Pasolini e Totò sul set di Uccellacci e uccellini, 1966
Ti scrivo. Noi sopravvissuti
Caro Pasolini,
le scrivo dandole del lei, come spetta a un maestro e come usa oggi che non siamo più compagni di nessuno.
Non credo nell’aldilà, quindi mi rivolgo a quegli atomi di carbonio e altre sostanze, in parte volate via, in parte ancora giacenti nella sua tomba a Casarsa, che un tempo costituivano il suo corpo magro asciutto nervoso, perché voglio avvertirla che la piccola borghesia di merda di cui ha tanto scritto e contro la quale ci ha disperatamente messo in guardia, ha vinto.
Puramente e semplicemente, vinto.
Ogni altra classe sociale – ricorda il proletariato? e il sotto-proletariato? – è stata annientata e subito assorbita in un unico ceto medio. Però non piccolo-borghese, come lei malamente informato (vista la sua attuale condizione di non esistenza) potrebbe pensare, ma semplicemente post-borghese.
Ah bene! – lei potrebbe esclamare, nell’illusione di un superamento delle classi, cioè del socialismo realizzato, – finalmente sconfitte la grettezza, la piccineria, l’invidia e l’arrampicata sociali e tutto ciò che concerneva l’infelicità piccolo-borghese, a fronte della primigenia e lieta autenticità popolare da lei, un po’ avventatamente, vagheggiata.
Niente di tutto questo, caro Maestro. Trattasi di ben altro.
La «mutazione antropologica» è andata molto al di là di una semplice conferma, puntualmente arrivata, delle sue tesi, e si è spinta in territori mai battuti prima dalla storia umana.
È accaduto, caro Pasolini, che il Capitale si è davvero completamente impadronito dei mezzi di comunicazione di massa e, senza nessun ostacolo, è arrivato là dove fino a pochi anni prima mai avrebbe pensato di poter giungere: cioè direttamente nella mente di ogni singolo individuo, borghese, piccolo borghese, proletario, sotto-proletario che fosse, depositandovi le sue uova.
Che poi col tempo si sono puntualmente schiuse, restituendoci una società, non più in maggioranza consenziente, ma totalmente (e felicemente) consenziente.
Anche chi le scrive, non ostante una convinta formazione marxista, non può oggi non dirsi consenziente. E per giustificare a me stesso (nessuno me ne chiede conto) questa deriva acritica, immagino, mi invento, di essere stato in fondo anch’io sempre consenziente, cosa che forse non è del tutto vera.
Caro Maestro, so che i media di cui sopra erano già in azione ai suoi tempi, ma non avevano ancora tutta la potenza di cui sono stati capaci poi. Quando lei scriveva i suoi editoriali sul “Corriere della sera”, l’emulazione e la spinta al consumo stavano già trasformando il popolo, ma non si poteva prevedere che un giorno il Capitale (lo scrivo ancora con la C maiuscola) sarebbe riuscito a compattarlo con le piccole e medie borghesie, ricavandone un’unica disfatta tiepida felice poltiglia sociale modellabile all’infinito.
Non solo. Nessuno poteva immaginare che i giovani avrebbero del tutto abbandonato la tradizionale vis oppositiva novecentesca per galleggiare dentro questo ceto medio totalizzante, senza più la minima nozione di un diverso modo di pensare, di una diversa opinione, di mondi possibili diversi da questo.
Nel 1978, Franco Fortini (che non le ha mai risparmiato critiche), ne I confini della poesia, così scriveva:
Se Fortini diceva queste cose 1978, cioè a soli tre anni dalla sua morte, allora ciò che diciamo dell’oggi si può dire degli ultimi 40 anni. Ciò che percepiamo come palpabile contemporaneità è già ampiamente storia. Con la differenza rispetto al 1978, ipotizzo, che oggi quella massa culturalmente manipolata nei primi anni Settanta di cui già parla lei, Maestro, è nel frattempo diventata maggioranza ed è andata al potere.
Com’è ovvio, la cultura di chi ci governa non è quella che sta maturando nel fermento della contemporaneità, ma è quella in cui è cresciuta e si è formata l’attuale classe dirigente e risale a trenta quarant’anni fa, perché l’età di chi in questo momento è al potere è tra i quaranta e i cinquant’anni.
Dunque, caro Pasolini, la dottrina del «sempre uguale» di cui parla Fortini e che è in definitiva il prodotto di quel processo di omologazione da lei così efficacemente denunciato, è oggi divenuta largamente dominante, fin quasi all’unanimità. Il mondo attuale non ha alternative, nessuno (compreso chi scrive) le vede più, nessuno le immagina, nessuno che io sappia ci lavora, nessuna forza politica ha una visione che non contempli sostanzialmente la conferma del mondo com’è, del «sempre uguale».
