“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
28 giugno 2018
FRANCA RAME HA DATO CALORE AL MOVIMENTO
Poco più di cinque anni fa moriva Franca Rame. Non credo che siano stati in molti a ricordarla. Ha giocato contro di lei una congiuntura politica sfortunatissima: l'alleanza con la Lega del fascistoide Salvini del movimento 5 Stelle, che Dario Fo, il Nobel che gli fu compagno di vita, sosteneva, spinge a dimenticare non solo i meriti di Dario (che furono grandi), ma anche quelli di Franca che per alcuni aspetti lo furono anche di più.
Se è vero, che – come
dice il sociologo Roberto Rovelli, uno dei miei compagni di
università che più stimo, – la libertà delle donne è il lascito
più importante che – un po' paradossalmente – il Sessantotto ci
ha lasciato, Franca ha dato alla cosa un contributo rilevante, oserei
dire decisivo, almeno in Italia, pagando un prezzo altissimo.
Il testo che qui riprendo
– sobrio e sugoso - introduceva, nella prima pagina, un numero di
“alias – il manifesto” dedicato in ampia parte a Franca Rame, a
pochi giorni dalla scomparsa. (S.L.L.)
Censuratissima, sfrontata, capocomica della rivoluzione
Gianni Manzella
Ha dato calore
al movimento
che un tempo c'era,
impossibile
non vederlo,
ancora oggi,
sullo sfondo
Non ricorderemo Franca
Rame solo come la moglie di Dario Fo, anche se quella «coppia
aperta, quasi spalancata» è stata in teatro una delle più longeve
delle nostre scene, da quei lontani anni 50 del loro incontro subito
teatrale.
E quanto teatro hanno
traversato insieme, dagli anni anarchici e grotteschi di quelle
bellissime farse dai titoli indimenticabili, metti Chi ruba un
piede è fortunato in amore o Settimo, ruba un po' meno,
lei bellissima e spiritosa, lui con quella faccia un po' così, da
svitato, entrambi non a caso censuratissimi nella televisione
democristiana; a quelli solo apparentemente più politici di Nuova
scena e della Comune, quando ogni spettacolo diventava un po' un
happening. Girando fra Case del popolo e palazzetti dello sport
sempre pienissimi di ragazzi e non solo, quelli che qualche anno dopo
avrebbe raccontato benissimo Nanni Moretti, autarchici e già un po'
disillusi. E con quanto divertimento, mica le tetraggini del
cosiddetto teatro politico.
E si pagava volentieri il
prezzo dell'immancabile sottoscrizione, di qualche causa da
finanziare, dei bicchieri da comprare per sostenere una fabbrica
occupata. Perché non erano soli, e questo contava. Si sentiva
nell'aria. C'era il Living di Beck e Malina che spingeva il pubblico
a uscire dai teatri e lo
portava per le piazze e i
luoghi dell'istituzione negata. E Carmelo Bene che buttava via il
monologo di Amleto. E Leo e Perla che se ne scendevano a Marigliano
per vedere cosa succedeva a mettere insieme Shakespeare e
sceneggiata.
È che non c'era distanza
fra la Franca e Franco Basaglia, voglio dire che si percepiva un
sentimento non di contiguità ma di continuità. Era la stessa lotta,
lo stesso tentativo di dare compimento a quel che appunto era
nell'aria. Lo spirito del '68, del maggio francese dei teatri
occupati, fra rivolta e rivoluzione, ma da noi bisognava tornare
indietro di qualche anno se si voleva capire qualcosa, a quell'estate
del '60 quando altri ragazzi avevano cancellato per sempre (sembrava)
certe tentazioni autoritarie. Ma Franca in teatro c'era nata e fino
all'ultimo ne ha sentito la nostalgia. E così noi di lei, di quella
sua sfrontata leggerezza che sapeva di attori girovaghi, di un teatro
fatto all'impronta, capace di meditata improvvisazione.
Capocomica per imprinting
familiare, se è vero che venivano giù dai comici dell'arte: e Fo
sarebbe stato buon erede, con quel Mistero buffo che si è
visto chissà quante volte e sembrava sempre diverso, forse lo era.
Poi, certo, c'è stata la donna impegnata nelle lotte delle donne e
per una società meno diseguale, capace di raccontare a tutti cos'è
uno stupro.
A un certo punto persino
senatrice della Repubblica. Anche lì capace a un certo punto di dire
no, per non essere complice del finanziamento di missioni belliche di
cui troppi hanno finto di non vedere la contraddizione violenta con
quel ripudio della guerra che pure è uno dei cardini della nostra
Costituzione.
Ecco, in un momento in
cui è vera emergenza la difesa della nostra Costituzione
democratica, piace
ricordarla anche così.
“Alias”, Supplemento
settimanale de «il manifesto», sabato 1 giugno 2013
FRANCA RAME RICORDA VALPREDA
Franca Rame
Franca Rame racconta Valpreda
Intervista di Silvana Silvestri
Per la prima volta nell'aprile dello scorso anno intervistavamo al telefono Franca Rame che pure di questo giornale è stata amica e sostenitrice da sempre: volevamo avere un suo parere sul film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage.
La vicenda di Calabresi, Pinelli e Valpreda che diede vita anche a Morte accidentale di un anarchico messo
in scena da Dario Fo, raccontati in un film che sembrava relegare a un
passato remoto fatti che solo chi li aveva vissuti poteva riempire le
scene del fuori campo di lotte studentesche e operaie, di manifestazioni
contro la guerra nel Vietnam, dittature già imposte e le altre a
venire. Per un mese intero Morte accidentale di un anarchico fu
nel Cile di Allende all'Università dall'ottobre al novembre del 1970. È
importante perché dopo il colpo di stato di Pinochet Dario Fo e Franca
Rame misero in scena Guerra di popolo in Cile dove in realtà si parlava chiaramente della situazione politica italiana.
