Il 2 novembre a Palermo: l’antica tradizione dei giocattoli dall’Aldilà con gita di famiglia al cimitero Le pupe di zucchero dei morti
Michele Perriera, 2 novembre 2000
Per i bambini siciliani «i morti» rappresentano Babbo Natale, perché portano i regali. Dai tempi antichissimi i bambini attendono il 2 novembre per scoprire accanto al letto i «doni dei morti». Il più classico è un cestino pieno di colorati «frutti di martorana» cioè di marzapane: dalla semplice mela alla più complessa opera architettonica, sempre e soltanto con farina di mandorle, albume, zucchero, il tutto dipinto con vividi colori. Accanto i «morti» allineano ogni tipo di giocattolo e le bambole di zucchero. Fino ad un decennio fa le imitazioni delle armi andavano per la maggiore e mobilitavano le divisioni oculistiche degli ospedali di Palermo e Catania per le ferite provocate dai proiettili di gomma. Una lunga campagna di sensibilizzazione e i divieti di legge ai fabbricanti hanno però risolto il problema.
Michele Perriera RICORDO che cos’era per me «la notte prima». La notte prima del giorno dei morti. Quand’ero bambino, dico. Uno spasimo gioioso, un’attesa abbacinante. «Non ascoltare. Non guardare. Se no i morti se ne vanno, non si soffermano qui in casa, non ti lasciano i doni».
Sul mio lettino claudicante mi rannicchiavo, tenendo gli occhi chiusi chiusi e infilando le estremità degli indici dentro le mie orecchie.
Avrei fatto qualunque cosa, mi sarei perfino rapato i capelli, perché i morti, nella notte, si sentissero a loro agio nella mia casa, perché liberamente scegliessero, non visti, dove lasciare i giocattoli per me; e le pupe di zucchero, i mirtilli, le frutta colorate, le nocciole. E anche quel tanto di carbone che m’ero meritato (speravo poco) con le mie marachelle. Non dormivo. Sveglio, cieco e sordo, ero tutto immerso nell’oscuro vuoto dove immaginavo che si stessero aggirando mio padre morto, la nonna morta, la zia Vincenzina spirata in veranda con in mano una ciliegia, la piccola e vecchia vicina di casa, così carina, che se n’era andata qualche mese prima. Il cuore mi batteva come un campanone impazzito: «Che cosa mi porteranno? Mi sarò meritato una bicicletta? I miei morti ce l’hanno i soldi per comprarla? Mi faranno trovare una fisarmonica? O che? O che? O che?». «Carissimi morti, perdonatemi le mie monellerie, non mi lasciate troppo carbone. Mi portate una stella filante?». Quanti bigliettini scrivevo ogni anno, la vigilia del 2 novembre quando comunicavo a tutto spiano con i miei morti. E mi pareva che fossero molto allegri e gli piacesse molto quando io li aspettavo. Mi addormentavo estenuato solo all’alba. LA RICERCA. «Svegliati. Sono venuti i morti. Non vuoi cercare i loro doni? Dai, vieni giù, cominciamo a cercare». Di corsa, verso le sorprese. Verso gli stupori, che stavano attendendo, nascosti. «Piano, piano! Si cerca lentamente, attentamente, senza troppo chiasso. Così vogliono i morti». D’accordo. Piano piano, tutto rattenuto nel mio pigiamino, scrutavo sotto i mobili, sbirciavo gli angoli, infilavo la testa negli anfratti. Com’erano eccitati anche i miei parenti. Felice e malizioso il loro sguardo mi seguiva attentamente. Dolcemente: come solo all’alba il giorno dei morti sa guardare Palermo. «Cerca, cerca.
Dove li avranno lasciati?». «Può essere che non sono venuti?». «Sono venuti, sono venuti. Non vengono se i bambini sono stati molto cattivi. Sei stato molto cattivo?». «A me non pare. Tanto tanto no.
