
volta il telefono quanto vogliono». Secondo la Turkle la
responsabilità è tutta dei genitori: «Il modo più realistico per
spezzare questo circolo è fare in modo che i genitori si assumano la
loro responsabilità di mentori».
Riconosce che può essere
difficile, che i genitori hanno paura di rimanere tecnologicamente
indietro rispetto ai figli, che per conversare con dei bambini ci
vuole pazienza e pratica, che è più facile dimostrare amore
genitoriale scattando tonnellate di foto e pubblicandole su Facebook.
Ma a differenza di Insieme ma soli , dove si accontentava di
diagnosticare, in Reclaiming Conversation la Turkle usa un tono
terapeutico ed esortativo. Invita i genitori a capire cosa c’è in
gioco nelle conversazioni familiari – «lo sviluppo della fiducia e
dell’autostima», «la capacità di provare empatia, amicizia,
intimità» – e a riconoscere la propria vulnerabilità rispetto
agli incanti della tecnologia. «Accettate la vostra vulnerabilità»,
dice. «Rimuovete la tentazione».
Reclaiming Conversation può essere visto come un sofisticato manuale di autoaiuto. Sostiene con argomenti convincenti che i bambini si sviluppano meglio, gli studenti imparano meglio e i dipendenti hanno un rendimento migliore quando i loro mentori danno il buon esempio e ritagliano spazi per interazioni faccia a faccia. Ma suona meno convincente quando esorta all’azione collettiva. È convinta che sia possibile e doveroso progettare una tecnologia «che ci imponga di usarla in modo più consapevole».
Invoca un’interfaccia
per smartphone che «invece di incoraggiarci a stare connessi il più
a lungo possibile ci incoraggi a staccarci». Ma un’interfaccia del
genere metterebbe a rischio quasi tutti i modelli di business della
Silicon Valley, dove capitalizzazioni di mercato smisurate sono
fondare proprio sulla capacità di tenere i consumatori inchiodati ai
loro apparecchi. La Turkle spera che la domanda dei consumatori, che
ha costretto l’industria alimentare a creare prodotti più sani,
possa alla fine costringere l’industria high-tech a fare
altrettanto.
Ma l’analogia è
imperfetta: le aziende del comparto alimentare guadagnano vendendo
cose essenziali, non inserendo pubblicità mirate in una braciola di
maiale o sfruttando i dati che fornisce una persona mentre la
addenta. L’analogia è anche politicamente inquietante: dal momento
che una piattaforma che scoraggia il coinvolgimento è meno
redditizia, per guadagnare dovrebbe far pagare un sovrapprezzo che
solo consumatori benestanti e istruiti, del genere di quelli che
fanno la spesa nei negozi di prodotti bio, sarebbero disposti a
pagare.
Reclaiming Conversation si sofferma sugli aspetti politici della privacy e sui robot che fanno risparmiare lavoro, ma la Turkle si tiene a distanza dalle implicazioni più radicali delle sue scoperte. Quando fa notare che a casa di Steve Jobs tablet e smartphone erano vietati quando si cenava e la famiglia era incoraggiata parlare di libri e di storia, o quando cita Mozart, Kafka e Picasso sull’importanza di una solitudine senza distrazioni, sta descrivendo le abitudini di individui altamente efficaci.
Esì, la famiglia che se la passa abbastanza bene da comprare e leggere il suo nuovo libro forse riuscirà a limitare l’esposizione alla tecnologia e vivrà ancora meglio. Ma che ne sarà della gran massa delle persone, troppo ansiose o troppo sole per resistere alle attrattive della tecnologia, troppo povere o sovraccariche di impegni per sfuggire ai circoli viziosi? Matthew Crawford, in The World Beyond Your Head , mette a confronto il mondo di una sala aeroportuale per «poveri» (saturata di pubblicità, stracolma di schermi magnetici) con il mondo sereno e senza pubblicità di una sala d’aspetto business: «Per dedicarsi a riflessioni allegre e creative, e magari creare ricchezza per se stessi durante quelle ore inoperose trascorse in aeroporto, c’è bisogno di silenzio. Ma la mente degli altri, giù nella sala d’aspetto dei poveri (o alla fermata dell’autobus), può essere trattata come una risorsa, una riserva deambulante di potere d’acquisto».
Le nostre tecnologie
digitali non sono politicamente neutre. Il giovane che non riesce a
stare o non sta mai da solo, non riesce a conversare con la famiglia,
a uscire con gli amici, ad andare a una conferenza o a svolgere un
compito senza controllare il suo smartphone è l’emblema di
un’economia attaccata come una sanguisuga al nostro corpo. La
tecnologia digitale è il capitalismo a velocità iperspaziale, che
inietta la sua logica del consumo e della promozione, della
monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto che trascorriamo da
svegli.
È forte la tentazione di correlare l’ascesa della «democrazia digitale» con il forte incremento della disuguaglianza economica, di vederci qualcosa di più di un semplice paradosso. Ma forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità «gratuita» di Google, la confortevolezza di Facebook e la compagnia affidabile degli iPhone. Il fascino di Reclaiming Conversation sta nell’evocazione di un’epoca, non molto lontana, in cui la conversazione, la privacy, le sfumature nelle discussioni non erano beni di lusso. Non è colpa della Turkle se il suo libro può essere letto come un manuale per privilegiati. Si rivolge a una classe media in cui lei stessa è cresciuta, evocando una profondità di potenziale umano che un tempo era diffusa. Ma il medio, come sappiamo, sta scomparendo.
La Repubblica -11 ottobre
2015
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