Turchia. «È una
strage di Stato, l’Akp ha le mani sporche di sangue», accusano la
sinistra kurda e i pacifisti turchi. Sì. E in tutta evidenza a
«saltare» con la ferocia della strage di Ankara è la doppiezza del
premier Erdogan, il Sultano atlantico, verso la guerra regionale in
corso. Davvero quanto accade oggi in Turchia ci ricorda gli anni bui
dell'Italia delle stragi impunite.
Tommaso Di Francesco
Le mani sporche del
sultano
«È una strage di Stato,
l’Akp ha le mani sporche di sangue», accusano la
sinistra kurda e i pacifisti turchi.
Sì. E in tutta
evidenza a «saltare» con la ferocia della strage di
Ankara, a gettare la maschera, è la doppiezza
del premier Erdogan, il Sultano atlantico, verso
la guerra regionale in corso. Con questa strage la guerra
ai civili e ai pacifisti entra, non più solo con la
disperazione dei profughi siriani, all’interno
del grande Paese mediorientale, non arabo e baluardo
del fronte sud della Nato. Non sappiamo chi rivendicherà
il massacro che ha visto la manovalanza di due
kamikaze e diffidiamo della versione
ufficiale.
Quel che appare evidente
è la mano di un terrorismo ben orchestrato
e dall’alto, che del resto ha già colpito, nello stesso
modo e sempre la sinistra kurda e i pacifisti,
nel luglio scorso a Suruç. Ora probabilmente
Erdogan coglierà l’occasione per ergersi a difensore
della inesistente legalità turca, magari con la
dichiarazione di uno stato d’emergenza che ha da tempo
nel cassetto.
Comunque tenterà
di irretire il processo democratico che vede la
scadenza elettorale straordinaria
quanto decisiva del 1 novembre prossimo, tra soli
20 giorni. È il disastro annunciato del suo potere
e di quello del partito islamista moderato
Akp che alle ultime elezioni non ha avuto la maggioranza
parlamentare per governare proprio grazie
al 13% di consensi ottenuto per la prima volta dalla
formazione dei kurdi e della sinistra turca, il
Partito democratico del popolo (Hdp) della quale
è leader Selahettin Demirtas, da quel
momento in poi sotto accusa e sotto tiro. E non è bastato
nemmeno che Demirtas entrasse nel governo elettorale
ad interim.
Erdogan, per
risposta e con la scusa di colpire l’Isis, ha
isolato e fiaccato la resistenza militare
dei combattenti della sinistra kurda del Rojava in
Siria e ha scatenato l’offensiva contro il Pkk
in Turchia (le due formazioni che, quasi uniche,
hanno combattuto armi alla mano il Califfato), forte
anche dell’appoggio Usa e dell’avallo del vertice Nato
di Bruxelles di questa estate. La strage di Ankara
illumina nel suo bagliore criminale l’ambiguità del
ruolo turco nelle guerre mediorientali.
A partire dal
doppiogioco strategico in Siria, ora disvelato
e isolato dall’entrata in campo della Russia, che ha
sparigliato le carte scoprendo il volto nascosto
del Sultano atlantico.
Cinque anni fa,
sconfitto nel tentativo di entrare in Europa, Erdogan
ha ripiegato nell’area per costruire una nuova «pax
ottomana», dalla Bosnia a Gaza, dall’Azerbaijan alla
nuova Libia post-Gheddafi, tutto in funzione anti-Iran.
Poi, per accreditarsi
con l’Occidente, è entrato nella coalizione degli
«Amici della Siria» e ha giocato la carta della «guerra
ottomana» in sostegno alle milizie in guerra contro
Assad. Addestrando e sostenendo tutte le formazioni
ribelli siriane — compresa Al Nusra, vale a dire Al Qaeda
— nelle sue basi, a partire da quella Nato di Adana, come
sanno tutti i governi occidentali e come hanno
denunciato proprio i pacifisti turchi.
Ha sempre avuto una
spina nel fianco però: il popolo kurdo. Perché le guerre
americane ed europee, devastando tre paesi
centrali dell’area nordafricana
e mediorientale (in Iraq, Libia e Siria) hanno
attivato sia il protagonismo jihadista,
prima alleato dell’Occidente contro i regimi in carica
e ora diventato nemico; ma hanno anche chiamato in
causa il popolo kurdo, che resta diviso proprio tra Siria,
Turchia e Iraq.
Fermare con la
repressione, le armi e le provocazioni il
contagio indipendentista e laico
della sinistra kurda (il Pkk ma anche la coalizione
politico-sociale del Rojava in Siria) è stato ed è l’obiettivo
storico dell’islamista atlantico Erdogan.
«Cose turche»
accadono, per la Nato che applaude ogni volta che un F16 turco
decolla, e per l’Italia atlantica che si prepara
a una nuova avventura militare in Libia, dove
rischiamo di fare «un’altra Libia».
Il Manifesto – 11
ottobre 2015
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