Un apocalittico per i nostri giorni: Elémire Zolla
di Raoul Bruni
Quando nel 1959 Elémire Zolla pubblica il suo saggio più famoso, Eclissi dell’intellettuale – oggi riproposto, insieme a Volgarità e dolore e Storia del fantasticare, in Il serpente di bronzo. Scritti antesignani di critica sociale
a cura di Grazia Marchianò (Marsilio, pp. 504, € 24,00) –, non solo gli
intellettuali non si erano eclissati, ma godevano di un credito perfino
eccessivo e oggi assolutamente inimmaginabile. Lo testimonia la stessa,
straordinaria accoglienza riservata immediatamente al libro, su cui si
pronunciarono (pro o contro) quasi tutti i protagonisti del mondo
culturale di allora (da Guido Piovene a Enrico Falqui, da Pietro Citati a
Umberto Eco). Tra le prime recensioni, spicca quella, molto elogiativa,
di Eugenio Montale, che parlò di Zolla, allora trentatreenne, come di
«uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita
come un supremo bene». Altri recensori, al contrario, censurarono i
toni antimoderni dell’Eclissi, condannando così l’autore a
diventare un prototipo da manuale del cosiddetto “apocalittico”,
etichetta tra le più abusate dalla critica di ieri e di oggi, quasi
sempre ostile nei riguardi di chi non crede nelle magnifiche sorti.
Rileggendo ora, dopo tutti questi decenni, certe pagine dell’Eclissi,
si ha una sensazione strana: si direbbe che l’autore stia parlando
della situazione attuale, e non dell’Italia degli anni Cinquanta.
Prendiamo, ad esempio, il capitolo che dà il titolo al libro: Zolla vi
afferma che la figura tradizionale dell’intellettuale rischia di
estinguersi perché è minacciata da «una burocratizzazione e
specializzazione in senso deteriore: colui che era stato un
professionista liberale rischia di diventare appendice di un’azienda,
sottoposto senza residui alla logica aziendale». Non sembra forse che
stia scrivendo oggi? Anche gli stessi umanisti, scrive ancora Zolla,
sono sempre più esclusi «dalle roccaforti che detenevano all’interno del
sistema, prova ne è la progressiva sparizione delle terze pagine dai
quotidiani, la condizione artificiale in cui sopravvivono i terzi
programmi radiofonici (tanto da augurarsi in questo caso lo statalismo
al quale è almeno consentito di non obbedire interamente alla ragione
commerciale che vorrebbe estirpate simili trasmissioni), sicché di
fronte alla stampa fumettistica e di mera informazione, i giornali
descritti con tanta indignazione da Balzac sono addirittura da
rimpiangere». Il saggio annuncia profeticamente non solo l’eclissi degli
intellettuali ma, più in generale, il tramonto dell’umanesimo (numerose
sono le analogie che si potrebbero riscontrare tra le vecchie tesi di
Zolla e le recenti riflessioni di un Marc Fumaroli sulla crisi della
cultura umanistica). A questo proposito, sono sorprendenti le
considerazioni di Zolla sulla scuola, che sembrano quasi un commento ante litteram
alle ultime ipotesi di ridimensionamento degli studi classici: «In
Italia si levano oggi proteste contro l’insegnamento del latino imposto
anche a chi non debba diventare latinista. Orbene, questo è in perfetta
armonia con la tendenza dei tempi, la quale però vuole altro ancora:
oltre al latino si abolisca l’italiano, perfettamente sostituibile con
il particolare italiano richiesto dalla qualifica lavorativa: il gergo
tecnico, la corrispondenza commerciale (che d’altra parte si svolge
sempre più con cifrari), la tecnica pubblicitaria». Lo stesso vale per
gli atenei universitari, «finanziati dai complessi industriali
interessati a una regolare fornitura di specialisti privi di sbavature
umanistiche». La conclusione si confonde ormai con la cronaca recente:
«fra non molto non sopravvivrà che un interesse minimo a seguire gli
antichi curricula e la categoria degli educatori sarà ridimensionata al modo adeguato».
La critica di Zolla non investe solo il sistema dell’istruzione ma prende di mira gli allora nuovi media
(la televisione in primo luogo) e la società di massa in tutti i suoi
aspetti. Si avverte certamente l’influenza della dialettica negativa di
Adorno e dei filosofi della Scuola di Francoforte, che Zolla ebbe il
merito di introdurre nella cultura italiana. Così come fu tra i primi a
diffondere le tesi di autori allora quasi del tutto sconosciuti nel
nostro Paese, come Marshall McLuhan (il quale – pochi lo ricordano – fu a
sua volta influenzato da Zolla) e Claude Lévi-Strauss. Il radicale
antimodernismo di Zolla non può essere condiviso in blocco
(inconcepibile appare, ad esempio, la condanna senza appello nei
confronti del cinema, ribadita anche in Volgarità e dolore, del 1962, e Storia del fantasticare,
del 1964); nondimeno, la militanza metafisica di Zolla non è
assimilabile a una battaglia di retroguardia, come mostrano le nette ed
esplicite prese di distanza da ogni tentativo di restaurazione
moralistica (si ricordi poi che, in anni successivi, l’autore avrebbe
manifestato un inaspettato interesse per il fenomeno della realtà
virtuale, destando un certo scandalo negli ambienti più
tradizionalisti).
In Volgarità e dolore,
compendiando i propri principi critici, Zolla afferma che «L’esatta
rappresentazione del male, la critica fine a se stessa che delinea i
confini del male e gli dà forma, arreca salute», al pari del biblico
serepente di bronzo, guardando il quale, chiunque ne sia stato morso
potrà salvarsi. I mali che funestano l’estetica occidentale sono
snocciolati in Storia del fantasticare, un implacabile atto
d’accusa contro l’inquinamento dell’immaginazione, cioè, appunto, la
«fantasticheria», che è necessario contrastare («Ogni educazione è
allenamento a non fantasticare»).
Tutti e tre i
saggi zolliani di crtica sociale, nonostante le oltranze antimoderne,
appaiono oggi assai più vivi di molti coevi prontuari di filosofia
“progressiva” ormai dimenticati tra gli scaffali polverosi delle
biblioteche. Inoltre, proprio nel momento attuale, in cui l’eclissi
dell’intellettuale è un fatto compiuto e forse irreversibile, tornare a
rileggere le pagine di chi l’aveva così lucidamente prevista può
aiutarci a rinvenire preziosi spunti per provare a comprendere, se non
ad affrontare, la crisi dei nostri giorni.
[Questo articolo è già uscito su «Alias» il manifesto. Noi l'abbiamo ripreso da Le parole e le cose - ]
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