Esce oggi in libreria il terzo volume dei Romanzi di Émile Zola, nei “Meridiani” di Mondadori: si conclude così un’opera, curata da Pierluigi Pellini, che offre al lettore italiano, con ampio corredo di apparati critici e in traduzioni finalmente accurate, i libri più importanti del maestro del naturalismo francese: il primo volume (2010) contiene Thérèse Raquin, L’Assommoir e Nana; il secondo (2012) Pot-Bouille, Au Bonheur des Dames e La Joie de vivre; questo terzo, Germinal nella traduzione di Giovanni Bogliolo, La Terre nella traduzione di Dario Gibelli e La Bête humaine nella traduzione di Donata Feroldi. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo, con minime modifiche, alcuni stralci dell’Introduzione a Germinal.
Germinal e la felicità
di Pierluigi Pellini
Zola è Germinal. Lo sapevano i
minatori di Denain, in delegazione ai funerali dello scrittore: in
tenuta da lavoro, nell’immenso corteo che si snodava per le vie di
Parigi avvicinandosi al cimitero di Montmartre, il 5 ottobre del 1902,
scandivano il titolo del libro che per primo aveva dato dignità
letteraria alla loro inumana fatica, voce universale alle loro
sacrosante rivendicazioni, credito poetico, e profetico, al futuro
germinare di una società più giusta. Lo sapevano i lettori comuni del
Novecento, e lo sanno quelli del nostro secolo, che al romanzo sulle
miniere del Nord hanno assicurato un saldo primato nelle vendite: da
molti decenni, e in tutto il mondo, incontrastato best seller dei Rougon-Macquart.
Gli storici della letteratura possono
obiettare con ottime ragioni che nello sviluppo del genere romanzo, dei
suoi temi e delle sue soluzioni formali, conta molto di più L’Assommoir,
per l’estremismo provocatorio delle sue scelte linguistiche e
stilistiche, per la completa rinuncia del narratore borghese a ogni
funzione giudicante, per la scandalosa esibizione di un corpo di donna
indomito anche nel più estremo degrado. Con ragioni altrettanto buone,
possono reputare per certi versi più moderni anche Au Bonheur des Dames, capace di descrivere l’alienazione dell’umanità in un universo di merci trasfigurate in feticcio; o Nana,
che nell’intreccio iperbolico e frigido di sesso e denaro svuota di
significato ogni impulso libidico e prefigura paradossalmente un mondo
disertato dal desiderio; e perfino la giovanile Thérèse Raquin,
che per la prima volta attribuisce al corpo e ai sensi quella
centralità che sempre più spesso avranno nella letteratura e nelle arti
dei decenni successivi. I lettori più inclini a gustare suspense e tinte
forti potranno a loro volta preferire l’intreccio di amore e violenza,
fatalità ereditaria e tecnologia avanzata, da cui si sprigiona il
fascino conturbante della Bête humaine.
Rimane però incontestabile che nessun altro libro meglio di Germinal
realizza quell’equilibrio perfetto e precario fra esattezza
documentaria e afflato lirico, fra imparzialità e indignazione, fra
descrizione oggettiva e visionaria mitopoiesi, che è la cifra più intima
di Zola, e di quel tipo di romanzo che, pur con ogni possibile
distinguo, ancora ha senso definire naturalista. Un romanzo che nasce –
in Germinal è evidente a ogni pagina, quasi a ogni riga – da
una stupefacente consustanziazione di linguaggio tecnico e scarto
metaforico, di precisione referenziale e libertà figurale; o, per dirla
come Zola (nella lettera celebre a Henry Céard del 22 marzo 1885), da
una ossimorica «ipertrofia del dettaglio vero»: capace di far spiccare
al dettato prosastico il più acrobatico «salto nelle stelle, sul
trampolino dell’osservazione esatta», cosicché «con un colpo d’ala la
verità s’innalza fino al simbolo».
