13 ottobre 2015

L' INTERNAZIONALE FUTURISTA




I futuristi furono la prima “avanguardia globale”. Un libro di Claudia Salaris racconta le filiazioni in giro per il mondo dell'arte futurista. E non mancano le sorprese.

Giuseppe Dierna

L’Internazionale futurista


Forse il Futuriasmo italiano è davvero come la Grecia che Savinio paragonava ai Magazzini Upim dove, come si sa, «ci si trova tutto». Quindi anche tutte le altre avanguardie che, immediatamente dopo, o a distanza di un decennio e oltre, a un passo da casa o magari fin nelle due Americhe, avevano rimesso a nuovo la cultura. Era questo, del resto, l’intento del manifesto Le futurisme mondial del ‘24, in cui Marinetti aggregava — come futuristi autentici o solo compagni di strada («futuristi inconsapevoli») — il meglio della cultura mondiale, da Picasso a Eliot (con un occhio alle riviste). Claudia Salaris ne è convinta e nel suo Futurismi nel mondo ricostruisce filiazioni dirette o più mediate, o anche più casuali impollinazioni prodotte da quel clima di «avanguardia globale» che — è lei stessa a ricordarlo — nasce proprio col futurismo.

Un libro ricco di bellissime immagini, uscito dalla curiosità di Pablo Echaurren che si è imbarcato — con la maniacalità dei collezionisti — alla ricerca di spiragli futuristi dall’Argentina all’Uruguay ( come recita il percorso alfabetico delle terre inventariate), in mezzo ponendo Spagna, Egitto, Estonia, Russia, Stati Uniti e un’altra trentina di nazioni, dovunque rinvenisse reperti di quell’inarrestabile deflagrazione.

Certo, il manifesto del 20 febbraio del 1909 scompaginò per sempre le carte. Il mito della velocità lì propugnato era come se avesse accelerato le reazioni. Subito prendono a inseguirsi le traduzioni. In romeno addirittura il giorno prima ! A marzo gli undici punti appaiono in Russia (il terreno era propizio). In aprile il manifesto esce in spagnolo a Madrid (tradotto da Gómez de la Serna), ma lo stesso mese il poeta Ruben Darío lo pubblica già a Buenos Aires. Ancora in aprile lo troviamo in croato, a maggio in giapponese. L’anno successivo è già in versione turca. È come se si fosse stuzzicato un alveare. Il tempo di riprendersi e cominciano a pullulare manifesti fuori dal controllo della centrale milanese.

A Parigi esce un Manifesto futurista contro Montmartre (1913), nello stesso anno Valentine de Saint-Point presenta un Manifesto futurista della lussuria («Cessiamo di schernire il desiderio, distruggiamo i sinistri stracci romantici»), mentre sulla rivista Fantasio — dove Apollinaire aveva pubblicato il suo Cubismo culinario — appare un Manifesto della cucina futurista che prevede tra l’altro «uova in camicia nel sangue di bue». Intanto a Lisbona il pittore Almada-Negreiros — «ispirato dalla rivelazione di Marinetti» e abbigliato in una sorta di bizzarra tuta da pilota — declama nel ‘17 un Ultimatum futurista alle generazioni portoghesi del XX secolo .

E se nel ‘21 viene distribuito a Tokyo un più tradizionale volantino col Manifesto del gruppo futurista giapponese , in Polonia Bruno Jasienski e i suoi sodali lanciano un agguerrito Manifesto relativo all’immediata futuristizzazione della vita , che postula una «rapida tracheotomia» affinché «la vita e l’arte polacca» possano sopravvivere.

Ormai non si potrà più dare inizio a qualsivoglia impresa artistica senza avere un proprio manifesto. E un nome da non sfigurare. Ricciotto Canudo stila un Manifeste de l’art cérébriste , in Cile sbuca un Manifesto del Runrunismo , a Porto Rico un Manifesto euforista (vi si afferma con ponderazione «il poeta dev’essere un tonico per l’umanità, non un lassativo»), in Messico un Manifesto estridentista . E a questa foga non si sottrae certo il Manifesto antropofago del brasiliano de Andrade che — stilato «l’anno 374° dalla deglutizione del Vescovo Sardinha» — propone di ingurgitare e metabolizzare la cultura europea.

Il futurismo ha rapidamente conquistato il mondo. Diffondendosi da solo, quasi per contagio. Marinetti ne è l’araldo e allo stesso tempo il testimonial. I suoi viaggi servono anche a marcare il territorio (come gli rinfacceranno i cubofuturisti russi, con abbondante volantinaggio). Il diagramma dei suoi spostamenti sembra la vorticosa pubblicità di un’agenzia di viaggi d’ampio respiro.

Escludendo la Francia, dove aveva da tempo piantato le proprie radici, lo troviamo nel 1910 a Londra (contestato dalle suffragette), poi a Bruxelles, Mosca, Pietroburgo, Praga. Nel ‘26 dilaga in Sudamerica: Rio, Buenos Aires, Montevideo. In Argentina lo scrittore Subirat lo definisce un «fossile». Sulla copertina di un libro brasiliano campeggia una lastra tombale col suo nome. Ma a leggere le sue memorie, l’impatto era stato tale che a Bahia la gente — «in ricordo dei clamorosi trionfi del Futurismo» — prese a chiamare «Marinetti» gli autobus pubblici.

La sua presenza in scena è sempre elettrizzante. Quasi a contestare anticipatamente Ezra Pound che — stizzito dal suo tentativo di annessione degli avanguardisti inglesi — il mese successivo l’avrebbe definito «un cadavere», nel maggio del ‘14 Marinetti declama a Londra alcuni brani di Zang Tumb Tuuum munito di «martelli appositi» (per rendere «i rumori della fucileria e delle mitragliatrici»), tre lavagne a cui si avvicina veloce «per disegnarvi, in modo effimero, col gesso, un’analogia», e un telefono con cui imita i comandi dei generali turchi e dà a sua volta ordini all’addetto a due enormi tamburi, posto in una sala lontana.

Così il futurismo, «parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchi-tiratori intellettuali», gesto iniziale che — ben prima di Breton e dei surrealisti — accorcia la distanza tra le parole e crea immagini splendide e inattese, questa istigazione a trasformare la pagina in un libero campo di forze, produrrà in giro per il mondo fogli dalla fantasiosa impaginazione, varianti della «multiforme prospettiva emozionale» voluta da Marinetti, come le «poesie in cemento armato» di V. Kamenskij, dove lo specchio della pagina è diviso in spicchi autonomi di testo, o alcune tavole parolibere giapponesi dove, accanto ai tradizionali ideogrammi (in verticale), troviamo i «Bruuuun» onomatopeici a caratteri latini (e orizzontali), o il tripudio di lettere in libertà sulle pagine della commedia transmentale Lidantju il faro di Zdanevic, o la copertina di En avant Dada di Huelsenbeck con la sua illusoria fuga prospettica di parole. Un debito non sempre riconosciuto.

Nel ‘29, su ReD il boemo K. Teige fa ammenda di un decennio di reticenze sul futurismo: sulla copertina campeggia Marinetti in posa declamatoria in un disegno di Hoffmeister, ma la banda rossa di colore che lo copre come una toga svela in trasparenza sotto ai suoi piedi uno sgabello con due scarpette posticce, per guadagnare qualche centimetro. 
 
 


La Repubblica – 11 ottobre 2015

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