Riproponiamo
quell'intervista perché l'energia e la vivacità della sua voce la fa
sentire ancora presente, un fervore mai spento, da attrice, militante,
senatrice, voce di tutto un movimento.
«Ho
avuto la possibilità di vederlo e rivederlo questo film con molto
interesse. Le intenzioni sono buone, ma... Quel che dico è sicuramente
pesante: manca di coraggio. Un giovane vedendo oggi il film di Giordana
cosa può capire di quegli anni? E soprattutto non dice che a Calabresi
fu tolta la scorta. «Vai. e tanti auguri!». Chi l'ha ucciso? Si sa. Ma
chi non lo sa? Sì, viene accennato. Ma, a mio avviso, non basta. Si vede
solo il corpo del commissario abbandonato per terra tra le macchine
come fosse «dimenticato» lì da qualcuno. Non si sente il furore, la
fatica, l'ansia politica di quegli anni. Non c'è Milano. La situazione
era tremenda, cominciavano i primi arresti, è stata una pagina di storia
stragista, ‘sporca', ambigua, assassina.
Quello
che sapevamo e che si vede anche nel film è che certamente Calabresi
non era nella stanza quando Pinelli fu fatto volare dalla finestra del
IV piano della questura di Milano. Quando Dario mise in scena Morte accidentale di un anarchico,
era in atto il processo Calabresi-Lotta continua. Dopo l'udienza gli
avvocati difensori di “Lotta continua” ci raggiungevano a teatro e ci
raccontavano quello che era emerso durante il dibattimento che veniva
immediatamente inserito nello spettacolo.
•Non sarà che il film vuole collocare la vicenda nel passato una volta per tutte?
Siamo
certi siano passati quei momenti? Tira una brutta aria in questo Paese.
Ma cosa possono capire i giovani disinformati come sono, se non si dà
una corretta realtà del passato? Non c'è la visione reale di quello che
si stava vivendo. Mancano le lotte operaie e studentesche, le cariche
della polizia, le manganellate, gli arresti, e possiamo dirlo, in
questura si sentivano le urla degli interrogati. C'è chi le ha pure
registrate.
•In
qualche modo si continua a parlare in modo ambiguo di Valpreda,
«ballerino e violento», la sua criminalizzazione non è certo sospesa, né
quella degli anarchici in genere.
Ho
molti amici anarchici, qualcuno forse esaltato (ma gli esaltati credo
si trovino ovunque), ma generosi e onesti come pochi. Conoscevo Pietro
da prima della strage di cui fu accusato. L'ho seguito durante la sua
pesante carcerazione. Conservo tutte le sue lettere. Si è fatto tre mesi
in isolamento con la luce sempre accesa. Non appena si appisolava lo
andavano a svegliare. Proibito dormire, capito? Durante quei tre mesi
non ha visto altro che le guardie carcerarie. Nessun avvocato, nessun
parente. E quando dico nessuno voglio dire proprio nessuno.
Un'esperienza
che non vorrei vivere. E dopo 1110 giorni di carcere viene scarcerato
il 29 dicembre grazie alle numerose manifestazioni popolari organizzate
dal movimento per la sua libertà, Dario ed io siamo andati a salutarlo.
Grande commozione. Posso dire che il film c'entra poco con quello che è
realmente successo in quel periodo difficile per tutti. Nel suo
caseggiato c'erano poliziotti all'ingresso e ad ogni piano, che
chiedevano i documenti a chi entrava. Sua zia Rachele che per lui era
come una madre, quando è stato rilasciato, lo lasciava uscire solo con
me e avevamo sempre con noi la scorta. La polizia lo seguiva ovunque
anche perché aveva ricevuto minacce di morte. Di fianco a Valpreda la
vita non era facile. I fascisti volevano farlo fuori. Si era quindi
accompagnati dalla polizia. Noi per nostro conto, loro in macchina.
Dovevo comunque comunicare al Questore i nostri movimenti.
Se
si andava a vedere un film, due poliziotti si sedevano dietro, due
davanti e due di lato. Per l'ultimo dell'anno avevamo uno spettacolo a
Bologna. Pensai che era ora che Pietro passasse un momento tra i
compagni, decidiamo quindi con Dario e Jacopo di portarlo con noi.
Avverto la questura dello spostamento. Si parte in macchina, come sempre
seguiti dall'autovettura della polizia. Causa la neve e le strade
gelate, perdiamo la scorta perché è finita fuori strada. Ora al ricordo,
sorrido, ma allora la tensione era molta. Contatto con il telefono
della mia macchina, la questura di Milano comunicando l'incidente.
«Troverà il questore di Bologna ad aspettarvi al casello
dell'autostrada» mi rispondono. Tiro un gran sospiro. Così è stato.
Raggiungiamo
il locale dove si doveva tenere lo spettacolo, un circolo privato dove
la polizia non poteva entrare. Io e un altro compagno abbiamo
controllato che nessuno portasse coltelli o altro e ho chiesto di fare
entrare un poliziotto che alla fine disse: «Che bello, io chissà cosa
pensavo potesse succedere». Invece si era divertito.
A
mezzanotte al momento del brindisi tutti hanno cantato bandiera rossa o
qualcos'altro, poi lentamente ci si zittisce. scende un gran silenzio.
siamo tutti sospesi. E nel silenzio ci sono i singhiozzi di Pietro che
assapora il piacere dell'amicizia, della fratellanza, della libertà. Si
svegliava come da un incubo. Era uscito di prigione solo alla vigilia di
Capodanno, dopo 1100 giorni di prigione, eravamo a Cernobbio da mia
madre, portava ancora le scarpette rosse da ballo.
"alias il manifesto", 1 giugno 2013
A. CARULLI, La mia gente
La mia gente, come me, si leva all'alba.
Lavora e il mondo ha sonno.
La trovi, mani nella terra ,secca di sole
fra le pietre calde, a ninnare
un seme orfano, inciampato , per caso.
Quando sono andata via, il mio paese
non mi guardava.
Stava girato di spalle, distratto dall'ansia
di un tempo di fame.