Un poco forse. Non tanto». «Allora cerca, dai, sotto il letto. Sotto la credenza, sotto il tavolo, in bagno». Anche i morti vanno in bagno? «Sono confuso. Mi batte il cuore». Una stellare ricerca del tesoro. Un’avventura nel giardino sognante della vita. «Guarda! Ma guarda insomma!». C’è qualcosa. Cos’è? Un binocolo! Un piatto d’arance, un meccano, un tulipano che contiene caramelle. E qui? Cos’è? Una trombetta, un piccolo robot, un Robin Hood. «Beh? Suona la trombetta. I morti ne saranno contenti. Ascolta. Anche gli altri bambini, nelle altre case, suonano le loro trombe, le loro chitarrette, i loro tamburi». Suonavo a tutto fiato, nell’immensa orchestra, allegramente stonata, che invadeva lo spazio tutto intorno. Al balcone, di corsa. Quanti bambini, sulla strada! Quante stelle filanti, quanti aquiloni, quanti palloni. E carrettini, cavallini, pupini, violini... La mattina del 2 novembre a Palermo l’infanzia vede una città delle meraviglie e ne respira la dolce promessa. LA FESTA DEL RITORNO. Roba da vecchi tempi? Stravedo per la mia infanzia? Non credo. Sebbene non scrivano più, forse, letterine ai morti; e sebbene la vigilia vadano spesso assieme ai genitori nei grandi negozi e segnino col dito i doni che vogliono trovare, anche di questi tempi i bambini di Palermo vivono l’incantamento del giorno dei morti. Forse la «notte prima» non chiudono gli occhi del tutto e tendono un po’ le orecchie e si compiacciono di riconoscere, nel ruolo dei morti che portano i doni, i loro genitori vivi: il 2 novembre continua ad essere per loro una magica festa. E lo è per i grandi anche, non solo per i piccoli. Il ritorno, il ricordo dei defunti compie il sortilegio. Uno scatto fantastico di grande civiltà che fa della morte, della memoria dunque, uno scrigno di gioielli di vita. Sicché l’apparente paradossalità del punto di vista siciliano, coglie questa volta l’aspetto più gentile dell’anima: quello che sa collegare il futuro alla memoria. E così il lutto - la stessa dimensione del tragico - diventa una specie di fresca fonte delle possibilità a venire. Giocattoli e leccornie - offerti, nell’immaginario, dai morti - tolgono il «malaugurio» alla morte e la rendono, per quanto dolorosa, augurale. Dunque il 2 novembre a Palermo non vince l’oppressione della nostalgia o lo stracco sentimento dell’assenza e della mancanza. Al contrario, la città è come rianimata da un ritorno, da un ritrovamento, dalla presenza quasi tangibile di ciò che negli altri giorni si dà come svanito. E i gruppi, i piccoli cortei, le coppie, le donne sole o gli uomini soli procedono in macchina o a piedi con sorprendente vivacità, tutti portando fiori che non sempre sono crisantemi, più spesso sono rose, garofani, tulipani dai colori vivacissimi. Ed è in questo ritmo festoso, in questo trionfo di colori vivaci che si va al cimitero.
Certo, non mancano gli abiti neri per i parenti morti molto recentemente, né sfuggono gli occhi arrossati degli anziani rimasti soli o dei giovani a cui, con uno strappo, la vita ha tolto da poco la presenza corporea di un grande affetto. Ma il panorama prevalente è decisamente festoso. Anche gli abiti sono da festa, anche i vestitini dei bambini, che non di rado si accompagnano ai grandi nel dolce pellegrinaggio al campo santo. E tutto ha l’impronta di una piacevole scampagnata, come di una ricorrenza della speranza. Sicché, dentro i cimiteri, non c’è aria pesante. Leggero e febbrilmente attivo è lo slancio con cui si puliscono le tombe; il piacere con cui le si inonda d’acqua fresca; la cura e il puntiglio che dispone il fiore e gliene affianca un altro e poi un altro, fino a disegnare stelle, croci, splendenti e precisi simboli geometrici. E intanto si pronunciano languide e quasi lussuriose parole, che ricordano i morti di cui vengono citati i gesti e le parole che li distinguevano da vivi assai più dell’immobilità e del silenzio che li copre ora.