Caro Maestro, quando non c’è tensione verso il meglio, tutto va verso il peggio, ogni cosa arretra di qualche casella, ogni istanza di progresso fa un passo indietro, quando non addirittura scompare.
Devo anche informarla che nell’attuale presente, oltre al ristagno e all’arretramento del progresso, si è verificato anche l’arresto dello sviluppo (evoco qui una sua famosa distinzione): il capitalismo italiano arranca in una dimensione arretrata, mentre un mondo ormai quasi completamente cino-americano ci travolge in uno sviluppo tecnologico apparentemente immateriale, di cui lei, morto troppo presto, non può avere la benché minima nozione.
La chiamiamo rivoluzione digitale: le interesserebbe molto.
Il Novecento ha costruito l’hardware del mondo in cui viviamo. Il XXI Secolo ne sta globalmente allestendo il software, che in un futuro prossimo servirà a gestirne anche la più trascurabile molecola. Il processo è appena cominciato, gli esiti sono imprevedibili. Mi scuso per aver usato termini e concetti che lei non può capire e che anch’io capisco poco.
Ma le generazioni nate a ridosso e subito dopo l’anno Duemila, cioè coloro che fanno risalire l’Inizio dei Tempi all’attacco alle Twin Towers del settembre 2001, va a dire i nati dentro il processo di digitalizzazione del mondo – quante cose sono successe dopo la sua morte! –, ecco, di quelli non sappiamo nulla, nessuno sa nulla.
Buona parte di loro (cioè quelli non del tutto emarginati) sembra vivere placidamente in seno al Grande Ceto Medio Occidentale, dando tutto per acquisito, anzi per scontato, non avendogli i padri trasmesso alcuna tensione politica, alcun disagio che non sia economico. Ma anche quest’ultimo ordine di problemi sembrano accettarlo come un dato di fatto, tipo: «il mondo è fatto così, chi sono io per metterlo in discussione?».
Oggi nulla resta del Popolo da lei vagheggiato, nulla del mondo da cui proveniva la sua gente, di quegli inurbati che costruirono le prime borgate nelle rughe dell’Agro a ridosso della Città di Dio, di fatto realizzando gli avamposti della successiva selvaggia espansione. L’Appennino è stato abbandonato. Nulla resta di quella forza politica, il PCI, che lei definiva un «paese nel paese», nulla è rimasto di quella alterità, di quella diversità un tempo pervicacemente perseguita e mantenuta. Oggi ogni cosa si è come corrotta. O almeno così lei oggi la vedrebbe.
O forse no. Forse sbaglio: nessuno può immaginare come lei, Maestro, avrebbe scavallato gli anni Ottanta. Come avrebbe vissuto quella cerniera cruciale tra un Prima (di cui continuamente misuriamo le differenze col presente) e un Dopo che ancora dura e continuamente lievita in modo esponenziale, tormentandoci ogni giorno con il Nuovo.
Noi sopravvissuti non sappiamo cos’è il presente e come sarà il futuro, nemmeno quello prossimo.
Nessuno legge più – o almeno nessuno cita più – i suoi romanzi, che pure furono così importanti per me, ragazzetto di Roma Nord, quando nei primi Sessanta passavo pomeriggi in camera mia a leggerli, scoprendo l’esistenza di una realtà inaspettata, che avrei poi verificato di persona in lunghe esplorazioni.
Questo è ciò che lei, Maestro, significa per me.
Significa libri di cui oggi si può dire tutto (anch’io, pur tenendoli cari, ne riconosco i difetti), ma che allora erano fuori dagli schemi, fuori dallo gnè gnè scolastico, fuori dal quieto accademismo letterario, fuori dalla noia della letteratura perbene, fuori da quella letteratura che anche quando si occupavano dei socialmente diversi, lo facevano con distanza, con uno sguardo esterno, con penna atteggiata.
Qui mi fermo, caro Pasolini, e riapro Una vita violenta e ne rileggo l’inizio, come fossi ancora sdraiato su quel copriletto a fiori della mia stanza in stile svedese, in un pomeriggio d’inverno del Sessantuno:
Documento tratto da http://www.doppiozero.com/materiali/ppp/ti-scrivo-1
le scrivo dandole del lei, come spetta a un maestro e come usa oggi che non siamo più compagni di nessuno.
Non credo nell’aldilà, quindi mi rivolgo a quegli atomi di carbonio e altre sostanze, in parte volate via, in parte ancora giacenti nella sua tomba a Casarsa, che un tempo costituivano il suo corpo magro asciutto nervoso, perché voglio avvertirla che la piccola borghesia di merda di cui ha tanto scritto e contro la quale ci ha disperatamente messo in guardia, ha vinto.
