12 ottobre 2015

BOMBE A ISTANBUL




Turchia. «È una strage di Stato, l’Akp ha le mani sporche di sangue», accusano la sinistra kurda e i pacifisti turchi. Sì. E in tutta evidenza a «saltare» con la ferocia della strage di Ankara è la doppiezza del premier Erdogan, il Sultano atlantico, verso la guerra regionale in corso. Davvero quanto accade oggi in Turchia ci ricorda gli anni bui dell'Italia delle stragi impunite.

Tommaso Di Francesco
Le mani sporche del sultano

«È una strage di Stato, l’Akp ha le mani spor­che di san­gue», accu­sano la sini­stra kurda e i paci­fi­sti turchi.

Sì. E in tutta evi­denza a «sal­tare» con la fero­cia della strage di Ankara, a get­tare la maschera, è la dop­piezza del pre­mier Erdo­gan, il Sul­tano atlan­tico, verso la guerra regio­nale in corso. Con que­sta strage la guerra ai civili e ai paci­fi­sti entra, non più solo con la dispe­ra­zione dei pro­fu­ghi siriani, all’interno del grande Paese medio­rien­tale, non arabo e baluardo del fronte sud della Nato. Non sap­piamo chi riven­di­cherà il mas­sa­cro che ha visto la mano­va­lanza di due kami­kaze e dif­fi­diamo della ver­sione ufficiale.

Quel che appare evi­dente è la mano di un ter­ro­ri­smo ben orche­strato e dall’alto, che del resto ha già col­pito, nello stesso modo e sem­pre la sini­stra kurda e i paci­fi­sti, nel luglio scorso a Suruç. Ora pro­ba­bil­mente Erdo­gan coglierà l’occasione per ergersi a difen­sore della ine­si­stente lega­lità turca, magari con la dichia­ra­zione di uno stato d’emergenza che ha da tempo nel cassetto.

Comun­que ten­terà di irre­tire il pro­cesso demo­cra­tico che vede la sca­denza elet­to­rale straor­di­na­ria quanto deci­siva del 1 novem­bre pros­simo, tra soli 20 giorni. È il disa­stro annun­ciato del suo potere e di quello del par­tito isla­mi­sta mode­rato Akp che alle ultime ele­zioni non ha avuto la mag­gio­ranza par­la­men­tare per gover­nare pro­prio gra­zie al 13% di con­sensi otte­nuto per la prima volta dalla for­ma­zione dei kurdi e della sini­stra turca, il Par­tito demo­cra­tico del popolo (Hdp) della quale è lea­der Sela­het­tin Demir­tas, da quel momento in poi sotto accusa e sotto tiro. E non è bastato nem­meno che Demir­tas entrasse nel governo elet­to­rale ad interim.

Erdo­gan, per rispo­sta e con la scusa di col­pire l’Isis, ha iso­lato e fiac­cato la resi­stenza mili­tare dei com­bat­tenti della sini­stra kurda del Rojava in Siria e ha sca­te­nato l’offensiva con­tro il Pkk in Tur­chia (le due for­ma­zioni che, quasi uni­che, hanno com­bat­tuto armi alla mano il Calif­fato), forte anche dell’appoggio Usa e dell’avallo del ver­tice Nato di Bru­xel­les di que­sta estate. La strage di Ankara illu­mina nel suo bagliore cri­mi­nale l’ambiguità del ruolo turco nelle guerre mediorientali.

A par­tire dal dop­pio­gioco stra­te­gico in Siria, ora disve­lato e iso­lato dall’entrata in campo della Rus­sia, che ha spa­ri­gliato le carte sco­prendo il volto nasco­sto del Sul­tano atlantico.

Cin­que anni fa, scon­fitto nel ten­ta­tivo di entrare in Europa, Erdo­gan ha ripie­gato nell’area per costruire una nuova «pax otto­mana», dalla Bosnia a Gaza, dall’Azerbaijan alla nuova Libia post-Gheddafi, tutto in fun­zione anti-Iran.

Poi, per accre­di­tarsi con l’Occidente, è entrato nella coa­li­zione degli «Amici della Siria» e ha gio­cato la carta della «guerra otto­mana» in soste­gno alle mili­zie in guerra con­tro Assad. Adde­strando e soste­nendo tutte le for­ma­zioni ribelli siriane — com­presa Al Nusra, vale a dire Al Qaeda — nelle sue basi, a par­tire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occi­den­tali e come hanno denun­ciato pro­prio i paci­fi­sti turchi.

Ha sem­pre avuto una spina nel fianco però: il popolo kurdo. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale (in Iraq, Libia e Siria) hanno atti­vato sia il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, prima alleato dell’Occidente con­tro i regimi in carica e ora diven­tato nemico; ma hanno anche chia­mato in causa il popolo kurdo, che resta diviso pro­prio tra Siria, Tur­chia e Iraq.

Fer­mare con la repres­sione, le armi e le pro­vo­ca­zioni il con­ta­gio indi­pen­den­ti­sta e laico della sini­stra kurda (il Pkk ma anche la coa­li­zione politico-sociale del Rojava in Siria) è stato ed è l’obiettivo sto­rico dell’islamista atlan­tico Erdogan.
«Cose tur­che» acca­dono, per la Nato che applaude ogni volta che un F16 turco decolla, e per l’Italia atlan­tica che si pre­para a una nuova avven­tura mili­tare in Libia, dove rischiamo di fare «un’altra Libia».

Il Manifesto – 11 ottobre 2015

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