Germinal, dunque, è romanzo al
tempo stesso naturalista e simbolista: coevo, del resto,
all’affermazione del simbolismo in poesia, nella Francia degli anni
Ottanta e, ben presto, nell’Europa intera. È il capolavoro dello Zola
creatore di miti moderni, che tanta critica novecentesca ha esaltato,
contrapponendone i risultati letterari alle dichiarazioni di poetica (lo
scientismo a tratti arido e dogmatico del Roman expérimental), l’immaginazione creatrice versicolore all’engagement
grigio e monolitico (il santino un po’ sbiadito dello scrittore
paladino dei proletari e di Dreyfus). Quale sia tuttavia l’argomento del
libro, quale il suo fulcro estetico e ideologico, lo dice chiaro e
netto l’autore – e non c’è ragione di mettere in dubbio la sua parola –
alla prima riga dell’Ébauche, l’abbozzo manoscritto la cui
prima versione precede l’inchiesta documentaria: «Il romanzo è la
rivolta dei salariati, una spallata alla società, che per un istante
scricchiola: insomma, la lotta fra capitale e lavoro. Per questo il
libro è importante».
Per primo, Zola ha rappresentato un
mondo che è ancora il nostro: dove il denaro non è solo onnipotente,
come in Balzac; ma astratto, lontano dalle concrete vicende degli
uomini, ormai quasi senza storia – e proprio per questo ovunque
presente, sempre soverchiante. Per primo ha anche mostrato, con la
doppia evidenza inoppugnabile della descrizione realista e dell’incubo
visionario, che a questo mondo sarebbe inumano rassegnarsi.
Se è questo, di fronte alla Storia, il nucleo di verità di Germinal, scadono un poco d’importanza, pur conservando un indubbio valore documentario, le annose querelles sulla sua posizione ideologica (e su quella di Zola); sul suo eventuale messaggio politico; sulle sue fonti filosofiche.
Non è davvero decisivo, a ben vedere,
stabilire se della propaganda rivoluzionaria dell’eroe, Étienne Lantier,
sia sottolineata, come in molte pagine del libro, soprattutto la
velleitaria inadeguatezza, l’abborracciata inconsistenza teorica (il
protagonista è un autodidatta poco versato nel pensiero astratto: come
peraltro anche il suo autore); oppure se ne sia messo in risalto il
valore seminale, di precoce ma sicuro annuncio di futura rivoluzione,
evidente non solo nelle ultime pagine, ma anche nell’intero canovaccio
narrativo – quasi un Bildungsroman – che accompagna il minatore
novizio dal primo, traumatico contatto con il mondo ctonio fino alla
presa di coscienza dell’ingiustizia e dello sfruttamento.
Non è davvero decisivo nemmeno appurare
se le simpatie di Zola vadano al riformismo moderato del bettoliere,
Rasseneur, oppure al più o meno rigoroso collettivismo del protagonista,
o perfino (magari inconsciamente) al nichilismo del terrorista
anarchico, Suvarin, che dei tre attivisti politici è il più lucido, il
più coerente, il più disinteressato, il più rocambolescamente coraggioso
– autentico eroe della distruzione, e come tale non sprovvisto di un
suo sinistro fascino.
Ancora meno decisivo, infine, accertare
quale conoscenza avesse lo scrittore (scarsissima, a dire il vero, a
metà anni Ottanta) del pensiero di Proudhon, di Lassalle, di Marx, di
Bakunin, di altri pensatori socialisti o libertari eventualmente
adombrati fra le righe di Germinal: non di molto si peccherebbe
per semplicismo, sostenendo che le dispute ideologiche a null’altro
servono, nel testo, che a creare, in una situazione di conflitto, i
presupposti del racconto – contano le opposizioni in sé, assai più dei
loro contenuti; e la polifonia del romanzo esclude, come sempre nei
capolavori di Zola, ogni univoca conclusione dottrinaria.