Puramente e semplicemente, vinto.
Ogni altra classe sociale – ricorda il proletariato? e il sotto-proletariato? – è stata annientata e subito assorbita in un unico ceto medio. Però non piccolo-borghese, come lei malamente informato (vista la sua attuale condizione di non esistenza) potrebbe pensare, ma semplicemente post-borghese.
Ah bene! – lei potrebbe esclamare, nell’illusione di un superamento delle classi, cioè del socialismo realizzato, – finalmente sconfitte la grettezza, la piccineria, l’invidia e l’arrampicata sociali e tutto ciò che concerneva l’infelicità piccolo-borghese, a fronte della primigenia e lieta autenticità popolare da lei, un po’ avventatamente, vagheggiata.
Niente di tutto questo, caro Maestro. Trattasi di ben altro.
La «mutazione antropologica» è andata molto al di là di una semplice conferma, puntualmente arrivata, delle sue tesi, e si è spinta in territori mai battuti prima dalla storia umana.
È accaduto, caro Pasolini, che il Capitale si è davvero completamente impadronito dei mezzi di comunicazione di massa e, senza nessun ostacolo, è arrivato là dove fino a pochi anni prima mai avrebbe pensato di poter giungere: cioè direttamente nella mente di ogni singolo individuo, borghese, piccolo borghese, proletario, sotto-proletario che fosse, depositandovi le sue uova.
Che poi col tempo si sono puntualmente schiuse, restituendoci una società, non più in maggioranza consenziente, ma totalmente (e felicemente) consenziente.
Anche chi le scrive, non ostante una convinta formazione marxista, non può oggi non dirsi consenziente. E per giustificare a me stesso (nessuno me ne chiede conto) questa deriva acritica, immagino, mi invento, di essere stato in fondo anch’io sempre consenziente, cosa che forse non è del tutto vera.
Caro Maestro, so che i media di cui sopra erano già in azione ai suoi tempi, ma non avevano ancora tutta la potenza di cui sono stati capaci poi. Quando lei scriveva i suoi editoriali sul “Corriere della sera”, l’emulazione e la spinta al consumo stavano già trasformando il popolo, ma non si poteva prevedere che un giorno il Capitale (lo scrivo ancora con la C maiuscola) sarebbe riuscito a compattarlo con le piccole e medie borghesie, ricavandone un’unica disfatta tiepida felice poltiglia sociale modellabile all’infinito.
Non solo. Nessuno poteva immaginare che i giovani avrebbero del tutto abbandonato la tradizionale vis oppositiva novecentesca per galleggiare dentro questo ceto medio totalizzante, senza più la minima nozione di un diverso modo di pensare, di una diversa opinione, di mondi possibili diversi da questo.
Nel 1978, Franco Fortini (che non le ha mai risparmiato critiche), ne I confini della poesia, così scriveva:
Con quasi due milioni di disoccupati (…) e con molti milioni (…) di lavoratori a tempo ridotto o a domicilio, non sindacalizzati, non protetti e spesso scandalosamente sfruttati, una parte imponente della popolazione è stata sottoposta, come mai prima, a sfrenata manipolazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Questi ultimi cospirano tutti nella medesima direzione: distruggere l’avvenire sostituendolo col «sempre uguale».
Se Fortini diceva queste cose 1978, cioè a soli tre anni dalla sua morte, allora ciò che diciamo dell’oggi si può dire degli ultimi 40 anni. Ciò che percepiamo come palpabile contemporaneità è già ampiamente storia. Con la differenza rispetto al 1978, ipotizzo, che oggi quella massa culturalmente manipolata nei primi anni Settanta di cui già parla lei, Maestro, è nel frattempo diventata maggioranza ed è andata al potere.
Com’è ovvio, la cultura di chi ci governa non è quella che sta maturando nel fermento della contemporaneità, ma è quella in cui è cresciuta e si è formata l’attuale classe dirigente e risale a trenta quarant’anni fa, perché l’età di chi in questo momento è al potere è tra i quaranta e i cinquant’anni.
Dunque, caro Pasolini, la dottrina del «sempre uguale» di cui parla Fortini e che è in definitiva il prodotto di quel processo di omologazione da lei così efficacemente denunciato, è oggi divenuta largamente dominante, fin quasi all’unanimità. Il mondo attuale non ha alternative, nessuno (compreso chi scrive) le vede più, nessuno le immagina, nessuno che io sappia ci lavora, nessuna forza politica ha una visione che non contempli sostanzialmente la conferma del mondo com’è, del «sempre uguale».
Caro Maestro, quando non c’è tensione verso il meglio, tutto va verso il peggio, ogni cosa arretra di qualche casella, ogni istanza di progresso fa un passo indietro, quando non addirittura scompare.