L'ho pensato tanto, per anni
fino ad averne pietà .
Abbiamo lo stesso dolore.
Non ci siamo capiti
ci siamo perduti
come talvolta capita ai grandi amori.
Lavora e il mondo ha sonno.
La trovi, mani nella terra ,secca di sole
fra le pietre calde, a ninnare
un seme orfano, inciampato , per caso.
Quando sono andata via, il mio paese
non mi guardava.
Stava girato di spalle, distratto dall'ansia
di un tempo di fame.
L'ho pensato tanto, per anni
fino ad averne pietà .
Abbiamo lo stesso dolore.
Non ci siamo capiti
ci siamo perduti
come talvolta capita ai grandi amori.
Antonella Carulli
MUSICA E POESIA
Dal 9 giugno al via la diciannovesima edizione della Milanesiana – Letteratura Musica Cinema Scienza Arte Filosofia Teatro e Diritto, Festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e quest’anno dedicato al tema “dubbio/certezza”. Il pianista e compositore Michele Sganga sarà come di consueto ospite per la sezione Il respiro della musica e della poesia, con due concerti il 28 e il 29 giugno. Accanto a pagine classiche di Claude Debussy e Robert Schumann, suonerà due opere per pianoforte di sua composizione: La voce degli alberi, e – in prima esecuzione assoluta il 28 giugno – Variazioni irregolari.
Il dubbio e la certezza. Interrogando musica e poesia
di Michele SgangaA rigor di logica si dovrebbe tutti concordare su un punto: se da un lato parole e note musicali si fanno facilmente strumenti adatti all’espressione delle nostre, pur vaghe, certezze, dall’altro il silenzio assurge ben più docilmente a simbolo dell’umano dubitare, innervato tra le une e le altre sotto forma di cesure o di pause, e mostrandosi in maniera ineluttabile – subdola, a volte – quale perfetto archetipo dell’insicurezza e della paura dell’uomo di fronte alle grandi domande sull’esistenza e sull’origine del cosmo. (Con quel vuoto di parole e suoni a disegnare in fin dei conti i contorni di un più grande silenzio, che è simulacro spettrale e irrisolto di ogni altro, perché irrisolvibile: quello della nostra ignoranza).
Ma se non ora, quando provare a sostenere piuttosto il contrario? Quando dubitare fino alle estreme conseguenze di ciò che appare ovvio e rassicurante, se non proprio nel momento in cui è di dubbio e certezza che si vuole ragionare? Tra l’altro, a mio avviso – e detto non per inciso – musica e poesia sono tra i “luoghi” più potenti per farlo, più della stessa filosofia. Anche questo a dispetto di ciò che il senso comune suggerisce… Ma vediamo perché. O meglio, diciamo che io, da musicista, preferirei metterla nei termini seguenti.
E’ come se la poesia ambisse a divenire puro suono, mentre la musica con movimento opposto volesse farsi parola comprensibile. Ciascuna delle due però preservando le proprie specifiche caratteristiche, rivelandosi secondo le proprie, peculiari e materiche, ancorché immateriali vibrazioni. La dualità in atto è lampante. Per questo i silenzi dell’una e dell’altra appaiono, e sono, identici, mentre le espressioni attraverso cui si manifestano appaiono, e sono, solamente speculari. Quando poi musica e poesia, come nel canto ad esempio, sono fuse assieme, la forza delle cesure e delle pause raddoppia. Anzi, si eleva al quadrato.
Così ora, ribaltando il concetto espresso inizialmente, posso esporre il dubbio (e l’istintiva, musicale certezza al contempo) che sia proprio questo tipo di silenzio, elevato a potenza, ciò che andrebbe meglio ascoltato. Infatti, se da un lato parole e suoni ben rappresentano, di fatto incarnandolo, anche ciò che ci interroga, e che quindi in fin dei conti ci mette in crisi e ci fa vivere nel dubbio continuo, dall’altro è solo nel silenzio che occorre riconoscere la certezza cui aggrapparsi. Non a caso è quel vuoto intessuto di cesure e di pause, il luogo in cui si attua e prende vita il respiro della musica e della poesia, proprio come dal vuoto pare scaturisca il “respiro” del cosmo attraverso il big bang, o quello delle particelle cosiddette “virtuali”, di cui pure pare quel vuoto a livello subatomico sia permeato, secondo le teorie quantistiche odierne.
Quest’ultimo parallelismo appena accennato tra cosmologia e fisica da una parte, e poesia e musica dall’altra, può fare forse da degna conclusione a questa breve divagazione, perché circolarmente illustra un’altra lampante dualità, utile da riconoscere ed esplorare a detta di molti, non foss’altro perché capace di entusiasmare soggetti appartenenti a branche di saperi e discipline solo in apparenza distanti. Sono donne e uomini che amano dubitare e interrogarsi per mestiere, e che più spesso non tacciono, non restano in silenzio ancorati alle loro “virtuali” certezze – e per fortuna! –, bensì parlano (o scrivono) troppo, come me. Persone che non a caso da anni vanno incontrandosi e confrontandosi, come – fra altri luoghi al tempo stesso utopici e reali – capita alla Milanesiana, sede di salvifici dubbi e di concrete certezze creative, occasione sicura di inaspettate e magiche intersezioni culturali e artistiche.
Articolo ripreso da: http://www.minimaetmoralia.it/wp/dubbio-la-certezza-interrogando-musica-poesia/
27 giugno 2018
L' UTOPIA SOCIALISTA DI Z. BAUMAN
Di formazione marxista
e politicamente attivo sin dalla giovinezza, Bauman aveva
sperimentato sulla propria vita le durezze del regime comunista
polacco tanto da dover vivere da esule a Londra dopo aver perso la
cattedra all'Università di Varsavia. Ciò non gli impedì di
continuare a credere nella possibilità che un mondo diverso fosse
pensabile. Castelvecchi pubblica ora le sue riflessioni del 1976 su utopia e socialismo.