Resta però il fatto che per la prima volta – quasi a anticipare di un decennio l’afflato profetico dei romanzi posteriori ai Rougon-Macquart
– l’autore, di norma rigoroso nel limitare l’indagine al passato del
Secondo Impero, concedendosi tutt’al più qualche sconfinamento nel
presente della Terza Repubblica, evoca fin dall’Ébauche il «secolo XX»; e del romanzo in cantiere dichiara senz’altro: «Voglio che predìca l’avvenire». C’è, all’origine di Germinal,
un’implicita sconfessione della deontologia naturalista che relega il
romanziere nel ruolo tendenzialmente passivo dell’osservatore. E le
riserve ideologiche, il prudenziale scetticismo del narratore, perfino
il sarcasmo crudele nei confronti delle illusioni palingenetiche degli
ignoranti protagonisti, si sgretolano di fronte a un referto di miseria e
di oppressione – riscrittura romanzesca del privato reportage etnografico redatto da Zola in loco,
a diretto contatto con i minatori e con il loro ambiente; riscrittura
fedele, ma carica di una tensione etica che tutto può essere fuorché
asettica e neutrale –, un referto, dicevo, che impone indignazione e
rivolta, che attesta con troppo evidente urgenza il bisogno (avrebbe
precisato Marx) «non più sopprimibile, non più eludibile, assolutamente
imperativo» di Rivoluzione.
Come sempre in Zola, unica eloquenza
inconfutabile è quella della carne: le gambe ritorte di Jeanlin, reso
storpio da una frana nel pozzo della miniera; il cadavere clorotico
della mite Alzire, morta di stenti; il seno floscio della loro madre, la
Maheude, precocemente invecchiata per il lavoro e le troppe gravidanze;
lo «sputo nero» che il loro nonno, il vecchio Bonnemort, espettora ogni
volta che compare in scena – il testo, per accumulazione narrativa e
intensificazione patetica, concentra in un’unica famiglia le più
tremende disgrazie che la sorte di norma distribuisce fra i minatori:
crolli, inondazioni, scoppi di grisou, anemia, rachitismo, fame, morte violenta.
Ma in Germinal non sono solo il
deretano monumentale della Mouquette, umile eroina del libero amore, e i
corpi dei minatori, su cui lasciano segni indelebili tutte le malattie
professionali del pays noir, a intestarsi metaforicamente il discorso, a protestare contro lo sfruttamento capitalistico. Come nell’Assommoir,
l’autore dei Rougon-Macquart offre cittadinanza romanzesca non mediata
alla voce stessa del popolo. Era, in letteratura, «la voce del grande
assente»: ancora flebile e confusa nella Comédie humaine,
dove i personaggi principali sono nobili o più spesso borghesi (come
ricorda Zola in un articolo pubblicato sul «Rappel» il 13 maggio 1870);
finalmente dispiegata nei capolavori del naturalismo.
In Germinal il proletariato, alla
lettera, prende la parola. Alla prima pagina, il decrepito Bonnemort
esce dal suo atavico mutismo per introdurre Étienne nel mondo della
miniera. Nel corso di una conversazione notturna intervallata dai gesti
ripetitivi del lavoro e rischiarata in lontananza dai fuochi rossi degli
altiforni, il patriarca dei Maheu compendia a beneficio del nuovo
arrivato (e del lettore) i «centosei anni di macelleria» di cui è stata
vittima la sua famiglia: e l’esposizione genealogica – quasi ripresa
naturalista (seria, ancora una volta, non parodica) di uno stilema
epico, come conferma un evidente accenno metaletterario: si tratta
precisamente, per Bonnemort, di «raccontare così bene» la propria
storia, senz’ombra di dubbio più eroica di ogni storia borghese –
l’esposizione genealogica, dicevo, è il necessario prologo del nuovo epos proletario.
Quando scoppia lo sciopero,
nell’incontro fra il direttore della Compagnia e la delegazione degli
operai in rivolta, è il figlio di Bonnemort, il minatore modello, il
docile e rassegnato Maheu, a trovare il coraggio per dire le sue
ragioni, con eloquio prima incerto e poi franco, davanti a Hennebeau. La
consapevolezza del torto subito gli presta insospettate virtù oratorie,
riporta alla luce l’inconscio delle «cose accumulate in fondo al
petto», in una scena che ancora oggi regge agli acidi di ogni possibile
ironia blasée: indiscutibile capolavoro di commovente umanità.