Devo anche informarla che nell’attuale presente, oltre al ristagno e all’arretramento del progresso, si è verificato anche l’arresto dello sviluppo (evoco qui una sua famosa distinzione): il capitalismo italiano arranca in una dimensione arretrata, mentre un mondo ormai quasi completamente cino-americano ci travolge in uno sviluppo tecnologico apparentemente immateriale, di cui lei, morto troppo presto, non può avere la benché minima nozione.
La chiamiamo rivoluzione digitale: le interesserebbe molto.
Il Novecento ha costruito l’hardware del mondo in cui viviamo. Il XXI Secolo ne sta globalmente allestendo il software, che in un futuro prossimo servirà a gestirne anche la più trascurabile molecola. Il processo è appena cominciato, gli esiti sono imprevedibili. Mi scuso per aver usato termini e concetti che lei non può capire e che anch’io capisco poco.
Ma le generazioni nate a ridosso e subito dopo l’anno Duemila, cioè coloro che fanno risalire l’Inizio dei Tempi all’attacco alle Twin Towers del settembre 2001, va a dire i nati dentro il processo di digitalizzazione del mondo – quante cose sono successe dopo la sua morte! –, ecco, di quelli non sappiamo nulla, nessuno sa nulla.
Buona parte di loro (cioè quelli non del tutto emarginati) sembra vivere placidamente in seno al Grande Ceto Medio Occidentale, dando tutto per acquisito, anzi per scontato, non avendogli i padri trasmesso alcuna tensione politica, alcun disagio che non sia economico. Ma anche quest’ultimo ordine di problemi sembrano accettarlo come un dato di fatto, tipo: «il mondo è fatto così, chi sono io per metterlo in discussione?».
Oggi nulla resta del Popolo da lei vagheggiato, nulla del mondo da cui proveniva la sua gente, di quegli inurbati che costruirono le prime borgate nelle rughe dell’Agro a ridosso della Città di Dio, di fatto realizzando gli avamposti della successiva selvaggia espansione. L’Appennino è stato abbandonato. Nulla resta di quella forza politica, il PCI, che lei definiva un «paese nel paese», nulla è rimasto di quella alterità, di quella diversità un tempo pervicacemente perseguita e mantenuta. Oggi ogni cosa si è come corrotta. O almeno così lei oggi la vedrebbe.
O forse no. Forse sbaglio: nessuno può immaginare come lei, Maestro, avrebbe scavallato gli anni Ottanta. Come avrebbe vissuto quella cerniera cruciale tra un Prima (di cui continuamente misuriamo le differenze col presente) e un Dopo che ancora dura e continuamente lievita in modo esponenziale, tormentandoci ogni giorno con il Nuovo.
Noi sopravvissuti non sappiamo cos’è il presente e come sarà il futuro, nemmeno quello prossimo.
Nessuno legge più – o almeno nessuno cita più – i suoi romanzi, che pure furono così importanti per me, ragazzetto di Roma Nord, quando nei primi Sessanta passavo pomeriggi in camera mia a leggerli, scoprendo l’esistenza di una realtà inaspettata, che avrei poi verificato di persona in lunghe esplorazioni.
Questo è ciò che lei, Maestro, significa per me.
Significa libri di cui oggi si può dire tutto (anch’io, pur tenendoli cari, ne riconosco i difetti), ma che allora erano fuori dagli schemi, fuori dallo gnè gnè scolastico, fuori dal quieto accademismo letterario, fuori dalla noia della letteratura perbene, fuori da quella letteratura che anche quando si occupavano dei socialmente diversi, lo facevano con distanza, con uno sguardo esterno, con penna atteggiata.
Qui mi fermo, caro Pasolini, e riapro Una vita violenta e ne rileggo l’inizio, come fossi ancora sdraiato su quel copriletto a fiori della mia stanza in stile svedese, in un pomeriggio d’inverno del Sessantuno:
Tommaso, Lello, il Zucabbo e gli altri ragazzini che abitavano nel villaggetto di baracche sulla Via dei Monti di Pietralata, come sempre dopo mangiato, arrivarono davanti alla scuola almeno una mezzoretta prima. Lí intorno c’erano già però pure altri pipelletti della borgata, che giocavano sulla fanga col coltellino. Tommaso, Lello e gli altri si misero a guardarli, accucciandosi intorno, con le cartelle che strusciavano sulla fanga: poi vennero due o tre con una palla, e gli altri buttarono le cartelle sopra un montarozzetto, e corsero dietro la scuola, nella spianata ch’era la piazza centrale della borgata.
Documento tratto da http://www.doppiozero.com/materiali/ppp/ti-scrivo-1
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