05 ottobre 2015

PADRI E FIGLI


Padri, figli e la morale del fallimento
Ci sono scritture la cui sostanza è riassunta nell’incipit di Congedo dai genitori di Peter Weiss: «Ho cercato spesso di stabilire un colloquio con l’immagine di mio padre e con quella di mia madre, oscillando tra rivolta e sottomissione. Ma mai ho potuto cogliere e capire l’intima natura di queste due sfingi poste a guardia della mia vita».
Che a prevalere siano la rivolta o la sottomissione, il rimpianto o la rabbia, per un figlio il confronto con chi lo ha preceduto è un compito ineludibile. Non per ornarsi orgoglioso o recriminatorio di un albero genealogico, ma perché mettere a fuoco ciò da cui si proviene è utile a raccontarci, in una forma necessariamente traumatica, come siamo fatti.
Per quattro decenni Botho Strauss, poeta e drammaturgo tedesco tra i più importanti della generazione post bellica, ha scritto del padre dando forma a Origine (traduzione di Agnese Grieco, appena pubblicato da il Saggiatore), un libro in cui il memoir familiare serve a verificare che quanto chiamiamo «esistenza», più che a un sistema logico e organico di nessi di causa ed effetto corrisponde a un pulviscolo di immagini indisciplinate se non incoerenti.
Classe 1890, laureato in chimica, perito per l’industria farmaceutica, ammiratore di Thomas Mann e della filosofia di Ortega y Gasset, Eduard Strauss attraversa prima il nazionalismo, poi la Repubblica di Weimar, la Seconda guerra e la Germania divisa sempre con i gemelli ai polsi, una sigaretta Finas tra le dita, uno spillone con la perla infilzato al nodo della cravatta. Azzimato, manierato, senz’altro appariscente («Lui era un uomo inattuale, e lo era con forza e rabbia»).
Di quella figura tenacemente installata in una media borghesia fatta di certezze e rituali inscalfibili, l’occhio sinistro distrutto in guerra da un proiettile che lo rendeva simile a un dio della mitologia norrena, il figlio cataloga la particolare qualità dell’andatura (i passi mai strascicati), i capelli con la riga a destra, le mani a volte inquiete, a volte incapaci, oppure ferme e oneste, così come la postura assunta guardando la tv o scrivendo o leggendo – la punta del dito che prima di girare pagina già si infila tra le successive.
Nonostante la memoria si impegni a estrarre bagliori dalla massa nera della storia familiare, a rimescolare i piani generando una percezione del legame inedita e spiazzante è però un’intuizione estrema: «Quello che unisce me e il padre è qualcosa come una morale borghese del fallimento, che per generazioni si è tramandata nella nostra progenie modesta».
Solo allora, quando amarezza e rovina smettono di essere considerate contingenti rivelandosi come condizioni costitutive e comuni a tutti, padre e figlio diventano fratelli.



Questo articolo è  già apparso sul Venerdì di Repubblica. Noi l'abbiamo ripreso da 
 http://www.minimaetmoralia.it/

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