Se tuttavia nell’Assommoir – la
differenza è decisiva – il proletariato urbano conquistava la scena del
testo esprimendosi nella sua lingua scandalosamente barbara, in un argot parigino al tempo stesso materico e immaginoso, in Germinal
sono rare le concessioni al gergo dei minatori del Nord: che nella
realtà parlavano un dialetto di assai difficile comprensibilità, lo ch’timi.
È vero, esigenze comunicative e pedagogiche inducono Zola a adottare un
francese standard di tono familiare. La giustificazione dello scrittore
è tuttavia debole: «Se avessi scritto il mio romanzo nel patois
del Nord, dubito che qualcuno avrebbe mai accettato di leggermi» («Le
Matin», 7 marzo 1885). Vero. Ma la rinuncia al vernacolo locale non
imponeva la tendenziale normalizzazione lessicale e soprattutto
sintattica attuata in Germinal; tantomeno implicava la rinuncia
(o quantomeno il ricorso assai sporadico) a quelle tecniche di delega
enunciativa, prima fra tutte la narrazione “corale” affidata al discorso
indiretto libero, che garantivano la modernità dell’Assommoir. Anche una lingua “tradotta” – lo sa bene Verga, che non scrive I Malavoglia in siciliano – può conservare l’impronta inconfondibile del parlato.
Se circoscritto all’ambito della lingua e dello stile, il confronto fra i due romanzi popolari dei Rougon-Macquart
non può che dare atto di una netta involuzione. Falsando però, e sia
pure per ragioni di gusto del tutto legittime (diciamo pure: giuste), la
prospettiva storica. Perché la novità di una presa di parola davanti
all’oppressore, di una voce articolata che sgorga dalle «bocche nere»
dei minatori per sfidare tecnocrati e azionisti, non è meno dirompente
del turpiloquio espressionista di Coupeau e compagni, che rimaneva pur
sempre confinato nella cerchia dei miserabili. Delle due strategie
opposte, quella volta all’eversione delle forme è gesto inaugurale di
ogni avanguardia novecentesca; ma la compostezza sintattica di Germinal
– se pure a volte concede qualcosa di troppo a una retorica non
immemore di Victor Hugo; se pure al lettore odierno, con interferenza
anacronistica che rischia di falsare la ricezione, può a tratti
fastidiosamente evocare (ma sempre a ben altro livello di riuscita
estetica) realismi socialisti e nostrani neorealismi – era pedaggio
probabilmente inevitabile alla definitiva promozione del proletariato a
attore serio, tragico, di una storia che, non più confinabile dalla
buona coscienza borghese nel ghetto pittoresco delle periferie,
reclamasse un significato universale, minacciasse la classe dominante
fin dentro le stanze del potere, non fornisse, nemmeno
involontariamente, alibi di comicità alla satira benpensante.
E poi, in realtà, anche in Germinal,
a uno sguardo appena più ravvicinato, quasi a ogni pagina la lettura
inciampa, la linearità del racconto si frange, l’imprevisto incrina la
simmetria delle troppo ovvie contrapposizioni. Così, esemplarmente,
fallito lo sciopero, dopo aver preso congedo da Suvarin riaffermando la
propria fedeltà alla lotta, Étienne cambia idea. Sente Catherine
(un’altra figlia di Maheu, di cui fin dal principio è segretamente
innamorato) che si veste in silenzio, nel buio freddo prima dell’alba:
la ragazza tornerà in fondo al Voreux, alla condizioni umilianti imposte
dalla Compagnia, per salvare dalla fame quel poco che resta della sua
famiglia. Senza motivo apparente, se non un goffo cedimento
sentimentale, il protagonista decide di seguirla.
Nel dialogo fra i due giovani, il
vagheggiamento di una vita tranquilla, «senza altra ambizione» che il
pane quotidiano e l’affetto della persona amata, non è semplice
riciclaggio di un topos usurato: al contrario, è tema profondamente radicato nell’immaginario di Zola; e infatti ha già trovato, prima di Germinal, la sua più memorabile incarnazione nell’Assommoir.
Étienne fa suo l’ideale – minimo e umanissimo – di sua madre, Gervaise,
rompendo improvvisamente ogni coerenza politica, dismettendo le
velleità di ascesa sociale e intellettuale che hanno guidato la sua
azione lungo tutto il corso del romanzo.