Proprio così: il 2 novembre a Palermo è la festa del ritorno degli assenti e tutte le procedure sono quelle dell’omaggio, dell’accoglienza, dell’abbraccio, della confidenza. Festa della vita che torna anche per chi l’ha persa e torna dunque ad augurare buona sorte a chi ancora la frequenta. E spesso questa festa del ritorno si celebra per un’intera giornata. Nella gente del popolo, almeno. Come accadeva a me quand’ero bambino: tutto il giorno si passava vicino alla tomba dei nostri morti, dalla mattina al tramonto. Quando ero bambino, il 2 novembre, al tramonto, quando lasciavamo la tomba dei nostri cari, mi aggrappavo alla gonna di mia madre come al lembo di terra a cui un naufrago si avvinghia estenuato. E facevo, nel silenzio, una solenne promessa ai miei invisibili portatori di doni.
Una confusa promessa il cui senso era: «Non smetterò mai di amare quelli che scompaiono nel buio dell’ignoto». L’ARRIVEDERCI. «Vai a letto, adesso. Sei stanco. Non è più l’ora di suonare la trombetta.
Il giorno dei morti è finito. Vai a dormire». Dio mio, era proprio finita la più bella giornata di Palermo, quella in cui la città sembra espiare tutte le sue colpe, tutte le sue arretratezze, tutte le sue presunzioni. L’unico giorno, forse, in cui Palermo è mite.
Quanta malinconia avvertivo - e forse ancora oggi avverto nei bambini - nel separarmi dai giocattoli portati dai morti. E quanta incantata fiducia avevo tuttavia che quei giocattoli, quelle leccornie, avrebbero avuto una speciale, lunghissima durata. Quelli che portano i morti sono giocattoli eterni, per i bambini di Palermo. Hanno uno strato di stelle sulle loro piccole e talvolta poverissime forme. E mi auguro che i bambini di oggi, come i bambini di allora - anche se sanno che non sono i defunti ma i vivi che portano i doni dei morti - avvertano la stessa ebbrezza che provavo io allora: di sentirmi in un mondo che non spezza l’abbraccio tra i vecchi desideri dei morti e i nuovi desideri dei vivi. Ricordo con tenerezza infinita la sera che lei mi prese la mano e mi disse: «Sei grande, ormai. Ora lo devi sapere. Ora lo devi sapere che non sono proprio i morti che portano i doni. Ora è giusto che io riveli il segreto che solo l’infanzia può concedersi. Ora sei grande: devi sapere come stanno le cose». Come stanno le cose. Il segreto svelato mi trafisse l’anima; la delusione produsse i suoi silenziosi lacrimoni. Ma in realtà, la maggiore coscienza, la maggiore concretezza, non mi avrebbe mai strappato - come non strappa alla parte più passionale di Palermo - il gusto e la gioia fantasticante di parlare, di incontrarsi, di giocare con gli assenti o con i forestieri, o con le reliquie dei più antichi e più recenti affetti. Dev’essere per questo che spesso i miei amici del Nord, venendo per la prima volta a Palermo, mi dicono spesso più o meno: «Però questa Sicilia... Tutte le sue violenze, tutte le sue miserie, tutte le sue arroganze... Me l’aspettavo più cupa, più minacciosa, più brusca. E invece trovo qui, tanto diffuso, un sentimento di strana luminosità, di dolce ospitalità. Insomma una città così... così...». Così capace di guardare alla vita senza ignorare la morte. Così capace di scherzare con la vita e con la morte. Mia sorella mi ricorda ancora che, da bambino, una volta dissi: «Mamma, ma i morti lo sanno che moriremo anche noi? E possono fare qualcosa per non farti morire troppo presto?».
Michele Perriera
Per vincere la disperazione i siciliani hanno coltivato una festa che lega la vita e la morte, consapevoli della precarietà assoluta della prima e dell'ineluttabilità imprevedibile della seconda. Nessuna ragione di quotidiana sopravvivenza può convincere l'uomo ad accettare "sul serio" l'idea della morte. Una festa, iniziata per di più sin da piccoli ma che poi continua con i padri per i figli e sempre avanti nello stesso modo, è la soluzione epicurea che tutti, anche i semplici e gli umili, possono adottare per vincere la paura della morte. Anche in questa circostanza i siciliani coniugano con grande successo il "memento mori" con il "carpe diem", eredi della tradizione barocca che da noi ha lasciato tracce meravigliose
RispondiEliminaCarissima Grazia, i tuoi commenti sono sempre puntuali e arricchiscono il blog. Grazie
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