Permettetemi, nell'occasione, un ricordo personale: nel febbraio 1976 mi trovavo a lavorare nel Centro di Formazione di Trappeto di Danilo Dolci. Proprio in quel mese del '76 si svolse nel Centro - che Danilo amava chiamare "Borgo di Dio"- uno degli ultimi grandi Seminari organizzati dal sociologo triestino. Vi parteciparono, tra gli altri, il pedagogista brasiliano Paolo Freire; l'allievo di Jean Piaget, Jacques Voneche; il grande psicologo palermitano Gastone Canziani; il pedagogista marxista polacco Bogdan Suchodolskij. Quest'ultimo parlava perfettamente la lingua italiana e mi sono trattenuto più volte, nelle pause dei lavori seminariali, a dialogare con lui. E' stata la persona che, per prima, mi ha aperto gli occhi sul "socialismo reale" e sulla realtà dei cosiddetti Paesi dell'Est. Della sua Polonia diceva che era un Paese più cattolico dell'Italia e, dal momento che considerava assai poco socialisti quei paesi, un giorno mi confidò: "Caro Franco, devi sapere che è più facile essere marxisti in Italia che in Polonia. E, così come è stato necessario un giorno far passare il socialismo dall'utopia alla scienza, oggi è urgente tornare all' utopia!" . (fv)
Piero Bevilacqua
La speranza di un
altro mondo oltre il muro del socialismo reale
Ciò che innanzi tutto
stupisce il lettore un po’ informato sulla vita di Zygmunt Bauman,
nel leggere questo Socialismo utopia attiva, tradotto ora per la
prima volta in Italia (Castelvecchi, pp.181, euro 17.50 ), è
l’intatta passione ideale che l’ispira. L’autore, ebreo
polacco, scrisse questo testo nel 1976, quando ormai viveva da 5 anni
nel Regno Unito, dopo aver perso la cattedra all’Università di
Varsavia. Di formazione marxista e politicamente attivo sin dalla
giovinezza, egli aveva sperimentato sulla propria vita le durezze del
regime comunista polacco.
E tuttavia, nulla della
propria scomoda vicenda biografica – come accade solo ai grandi
pensatori – fa ombra al nitore della riflessione teorica sulla
necessità dell’utopia socialista. D’altra parte egli possiede
tutti gli strumenti, sia teorici che storici, per comprendere i
limiti giganteschi entro cui dovette muoversi la Rivoluzione
d’Ottobre, e che il socialismo realizzato del suo paese e del
blocco sovietico dovette pesantemente scontare.
«Marx – ricorda Bauman
– non credeva che il socialismo sarebbe arrivato prima che il
capitalismo avesse “esaurito” il proprio potenziale creativo e
riteneva che questo potenziale bastasse a elevare le forze produttive
a livello dell’abbondanza.In questo senso, il socialismo può
essere collocato direttamente nell’ambito politico e culturale
dell’organizzazione sociale. Diventerà infatti possibile solo dopo
che il capitalismo, alla sua maniera brutale e spietata, avrà
liberato la società dalla scarsità economica e, di conseguenza,
dall’asservimento alla Natura e alla necessità».
Il primo esperimento di
rivoluzione marxiana della storia, condotto in un paese arretrato
come la Russia, dovette tuttavia cercare strade non previste da Marx.
Lenin e i suoi compagni dovettero far leva, per i propri scopi
insurrezionali e per l’edificazione di una nuova organizzazione
sociale, su una massa sterminata di contadini. Quei contadini,
piccoli proprietari terrieri, la cui sparizione sociale era, nella
previsione teorica di Marx, condizione del passaggio al socialismo.
Bauman segue molto
sinteticamente in un capitolo apposito, e a un livello
teorico-culturale, il modo in cui il socialismo si afferma in Russia
e nei paesi satelliti. E non manca di pervenire a una valutazione
d’insieme, storica e attuale, sull’ Urss del suo tempo, di aperta
disillusione: «Invece di aprire le finestre della storia su distese
incredibilmente vaste di libertà umana, il socialismo sovietico non
è riuscito nemmeno a conseguire la forma limitata e incompleta di
libertà personale che la formula liberale della cultura
capitalistica garantisce. Anche al più ben disposto, pronto a
minimizzare i campi di lavoro e le cacce alle streghe come incidenti
occasionali e atipici, la libertà presente nella vita quotidiana
sovietica deve apparire misera e penosa».
E tuttavia, proprio
questa amara, profonda consapevolezza dei limiti e degli errori,
anche tragici, di quella esperienza, fornisce oggi alle sue
riflessioni sulle ragioni dell’utopia e del socialismo una
freschezza sorprendente. Parlano un linguaggio di speranza e di
liberazione in un mondo sprofondato nella confusione. Sarebbe più
giusto dire un mondo in cui gli «invisibili vessatori» –
espressione di un Bauman più recente – alzano cortine fumogene per
confondere le tracce delle loro scorrerie e del loro dominio. La
confusione sotto il cielo è creata ad arte da chi vuol nascondere la
frattura profonda fra chi domina e chi è dominato.
Il sociologo polacco
smonta l’uso negativo, tanto colto che banale, del termine immesso
nella cultura dell’Occidente da Tommaso Moro. Utopia diventa il
lemma per designare, col senno di poi, l’impresa troppo ardita e
non riuscita, il progetto fallito, insomma l’aspirazione
impossibile. Al contrario, essa alimenta, l’immaginazione del
sociale possibile, oltre le condizioni del presente, infrange il
dominio apparentemente schiacciante dell’ordine costituito. E oggi,
aggiungiamo noi, consente di liberarsi dall’utopia negativa,
dall’ideologia camuffata del «non c’è alternativa», di rompere
le gabbie di un ordine sociale preteso immodificabile in quanto
«naturale», l’unico possibile.