Non si tratta, però, di pura e semplice
rinuncia ai valori della sfera pubblica, in nome di un affetto privato.
Perché per realizzare tardivamente un «amore infelice» ci vuole – stando
alla lettera del testo, che è al tempo stesso esattissima e
sconcertante – «un poco di felicità» (un peu de bonheur). Non
basta, cioè, la passione, finalmente libera e ricambiata, a rendere
felici i protagonisti; al contrario, solo la garanzia di un minimo
sindacale di felicità – mi si passi l’espressione –, inteso
settecentescamente come diritto umano (in J’accuse, Zola citerà
implicitamente gli illuministi, evocando l’«umanità che ha tanto
sofferto e ha diritto alla felicità»), può rendere possibile l’amore. Se
mancano le indispensabili condizioni economico-ambientali,
nell’universo materialista dei Rougon-Macquart nessun sentimento è
abbastanza forte da sopravvivere per autonoma virtù. Proprio nel momento
in cui sembra plaudere a un intimismo tardoromantico e disimpegnato,
Zola ribadisce perciò la natura eminentemente politica della sua
ispirazione romanzesca: perché il bon heur, la “buona ventura”,
che sia felicità o anche solo fortuna (a voler dar credito alle
suggestioni dell’etimologia), è evidentemente di natura sociale; e,
viceversa, senza appagamento sentimentale, senza liberazione degli
affetti e delle pulsioni individuali, ogni rivolgimento sociale
rimarrebbe incompiuto.
La decisione di Étienne di accompagnare
Catherine al Voreux può perciò apparire bizzarra, o peggio colpevole,
solo a una lettura superficiale: in realtà, per il personaggio è l’esito
di un’improvvisa, profonda rivelazione, capace di produrre un immediato
e quasi taumaturgico sollievo. Romanziere per formazione e per gusto
prima balzachiano e poi flaubertiano, Zola ha inaspettatamente i suoi
momenti stendhaliani: rinunciando alla coerenza rivoluzionaria e
sacrificando a Catherine le proprie ambizioni politiche, Étienne sembra
ripercorrere, mutatis mutandis, un itinerario interiore per certi versi simile a quello che svela a Julien Sorel, imprigionato a Besançon all’explicit del Rouge et le Noir, l’amore vero – per madame de Rênal, non per Mathilde de la Mole.
Paradossalmente, però, è proprio grazie a
questa scelta, in apparenza contraria agli interessi della Rivoluzione,
che Étienne potrà incarnare, negli ultimi capitoli del romanzo, le
ragioni della vita e della rigenerazione: anche politico-sociale. E non
solo, non tanto, perché il suo voltafaccia serviva a Zola per poterlo
includere fra le vittime del sabotaggio di Suvarin, per dar ragione
della sua discesa nella miniera inondata, della sua prigionia insieme a
Catherine e al rivale Chaval. Soprattutto, perché sacrificio e rinuncia
depurano l’impegno politico dell’eroe di ogni vanaglorioso egoismo; e lo
inducono a accantonare il dogmatismo vuoto delle teorie politiche, per
impegnarsi in una più sofferta riflessione esistenziale. Non a caso,
proprio nel buio ctonio gli amanti proseguono a sbalzi, fra lucidità e
delirio, una meditazione ispirata – viene da dire – a un originale
eudemonismo.
