Pisa celebra a Palazzo
Blu il pittore della Belle Époque esponendo dipinti, disegni e tutta
l’opera grafica.
Fabrizio D’Amico
Toulouse Lautrec
Sono oltre duecento le opere (di Toulouse-Lautrec, dei suoi predecessori francesi, di italiani che a Parigi ne seguirono l’esempio) che fanno, al Palazzo Blu di Pisa, la mostra “Toulouse-Lautrec. Luci e ombre di Montmartre”, che per la prima volta in Italia presenta con tale larghezza l’opera incisa del piccolo uomo che forse più d’ogni altro ha incarnato, nella capitale francese dell’ultimo decennio dell’Ottocento, la nuova bramosia di vita che segnò di sé la città. Parigi era in uscita proprio allora dal lungo tempo che ne aveva squassato le speranze, dopo la sconfitta della guerra con la Prussia che nessuno s’attendeva e che fu gravida di lunghe, disastrose conseguenze, prima delle quali il debito pesante delle riparazioni da riconoscere alla potenza vittoriosa. Nel ventennio che era trascorso dal 1870 la Francia aveva saputo però conservare un secolare primato: quello nella cultura e nelle arti. Parigi preparava la sua Belle Époque.
Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901), erede d’una delle famiglie aristocratiche più blasonate del Paese, di quel mondo fu un cuore pulsante. Pur con le sue membra mal cresciute, pur con il quotidiano dolore e la sotterranea amarezza che quel suo corpo malato gli procuravano, un’innata, intensa gioia di vivere lo mise al centro di quel mondo nuovo, garantendogli per tutta la breve vita la luce dei riflettori, e insieme amicizie solidali e durevoli: come quelle con il pittore Louis Anquetin o con l’impresario e chansonnier Aristide Bruant, che avrebbe aperto, nella sede che era stata dello Chat Noir, il cabaret Le Mirliton, e la cui celebrità Toulouse contribuì a diffondere dedicandogli una serie di fortunati manifesti.
Sul finire degli anni
Ottanta Lautrec espone con il gruppo dei XX a Bruxelles e, poco
dopo, al Salon des indépendants a Parigi: e sembra sul punto di
trovare nella tradizionale pittura a olio la sua strada. Ma
nell’ottobre del 1889 apre il Moulin Rouge. Il pittore vi ha
subito un suo tavolo riservato: lì disegnerà – celermente, quasi
sgarbatamente – tutte le celebrità che vi transitano; e – lì,
o in altri simili ritrovi – vedrà esibirsi tutte le stelle del
palcoscenico che Parigi consacra: da Jane Avril a Yvette Guilbert a
Loïe Fuller. A ciascuna delle quali – a partire dal primo
manifesto destinato a La Goulue au Moulin Rouge del ’91: subito
aureolato da uno straordinario successo – egli destinerà le sue
affiches, i suoi disegni seguiti talora da una lunga serie di stampe
litografiche, i suoi dipinti. Lautrec continua ad esporre presso i
mercanti e le gallerie, ma è infine soggiogato dalla vastità
dell’eco che suscitano i suoi lavori a stampa: e capisce che è
questo è il suo futuro. Che è con la litografia che potrà
accompagnare il transito di Parigi al nuovo secolo.
È giusto allora che la
mostra odierna (promossa dalla Fondazione Palazzo Blu assieme alla
Città di Pisa e alla Regione Toscana, aperta fino al 14 febbraio
2016; a cura di Maria Teresa Benedetti; e con un ottimo catalogo
Skira, che comprende fra l’altro la schedatura integrale
dell’opera incisa di Toulouse-Lautrec redatta a cura di Eugenia
Querci, sulla scorta del catalogo generale di Götz Adriani) si
concentri in modo particolare sulla li- tografia di Lautrec, in
tutte le sue declinazioni.
Ha molte memorie, Toulouse: prima fra tutte Degas, da cui ha avuto il primo incoraggiamento, e da cui ha mediato la passione per la raffigurazione dei cavalli da corsa, del teatro, e ancor più durevolmente il fascino per la donna che si sveste, si specchia, seduce nel segreto del suo boudoir. Poi guarda l’incisione giapponese (da Utamaro a Kunisada), ma anche le maschere ghignanti di Ensor; la sintesi del segno forte e riassuntivo di Gauguin; e la tensione disperata di Van Gogh. Ma infine tutte le accantona, queste suggestioni, sacrificandole a quella intuizione che ebbe, da solo, di dare immagine e nuovo decoro a un “prodotto”, fosse esso quello d’uno spettacolo, d’un ritrovo, ovvero dell’esibizione di una danzatrice o di un attore.