L’utopia è dunque
l’orizzonte che muove gli uomini, perché in grado di far sentire
la propria vita sociale come progetto, proiezione creativa verso un
possibile mondo migliore. In una società in cui il «futuro» delle
ciance politiche e pubblicitarie ( hanno talora la stessa menzognera
semantica) è affidato all’uscita sul mercato dell’ultimo modello
di smartphone, il ritorno dell’utopia socialista costituisce un
antidoto culturale e politico di prima grandezza.
Si tratta, d’altra
parte, di un aspetto ineliminabile della storia umana. Lasciamolo
dire a Bauman: «Credo che non si possa comprendere realmente la vita
sociale se non si presta la dovuta attenzione al ruolo fondamentale
giocato dall’utopia. Le utopie si pongono, rispetto alla totalità
della cultura – per parafrasare Santayana – come un coltello con
la lama rivolta contro il futuro. Esse provocano costantemente la
reazione del futuro sul presente producendo così la nota miscela
nota come storia dell’umanità».
Il manifesto – 30
maggio 2018
Wendell Berry, Quando non si sa più cosa fare
La vera opera
Può darsi che proprio quando non sappiamo più cosa fare
siamo arrivati alla nostra vera opera,
e che quando non sappiamo più dove andare
siamo arrivati al nostro vero viaggio.
La mente non perplessa non si adopera.
Il torrente ostacolato è quello che canta.
Può darsi che proprio quando non sappiamo più cosa fare
siamo arrivati alla nostra vera opera,
e che quando non sappiamo più dove andare
siamo arrivati al nostro vero viaggio.
La mente non perplessa non si adopera.
Il torrente ostacolato è quello che canta.
Wendell Berry
NON ASPETTARTI ALTRE RISPOSTE OLTRE LA TUA!
noi abbiamo commesso degli errori,
non si può negarlo.
non si può negarlo.
Siamo sempre di meno. Le nostre
parole d’ordine sono confuse. Una parte
delle nostre parole
le ha stravolte il nemico fino a renderle
irriconoscibili.
Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto? Su chi
contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più nessuno e da nessuno compresi?
Qualcosa o tutto? Su chi
contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più nessuno e da nessuno compresi?
O contare sulla buona sorte?
Questo tu chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta
oltre la tua.
nessuna risposta
oltre la tua.
Bertolt Brecht
26 giugno 2018
Anche se rischi di restare solo, continua a pensare ...
Malgrado tutto, non dobbiamo mai stancarci di ragionare!
Giovanni Manildo
Parafrasando un film di Sergio Leone : Quando un
uomo con un ragionamento incontra un uomo con uno slogan, l'uomo con un
ragionamento e' un uomo morto .
Purtroppo a livello nazionale la nostra politica e' dominata dagli slogan e dalla superficialità. Penso che di questo ci dovremmo tutti occupare, arginare gli slogan vuoti e pericolosi. Tutti possiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo in ogni nostro discorso, azione, chiacchiera anche da bar. Gli anticorpi civili e sociali li costruiamo così e dobbiamo farlo con determinazione. L'opinione pubblica siamo noi.
Purtroppo a livello nazionale la nostra politica e' dominata dagli slogan e dalla superficialità. Penso che di questo ci dovremmo tutti occupare, arginare gli slogan vuoti e pericolosi. Tutti possiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo in ogni nostro discorso, azione, chiacchiera anche da bar. Gli anticorpi civili e sociali li costruiamo così e dobbiamo farlo con determinazione. L'opinione pubblica siamo noi.
EDUARDO DE FILIPPO A PALERMO
Palermo, Lettere, 69. La lezione di Eduardo
Piero Violante
Ricordo l’apparizione di Eduardo nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, in agitazione. Era forse la prima volta che Eduardo si lasciava convincere a tenere una lezione in una facoltà. A convincerlo riuscì Rognoni, sempre lui, che di Eduardo era amico ed estimatore. Quella lezione dal titolo Perché il teatro di Eduardo? m’è rimasta negli anni impressa per la lucidità intellettuale e la forte tensione con cui Eduardo recitò una Ballata, un Moritat sul suo modo di fare teatro, attraversato dal cruccio della necessità di riscattarlo dalla facilità del comico.
Eduardo - così ci
raccontò - aveva esordito nel 1904, a quattro anni, al Teatro Valle,
nel teatro di Scarpetta, dinanzi a Vittorio Emanuele III, la regina
Elena e sei palchi - ricordo la sottolineatura ironica con gli occhi
del numero sei - di dignitari di corte. Era l’epoca in cui
Scarpetta per nove mesi l’anno riproponeva al pubblico, ancora
«entusiasticamente unitario», la napoletanizzazione della pochade
francese e vi inseriva la cristallizzazione del
piccolo-borghese-pulcinellesco: la maschera di Felice Sciosciammocca
e di cui Eduardo sottolineò la parentela con il Fefè di
Pi-randello. Ecco, questa operazione di Scarpetta - ci disse Eduardo
- che si era per forza scordato di Goldoni e del suo teatro borghese,
di Gallina e dello stesso Petito (e di cui Eduardo non a caso
riprenderà negli anni Cinquanta Palummella) segnò la prima e
grave distorsione del teatro italiano del Novecento, lo scotto che
Scarpetta doveva pagare per sopravvivere con il mestiere. Il teatro
doveva far ridere e Scarpetta-Sciosciammocca faceva ridere.