Nell’attesa della morte, è al tempo
stesso cocente e dolcissimo il rimpianto per un «amore inconfessato»;
per un’unione sognata «fin dal primo momento» e mancata di un soffio,
per banali incomprensioni e, ancor più, per la spietata vischiosità
dell’esistenza quotidiana. Chiusi nelle viscere della terra, ormai
prossimi al crollo per inedia, i due amanti – follia o forza
dell’utopia? – rifiutano tuttavia di inchinarsi al destino nero che li
sovrasta, dichiarano fiducia nella vita e nel futuro. Quando il romanzo
sembra avviarsi a tragica conclusione, contro ogni logica il
protagonista afferma che «niente è mai finito». Per realizzare un amore,
basta «una circostanza favorevole», dice Catherine; o «un poco di
felicità», ribadisce Étienne. Di nuovo, che significato preciso
attribuisca Zola alla parola bonheur, è difficile dire: fra gli enigmi di Germinal,
non è il meno affascinante. Di certo, però, la profezia del
protagonista – se non deve essere derubricata a vaniloquio di un uomo
allo stremo delle forze; o, peggio, a pietosa condiscendenza nei
confronti delle illusioni dell’amata ormai morente – non può essere
riferita al solo côté intimistico del romanzo. Evoca la possibilità di una palingenesi totale: sia privata, sia pubblica.
Lo sciopero è fallito, la miniera è
distrutta, la morte renderà impossibile un’unione duratura fra i
protagonisti. Nel presente, dominano le tenebre. Ma «basta un poco di
felicità e tutto ricomincia». Il germe di una vita diversa è seminato:
fuori testo, anni o magari secoli dopo la scomparsa di Étienne, di
Catherine, del loro autore, e probabilmente anche di noi che oggi
leggiamo Germinal, «sarà la volta buona», potrà germogliare – e con lui l’amore, e il socialismo.
Che la vicenda sentimentale dei
protagonisti altro non sia che spezia romantica aggiunta per insaporire
una ricetta socio-politica indigesta ai palati grossi, è ipotesi
smentita, a livello genetico, dalle carte del romanziere; e soprattutto,
a livello testuale, da un’altra evidenza a prima vista imbarazzante: a
più riprese, il narratore ha compassione del direttore della miniera,
Hennebeau, ne compiange le traversie matrimoniali, quasi sembra
condividerne le squallide frustrazioni sessuali – il potente tecnocrate,
tradito e respinto dalla moglie, invidia i più miserabili fra i
minatori, cui mancano pane e companatico, ma non ragazze a profusione da
mettere «a gambe all’aria in fondo a ogni fossato» (perfino in gennaio,
con il gelo e la fame: con buona pace della più elementare
verosimiglianza).
Superfluo stigmatizzare, ancora una
volta, lo spicinio dei luoghi comuni, nella rappresentazione di un
proletario bestialmente disinibito: autentico ritorno del rimosso, per
il borghese catafratto nel dovere, alienato nel denaro, deprivato di
ogni piacere fisico. Il punto è un altro: Hennebeau è almeno in parte
portavoce dell’autore, quando afferma, tranchant, alla fine del
capitolo v della Quinta parte, che solo un «idiota» può identificare
«la felicità di questo mondo» con la «spartizione delle ricchezze».
Perché la «sofferenza umana», «l’eterno dolore delle passioni» non
potranno essere annullati dal superamento «dell’eterna ingiustizia delle
classi»: così Zola, in una risposta a Édouard Rod del 27 marzo 1885,
non immemore delle letture schopenhaueriane affrontate durante la
preparazione della Joie de vivre.
Per l’autore dei Rougon-Macquart,
un ordine sociale più giusto non è condizione sufficiente – necessaria
sì, però: e non si stanca di ripeterlo – per un avvenire più umano.
Amputato delle sue vicende sentimentali (quella scontata e
melodrammatica di Hennebeau, quella tragica e memorabile di Étienne e
Catherine), Germinal non sarebbe soltanto meno attraente per il
volgo. Perderebbe un elemento decisivo della sua visione del mondo, del
suo paradossale eudemonismo: che, in una sorta di doppio vincolo
utopico, condiziona la possibilità dell’amore alla sussistenza di un
minimo di bonheur socio-ambientale; e al tempo stesso subordina
la collettiva «felicità di questo mondo» al libero dispiegamento dei
desideri individuali.
