12 ottobre 2015

IL NOBEL A SVETLANA ALEKSIEVIC




   Anche se sono convinto che l'assegnazione dei Premi Nobel ubbidisce sempre di più a ragioni politiche, il Premio dato quest'anno ad una donna che ha scelto di raccontare la vita di gente comune non mi dispiace. Di certo si tratta di una grande scrittura che a noi ricorda molto il nostro amato Nuto Revelli.

Goffredo Fofi

Verità del romanzo-inchiesta


Stoccolma ha riconosciuto in Svetlana Alexievich una grande narratrice, protagonista del miglior giornalismo degli ultimi decenni

Un Nobel per la letteratura su due coglie in genere nel segno. È evidente che i giurati svedesi del premio più prestigioso da più di un secolo, ma che ha laureato anche molti mediocri e dimenticato alcuni grandi e grandissimi, da Tolstoj a Kafka, da Proust alla Woolf, da Joyce ad Achebe, hanno dovuto accorgersi, sia pure con qualche ritardo, del fenomeno centrale nelle lettere contemporanee: quello degli scrittori che – di fronte alla difficoltà di dire il nostro tempo nella forma romanzo, anche se alcuni ancora vi riescono, o alla pletora di sciocchi che tentano di farlo con imperdonabile facilità – hanno scelto di battere strade di per sé non nuove, ma le sole forse capaci di affrontare il moloch della Storia, le radicali trasformazioni del nostro tempo, l’epoca detta giustamente post-moderno che succede all’evo moderno e nella quale noi tutti annaspiamo senza capire come usarne positivamente o come, in parole povere, far fronte agli orrori che ci regala o ci prepara.

Non hanno premiato a suo tempo Kapuscinski (anche se lo hanno chiamato a spiegar loro le sue convinzioni e le sue tecniche) ma hanno rimediato premiando Alexievich, la poco appariscente ma ostinata e coerente esploratrice di un modo di intendere la letteratura massimamente coinvolto nella storia.

Sono tanti gli scrittori che, dagli anni di Steinbeck e di Orwell, di Carlo Levi e di Capote, hanno cercato la nuova strada, la mescolanza di inchiesta e romanzo per dire quello che la letteratura da sola, ma neanche la sociologia o il giornalismo da soli, non possono riuscire a dire, per mettere i lettori di fronte alla complessità della storia e all’infinito dolore delle sue vittime (ovviamente non la complessità come alibi, quella di chi dimentica come il problema sia essenzialmente sempre lo stesso: chi e come deve amministrare il potere in un mondo diviso tra chi ha infinitamente troppo e masse e masse che hanno niente o quasi, e con l’obbligo morale di scegliere da che parte stare...).

Svetlana si è imposta con il libro su Chernobyl, ha raccontato la guerra vista dalla parte delle donne, ha raccontato la fine dell’utopia sovietica e i suoi esiti in chi ci aveva creduto e a quell’utopia ha dedicato la sua esistenza. Ha raccontato i modi di reagire alla Storia e ai suoi disastri del “piccolo uomo” e della “piccola donna”, secondo la lezione della grande letteratura russa, quella di Tolstoj e di Cechov, ma anche di Dostoevskij e di Leskov, di Shalamov e di Grossman, e certamente non secondo una tradizione occidentale più qualunquista che populista.

Lo ha fatto lavorando su migliaia di interviste, e, come peraltro faceva Kapuscinski, intervenendo col massimo rispetto ma secondo il dovere di comunicare, di dare esemplarità e forza alla testimonianza, a ciò che si è visto e capito, affinché gli altri capiscano e, se possibile, reagiscano. Un’idea attiva della letteratura, una concezione etico-politica dell’inchiesta.