Ma lo scotto di
Scarpetta, ci disse Eduardo, è stato per anni anche il suo. Quando
nel ’28 mise su compagnia, capì che per trascinare il pubblico,
prendendolo per la cravatta, doveva coprire di comicità il fondo
tragico del suo modo di intendere il teatro. Tant’è - ci disse
Eduardo - che di Natale in casa Cupiello sia il pubblico che
la critica preferiva il finale delsecondo atto con l’arrivo dei
Magi e si seccava per il plumbeo finale del terzo. Agli italiani di
quegli anni il presepe piaceva, eccome! Così Eduardo continuerà a
pagare, soprattutto sotto il fascismo quando «quello del balconcino»
- ci disse - proclamò che a lui le compagnie dialettali non
piacevano. Bisogna aspettare la guerra, la sua drammaticità e la
miseria del dopoguerra perché la tragicità di Eduardo potesse
venire fuori senza più cautele. Eduardo si riferì soprattutto a Il
Sindaco di Rione Sanità. La dimensione epica allora conquistata
da Eduardo, commentò subito Rognoni, lo avvicina all’esperienza di
Brecht: i napoletani lumpen di Eduardo sono «straniati» per
trarne una lezione morale e dialettica sulla ricchezza e la miseria,
sui valori borghesi e sulla loro falsità, questa sì comica. Quella
sera del marzo 1969, dopo una recita al Biondo di Filumena Marturano,
a cena, al Cassaro, allora in una traversina di corso Vittorio
Emanuele, ci spiegò come i tempi della recitazione vadano sempre
costruiti e soprattutto rispettati. «È da trent’anni - ci disse,
rifacendola mentre tutto il ristorante si fermò per ascoltarlo - che
quella scena di Filumena quando poggio le mani sul tavolo e mi alzo
dalla sedia la faccio sempre uguale, con lo stesso tempo».
Imbrigliare il tempo, costruirne uno proprio per comunicare allo
spettatore il valore, il senso di un gesto, di una parola.
Da PIERO VIOLANTE, Swinging Palermo, Sellerio, 2015
E. DE FILIPPO ALLE PRESE CON LE VONGOLE "FUJUTE"
Disegno di Eleonora Bossa
Eduardo e gli “spaghetti con le vongole fujute”
Camilla Ruffo
La spaghettata, si sa, a
Napoli è un sacro rituale: che sia al pomodorino, ai frutti di mare
o semplicemente aglio e olio, nessun napoletano che si rispetti
rifiuterebbe mai di appizzare la forchetta!
Ed Eduardo De Filippo,
che napoletano lo era fino all’osso, non sfuggiva di certo a questa
regola. L’attore, infatti, finché visse la “Compagnia De
Filippo”, dopo ogni spettacolo era solito andare a mangiare un
boccone in trattoria con suo fratello Peppino e sua sorella Titina.
Si racconta che una sera del 1947, dopo la quotidiana
rappresentazione teatrale, Eduardo fosse così stanco da non riuscire
a trattenersi oltre l’orario di chiusura, così salutò i fratelli
e si diresse verso casa.
Ma se la stanchezza aveva
avuto il sopravvento sulla tradizionale uscita serale, non si può
dire che abbia fatto lo stesso con i movimenti dello stomaco. Giunto
a destinazione – ancora più affamato dopo la lunga camminata! -
Eduardo muore dalla voglia di mangiare un abbondante piatto di
spaghetti con le vongole. Ma, purtroppo per lui, di vongola, in casa,
non ce n’era neanche mezza: tutto ciò che offriva la dispensa
erano pomodorini, aglio e prezzemolo.
Poteva mai un genio
dell’inventiva perdersi d’animo di fronte agli stimoli della
fame?
Ovviamente no.
Acceso il fornello mise a
bollire l’acqua per gli spaghetti, prese una padella, un filo
d’olio, aglio e peperoncino, per poi lasciar scoppiettare i
pomodorini nella preparazione di un bel sughetto. Alla fine, gettata
la pasta al dente nel preparato, tagliò abbondanti dosi di
prezzemolo grossolanamente, e si lanciò nell’assaggio.
Il giorno dopo era così
soddisfatto della sua creazione che ne parlò subito con la sorella
Titina, affermando che mentre mangiava quegli spaghetti al
pomodorino* e prezzemolo le sue papille avevano sentito “il sapore
del mare” (merito dell’aroma pungente della spezia).
In breve tempo la ricetta
di Eduardo si diffuse così tanto a Napoli da diventare un pezzo
della sua storia: gli spaghetti alle vongole fujute (perché,
appunto, non ci sono) affollano ancora le tavole delle famiglie
partenopee - con grande disappunto dei pescatori, oserei dire.
*Pare che un segreto per
la perfetta riuscita di questo piatto sia l’utilizzo del pomodorino
di Corbara: piccolo, aspro e dalla caratteristica forma allungata, è
ricco di pectina e conferisce ai sughi l’aroma pungente dei frutti
di mare anche in loro assenza.
Dal sito “Storie di
Napoli” http://www.storienapoli.it/
CAMILLE CLAUDEL raccontata da Raffaella Terribile
La doppia passione di Camille Claudel
Nel 1888 Camille Claudel espone, al Salon des Artistes Français, “Sakountala” (L’abbandono),
forse l’opera più bella, più intensa e carica di pathos che abbia mai
realizzato. Ritrae l’amore tra Sakountala, figlia adottiva di un
eremita, e il principe Douchanta. Si tratta di una leggenda indiana del V
secolo, tragica seppure a lieto fine, poiché i due si uniscono in
matrimonio con un antico rito nuziale, ma quando il principe ritorna al
suo castello per sortilegio si scorda di lei, che ha tenuto con sé il
suo anello come pegno d’amore. Sakountala
decide di andare al castello per rammentargli il loro amore, in virtù
dell’anello, ma questo le scivola nel fiume e va perduto. Lo ritrova un
pescatore che lo riporta al principe, il quale ricordando all’improvviso
ogni cosa corre dalla sua amata Sakountala che, nel frattempo, aveva
partorito il figlio concepito la notte delle nozze. Douchanta riconosce
il bimbo come figlio suo, riabbraccia l’amata, e con loro rientra felice
al castello.