È dunque molti romanzi in uno, Germinal: favola iniziatica, Bildungsroman
socialista, catabasi rigeneratrice, racconto nero, melodramma
sentimentale, resoconto documentario, tragedia erotica, romanzo storico,
narrazione carnevalesca, prosa poetica e simbolica, epica moderna,
mitopoiesi visionaria. Altro ancora, probabilmente. Zola sembra quasi
mosso dall’ansia di compendiare l’intera enciclopedia delle forme
narrative ottocentesche: con malcelata predilezione, a tratti, per i più
screditati effettacci del noir popolare – precisamente quelli
che la poetica del naturalismo condanna. Che di questo dramma a tinte
forti, incline a esibire senza vergogna situazioni da polpettone
d’appendice (libero sesso e omicidi multipli, triangoli erotici e
tradimenti), e un’enfasi stilistica degna dell’odiosamato Victor Hugo,
si sia potuto dire (e non del tutto a torto!) che «è l’unico romanzo
fondamentalmente vero, un romanzo senza precedenti, e senza successore»
(André Wurmser), è forse il paradosso più stupefacente della storia
letteraria (non solo) francese.
Il fatto è che Germinal – non
pare superfluo ribadirlo, in conclusione – è anche, e soprattutto, il
libro che affronta con afflato profetico, e in forma di romanzo, «la
questione più importante del secolo XX» (parole di Zola): «la lotta fra
capitale e lavoro». Che è ancora la questione più importante del secolo
XXI. Alla malafede che oggi nega il conflitto di classe, il testo del
romanzo offre l’unica risposta carica di adeguata, icastica evidenza:
quella materialista del corpo, cui per primo Zola ha conferito dignità
letteraria e tragica serietà. L’oppressione e l’ingiustizia sono
sedimentate nei polmoni di Bonnemort, per sempre intasati di polvere
nera; sono scritte nei veri e propri «tatuaggi», incisi dal carbone sul
corpo dei minatori; sono denunciate dall’esibizione «feroce» delle
debordanti nudità della Mouquette; trovano specchio e condanna perfino
nei «grandi occhi appannati» (e umani) di Bataille, il vecchio cavallo
bianco, la cui orrenda agonia conta fra le pagine più potenti della
narrativa ottocentesca.
E se oggi leggiamo la storia dei Maheu
con immutata commozione, se gli errori di Étienne sono i nostri, e sulla
nostra pelle sentiamo scorrere il sudore di Catherine, nell’inferno di
«brace incandescente» di Jean-Bart, non è per curiosità documentaria,
per esotismo miserabilista – quasi che Germinal fosse un
racconto storico come tanti, o semplicemente un drammone romantico.
Tantomeno per mero sfogo immaginario di pulsioni proibite – in materia
di sesso e violenza, la letteratura a noi contemporanea usa imbandire
pietanze ben altrimenti piccanti. E nemmeno in grazia di quella
trasfigurazione mitico-simbolica che pure, non c’è dubbio, dietro e
oltre la lotta di classe ci consente di leggere anche altro – fantasmi
dell’inconscio, angosce individuali e collettive, traumi in cui si
sovrappongono memoria atavica e choc della modernità tecnologica.
«Germinal è ancora oggi un libro terribile»: lo scriveva Erich Auerbach, in Mimesis,
all’indomani degli orrori della Seconda Guerra mondiale; è vero a
maggior ragione nell’epoca del capitalismo globale, che ha sancito
l’estensione planetaria del potere assoluto, sui corpi delle donne e
degli uomini, del deus absconditus della finanza.
Della forza perturbante del romanzo di
Zola, del valore indiscutibilmente attuale e universale della storia che
racconta, è motivo e garanzia – ieri, oggi e domani, finché Rivoluzione
non germini – una sconvolgente evidenza: nelle condizioni di vita del
proletariato, che l’autore dei Rougon-Macquart meglio di
chiunque altro ha saputo raccontare, «sono riassunte», come sapeva Marx,
«tutte le condizioni di vita della società moderna», anche le nostre,
«nella loro asprezza più inumana». Finché Rivoluzione non germini, possa
perciò Germinal esibire sotto gli occhi ipocriti del lettore
borghese – forse non più scandalizzato, ma ancora e sempre a disagio:
perché la forza straniante della parola letteraria lo spoglia di ogni
buona coscienza – possa perciò esibire sotto gli occhi nostri il culo
della Mouquette; possa perciò continuare a schizzarci in faccia lo sputo
nero di Bonnemort.
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