È stato più d’una volta nominato, Toulouse-Lautrec, antesignano dell’espressionismo. Ma la sua deformazione della realtà non esprime una remora, un sospetto, una condanna nei suoi confronti; anzi, egli grava la realtà che raffigura di distorsioni, e talora la sovraccarica d’ansia, per sottolinearne la natura d’evento unico, irripetibile. «Più libero nell’arte dell’incisione» che nella pittura, lo dice giustamente la Benedetti: se infatti nella pittura Lautrec continua in parte a subire l’influenza di Degas, nell’incisione, di cui è via via più consapevole di star scrivendo una nuova vicenda, Toulouse saprà magicamente unire l’incanto alla volgarità, la seduzione all’ironia. Predilige la litografia, tecnica brusca ed essenziale, che anima talvolta di brucianti accostamenti di colore, talvolta di un monocromo che oppone il nero più fondo e intenso a un bianco che satura di luce abbacinante la scena. E dovunque Lautrec sparge il suo resistente invaghimento per le cose, gli animali, le donne tanto amate, che di volta in volte immortala.
La Repubblica – 15 ottobre 2015
Lea Mattarella
E Montmartre fece la
rivoluzione del colore
Quella che racconta Toulouse-Lautrec è una Parigi leggendaria. Dove gli artisti arrivano per partecipare e dare il proprio contributo a quella che, già alla fine del XIX secolo, ha tutta l’aria di essere una rivoluzione pittorica epocale. Chi giunge a Montmartre, quartiere che nel 1860 è stato inserito nella cerchia della città, trova caffè-concerto, balli, prostitute, artisti, vita che pulsa. E non può che esserne sedotto. Così a Palazzo Blu di Pisa, intorno alle opere di Toulouse-Lautrec, ecco gli artisti che lo hanno influenzato e coloro che, anche tra gli italiani, lo hanno guardato con ammirazione, riuscendo a cogliere e a fare propri elementi tipici del suo sguardo sul mondo.
C’è ad esempio Federico Zandomeneghi che parte per Parigi portando con sé il suo bagaglio di colore veneziano. Si infatua di Edgar Degas e ha ben presente il mondo di Lautrec. In mostra ecco alcune tra le sue opere più celebri come Il Moulin de la Galette e A teatro . Il primo è datato 1878 che è l’anno in cui Zandò, come lo chiamano da queste parti, espone insieme agli impressionisti. Due anni prima lo stesso luogo era stato immortalato da Renoir in un quadro-manifesto della pittura della vita moderna, quella che auspicava Charles Baudelaire quando scriveva che «il pittore, il vero pittore sarà colui che saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico, e farci vedere, mediante il colore e il disegno, quanto siamo grandi e poetici con le nostre cravatte e le nostre scarpe di vernice! ».
Zandomeneghi lo segue su quel cammino. Ma se Renoir ci porta all’interno del Moulin de la Galette, in un giardino in cui si danza, l’italiano ci lascia sulla soglia, in fila per entrare, insieme a uomini con il cilindro, donne con i cappelli, animali che corrono, circondati da un’agitazione che suggerisce vitalità, l’idea stessa di una giornata di festa. Non si vedono i volti, ma le sagome delle figure, il loro atteggiamento: ciò che conta è l’animazione che attraversa il quadro. Diverse sono le composizioni di Il tè e A teatro . Qui l’artista veneziano mostra tutta la sua maestria nell’inquadrare la figura femminile mentre compie i suoi gesti quotidiani.
Il confronto con Lautrec
e con Degas, del quale sono esposti due bei disegni, rivela subito
una grande differenza: pur cercando di afferrare il mondo che lo
circonda con gli occhi della verità, Zandomeneghi è attento a
rivelare la grazia, l’eleganza, la bellezza priva di ostacoli delle
sue figure, mentre i due francesi, con i loro segni veloci, non hanno
paura di affrontare anche il lato sgradevole dell’esistenza fino
alla deformazione.
Sarà Pierre Bonnard a
rielaborare il tema della figura femminile in una stanza, in un
caffè, intenta a lavarsi o ad acconciarsi. Bellissimo il Nudo nella
tinozza qui esposto , in cui la donna sembra compiere un passo di
danza. Se Degas spiava dal buco della serratura le sue modelle,
quella di Bonnard sembra invece aver ben chiara la presenza del
pittore. Tra gli italien de Paris ecco Pompeo Mariani, Leonetto
Cappiello, Renato Natali con le loro pennellate rapide e le tele
accese dalla Ville-Lumière.
La Repubblica – 15
ottobre 2015
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