L’opera non fu soltanto esposta,
ricevette anche la Menzione d’Onore. Impossibile non provare sentimenti
di identificazione con queste figure che, al di là della loro perfezione
e bellezza, sono una vera e propria autobiografia scultorea. Quasi una
prefigurazione. Tutti i movimenti dell’animo umano si materializzano
nelle opere di Camille Claudel, come il catalogo di un’esistenza: la
sensualità, il desiderio, i languori dell’amore, la gioia, la
determinazione, ma anche gli inganni della vita, l’umiliazione e la
voglia di riscatto, la disillusione, la rabbia, la disperazione. Il
vortice delle passioni e la totale negazione in cui la morte risucchia
tutto e tutti, il senso straordinario del movimento e la sua tensione
interiore, trasudano dalle sue sculture, mostrando in questa alchimia la
“vera” Camille: l’ultimo mito, come viene spontaneo definire un’artista
la cui vita è stata una perenne lotta per affermare, senza compromessi,
le sue due passioni, e contro ogni convenzione della morale borghese
dell’epoca: l’arte realizzata da una donna e l’amore, clandestino, per
un uomo: Rodin. Sepolta viva per trent’anni, abbandonata da tutti,
lasciata marcire tra i folli, per non turbare i sonni tranquilli e
borghesi di una famiglia prestigiosa. Ridotta al silenzio e
all’inoperatività per non offuscare la memoria di un grande artista di
Francia. Uscita dalle mura del manicomio soltanto per finire nella fossa
comune di un cimitero, neppure una pietra a ricordarne nome e dignità
all’esistenza. Una fama d’artista riconosciuta solo dopo la morte, dopo
settant’anni di oblio, caso unico nell’arte del Novecento, secolo che ha
visto l’emancipazione femminile e l’ammissione del ruolo sociale delle
donne. Tutto questo è Camille Claudel. Artista grande, donna coraggiosa e
appassionata, figlia di un’epoca che non ha saputo vederne i meriti e
le indubbie qualità. Un’epoca in cui l’indipendenza e la vita bohémienne
erano rifiutate alle donne, viste come spose sottomesse o come cocottes
decorative, strumenti sempre disponibili al piacere maschile. Camille,
donna passionale, scelse un lavoro “da uomo” e visse l’arte senza mai
separarla dall’esistenza più intima, dal suo essere delicatamente
femminile. Artista moderna fino in fondo, anticipò i tempi – e i modi di
fare arte, già espressionistici – nel periodo in cui l’esordiente
Picasso poteva affermare, con sferzante misoginia, che “le donne o erano
muse o zerbini”. Camille ha pagato con trent’anni d’inferno, e la
rinuncia alla sua arte, il fatto di essere contemporaneamente donna e
artista. Una manciata di anni, quelli felici, in cui nel mondo maschile –
e maschilista – dell’arte seppe farsi strada, riuscendo a esporre le
sue opere al Salon. Nascere nell’Ottocento (nel 1864 a
Villeneuve-sur-Fère, nella regione della Champagne) in una famiglia
borghese di provincia, pretendere una vita libera, scegliere le proprie
passioni e assecondarle, è già un atto rivoluzionario: a dodici anni
Camille modellava l’argilla e aveva iniziato ad assimilare, dalla
cospicua biblioteca paterna, una cultura sicuramente eccezionale per
l’epoca: raro per un uomo, quasi impensabile per una donna. Dopo il
trasferimento della famiglia a Parigi, ad appena 17 anni, Camille si
iscrive all’Accademia Colarossi, l’unica scuola cosmopolita, alternativa
all’Accademia delle Belle Arti riservata solo agli uomini, che propone
invece la stessa classe e l’identica tariffa per i due sessi. Boucher,
scultore di buon livello, la segue nei suoi progressi. Tre anni dopo, il
maestro deve momentaneamente lasciare la sua allieva per un
soggiorno-premio in Italia e chiede ad Auguste Rodin di sostituirlo
nell’insegnamento, raccomandandogli in particolar modo Camille. Rodin è
un uomo di 42 anni, dall’aspetto forte e tarchiato, capelli chiari e
barba rossiccia, naso importante, occhi da miope, vivissimi e attenti.
Camille è nel pieno del suo splendore, come testimoniano le foto del
tempo: ha il viso regolare, la bocca carnosa, gli occhi d’intenso
azzurro, una fronte superba, lo sguardo fiero, lunghissimi capelli
castani e il corpo ben proporzionato, flessuoso.
Il suo periodo di studentessa è
brevissimo: l’agenda di lavoro di Rodin, da subito, è piena di
appuntamenti con Camille, nell’atelier dove posa come modella per colui
che diventa ben presto suo maestro e uomo della vita, e dove poi lavora
come unica collaboratrice. Sono gli anni in cui l’artista riceve
importanti commissioni pubbliche dallo stato francese e l’usufrutto di
un grande studio, dove portare a compimento alcune opere di grandi
proporzioni, tra cui la Porta dell’Inferno e I borghesi di Calais.
Ha bisogno di assistenti e capisce subito che il talento di Camille è
prezioso. Dirà di lei: “le ho insegnato a scoprire l’oro dentro la
materia, ma l’oro era dentro di lei”. Da parte sua, Camille si dà a lui
totalmente, assecondando in ogni modo i suoi desideri, anche i più
folli. Inizia così fra i due un profondo legame amoroso e professionale.
Le mani e i piedi delle grandi opere di Rodin vengono realizzate in
quegli anni proprio da lei. Compito delicato e di altissimo valore
artistico, come riconobbe lo stesso Delacroix che sentenziò: “E’ dai
piedi e dalle mani che si riconosce un grande artista”.
L’unione con Rodin si traduce in una
consonanza stilistica che apparenta le opere realizzate da entrambi, ma
se appare che Rodin “avvolga” i corpi, Camille “fonde” addirittura gli
animi. La sensualità di Rodin si materializza con la potenza dei corpi,
quella di Camille, invece, è nell’eterno movimento delle forme. Ancora
giovanissima, Camille sa essere impermeabile all’emulazione verso colui
che, se non ancora grandissimo e consacrato dall’Esposizione Universale
di Parigi del 1900, appare già sulla scena come un artista importante e
carismatico. E anche in questo si vede un’intraprendenza, un bisogno di
indipendenza, una forza di carattere non comuni in una giovane donna,
ambiziosa e consapevole del proprio valore: Camille partecipa a circoli
culturali, tiene personalmente i contatti con compratori e galleristi,
cerca di ottenere commesse pubbliche. Tenta in tutti i modi di mettersi
in vista e di brillare di luce propria, confidando per questo alle
amiche di lavorare instancabilmente “come un uomo”.