Per qualche anno, negli anni Ottanta dello scorso secolo, Svetlana Alexievich è vissuta tra Germania e Italia in una specie di esilio, e in Italia a Pontedera negli anni in cui vi aveva trovato rifugio un altro grande artista dell’Europa centro-orientale, Jerzy Grotowski. Ho avuto l’onore di sfiorare il secondo e di incrociarvi Svetlana e accompagnarla, con altri amici (Maria Nadotti, Sandro e Sandra Ferri della casa editrice e/o, il suo grande traduttore Sergio Rapetti...) a Milano, a Napoli, a Roma, di pubblicarla su «Linea d’ombra» e su «Lo straniero». Raramente ho conosciuto persone così semplici e allo stesso tempo così persuase del proprio lavoro, della sua utilità per tutti. Una grande scrittrice, una grande donna.

Il Sole 24Ore – 11 ottobre 2015


Svetlana Alexievich

La grande Storia della gente comune


Da qualche decina d’anni io cerco di dare voce al mondo russo, al caos, in quanto sappiamo che la vita è caos. Ho scritto più libri ma è come se scrivessi sempre lo stesso libro: il libro del piccolo uomo della grande utopia. Un mondo russo che era da un lato romantico e dall’altro spaventoso, pieno di sangue, e il piccolo uomo si è trovato nel punto focale di questa lotta tra il bene e il male.

Mi è sempre interessato il tema della storia, sono cresciuta in una famiglia di insegnanti, il bisnonno, il nonno e mio padre insegnavano storia nelle scuole rurali, quindi in casa mi capitava spesso di udire questa parola, storia, ma chissà perché la storia che trovavo nei libri mi interessava meno, mi ipnotizzava meno delle storie che sentivo dalle persone e poiché tutta la mia vita è trascorsa in campagna la vita delle gente era aperta ai miei occhi, non c’era niente di nascosto in essa, e anche se la ricchezza della nostra casa era costituita unicamente dai libri mi è sempre rimasta l’impressione di aver appreso la storia del nostro Paese non dai libri ma dai racconti della gente.

Ad esempio in che modo ho saputo della Seconda guerra mondiale? C’è una festa della commemorazione dei defunti, che da noi ricorre in primavera. Tutti si recano sulle tombe dei loro defunti, bevono e mangiano, e tutti si riuniscono in gruppi in questa occasione, però io un giorno mi accorsi che una donna stava in disparte, facevo la settima o l’ottava, ero alle medie, e chiesi perché quella donna se ne stava così da sola e mi hanno detto: sei ancora piccola, sono cose che non devi sapere. Soltanto che, come ho detto, in campagna non ci possono essere segreti e così ho saputo che durante la guerra quella donna aveva tre bambini piccoli.

Quando i tedeschi, in un’azione di rappresaglia, circondarono la cittadina, la gente scappò nelle paludi. Scappavano per pochi giorni, aspettavano che finisse la rappresaglia per poi tornare e portavano con sé poco cibo, però stavolta dovettero stare nascosti nelle paludi molto a lungo e la più piccola delle bambine continuava a piangere e i vicini cominciarono a dire che avrebbe finito per rivelare il nascondiglio ai tedeschi facendoli ammazzare tutti.

E di notte qualcuno sentì la bambina che diceva alla mamma: Mamma, non mi ammazzare, non piangerò più perché ho fame, perché aveva capito l’intenzione della madre di annegarla e pensava che fosse perché si lamentava continuamente per la fame. La mattina dopo questa donna aveva soltanto due figli, aveva ammazzato la bambina per non mettere in pericolo gli altri; ma quando tornarono al paese tutti smisero di rivolgerle la parola e anche il marito quando tornò dalla guerra finì per lasciarla.

Su ogni libro lavoro 4 o 5 anni, registro le conversazioni di 300-400 persone e qualche volta è stupefacente che cosa sia in grado di dire della vita una qualsiasi donna anziana.
Da «Lo straniero» n.26/27, agosto-settembre 2012

Il Sole 24Ore – 11 ottobre 2015

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