Nel 1886 Rodin le rinnova in una
lettera il suo impegno amoroso e professionale e stipula un singolare
contratto con lei, appena ventiduenne, in cui dichiara: “ti proteggerò e
ti introdurrò nella cerchia di amici potenti… ed eleverò le tue
capacità artistiche”, impegnandosi inoltre a concretizzare il loro
rapporto affettivo, lasciando l’attuale convivente e promettendole
addirittura di sposarla. Ma Rodin non lascerà mai Rose Beuret, la
“sartina di bell’aspetto” che a 18 anni era diventata la sua modella
preferita e che gli aveva anche dato un figlio (di quasi due anni più
giovane di Camille). La passione per Camille e la fusione dei loro
intelletti creativi è sempre viva, tanto che in quell’anno Rodin le
scrive ancora: “…tu che mi dai dei godimenti così elevati, così ardenti,
vicino a te, mia anima, nel furore dell’amore mantengo sempre il
rispetto per la tua persona e per il tuo carattere, mia Camille, non mi
trattare senza pietà, io ti chiedo così poco…”. Ma le parole ardenti non
colmano quel “vuoto” che Camille dichiara di provare in una lettera a
un’amica: “C’è sempre qualche cosa di assente che mi tormenta…”. Nei
carteggi ritrovati lei esprime senza sosta la volontà di esistere e di
contare, la sua modernità di donna e di artista che non rifulge
pienamente, avvolta come è nel “cono d’ombra” di Rodin. Egli affitta per
loro una dimora in rovina, una villa con giardino selvatico dove
avevano già abitato George Sand e Alfred de Musset, al tempo della loro
storia d’amore. La famiglia Claudel finge d’ignorare per lungo tempo
l’amore e la convivenza di Camille e Rodin: una situazione, in quei
tempi, scandalosa per una ragazza di “buona famiglia”. Rodin intanto
diventa sempre più celebre, nel 1887 ottiene la Legion d’onore, la
massima onorificenza francese. Camille, nel frattempo, scolpisce i suoi
capolavori e insieme a Rodin frequenta i grandi pittori Impressionisti.
Per qualche tempo è felice. Lavora ed è amata. Durante la relazione
Camille rimane incinta, ma interrompe la gravidanza. Quanto questo
aborto abbia influito emotivamente sulla loro storia non si sa, ma alla
soglia dei trent’anni, la relazione di Camille con Rodin comincia a
franare. Molte sono state le ipotesi sulle cause di questa crisi, anche
se non rimane documentazione che racconti perché Camille e Rodin si
lasciarono. Lei credeva in una possibile, definitiva unione, forse per
liberarsi completamente dai sotterfugi e dalle ipocrisie che aveva
dovuto subire nel corso degli anni a causa dell’illegalità. Rodin, pur
amandola e sostenendola nella sua vocazione, nel 1892 rifiuta di
sposarla e questa sembra l’ovvia ragione della fine del loro legame
artistico e sentimentale, che andò sempre più allentandosi, pur tuttavia
senza interrompersi definitivamente, tanto che egli aiutò Camille in
svariate occasioni. Ma la rottura è inevitabile. Camille e Auguste si
incontrano all’inaugurazione di una mostra, tornano di quando in quando a
scriversi ma non entrano più l’uno nello studio dell’altra. Nel 1893
Camille rompe ogni rapporto, affitta uno studio-abitazione e realizza
per conto suo alcune sculture assai importanti. In seguito alla rottura
il forte temperamento di Camille cede. Aveva voluto seguire la sua
vocazione d’artista, aveva amato fuori dagli schemi prestabiliti e ora, a
trent’anni, tutto crolla intorno a lei: vita e professione artistica.
Aveva sfidato convenzioni e pregiudizi per ritrovarsi sola, delusa, non
abbastanza stimata e considerata, come avrebbe voluto essere
assecondando il suo genio, allontanata dalla famiglia come una vergogna
da nascondere. Dopo Rodin, Camille incontra il giovane compositore
Claude Debussy. Non si sa se il loro fu un rapporto d’amore o
d’amicizia, ma Debussy, ancora sconosciuto, resta profondamente
impressionato dall’artista, e la frequenta per due anni, fino a quando
lei, probabilmente perché in fondo al cuore ancora legata a Rodin, ne
interrompe il corso. Numerose difficoltà finanziarie cominciano ad
affliggerla: essere scultori comporta spese ingenti per i materiali e
Camille non riesce a sostenerle, si trova in problemi economici per i
quali deve ricorrere all’aiuto del padre e del fratello. Scolpisce opere
di piccolo formato per ridurre il costo dei lavori. Un profondo rancore
verso Rodin le invade, come un’ombra, il cuore e la mente. Cominciano
le ossessioni: Rodin vuole impossessarsi dei suoi lavori, e lei ne
distrugge alcuni, Rodin la fa spiare dai suoi assistenti per rubarle le
idee, Rodin vuole ucciderla. l segnali di una grave forma di depressione
con manie di persecuzione, di una profonda sofferenza, del senso di un
abbandono totale e, probabilmente, della consapevolezza di aver donato
la sua Arte all’uomo che amava e di averla così perduta per sempre:
tutti gli esperti dell’opera di Rodin sanno che la sua maniera, negli
anni Ottanta, è contemporanea all’incontro con Camille. Più che
quarantenne Rodin, se fosse rimasto solo, si sarebbe probabilmente
evoluto verso un neo-michelangiolismo esasperato; improvvisamente,
invece, il suo lavoro si anima di una voce nuova, voce che, partita
Camille, si insabbia. Questa convivenza di passione e di creazione, in
due amanti che svolgono la stessa attività, operando insieme nei
medesimi luoghi e sui medesimi soggetti, conduce a un lavoro misto. Si è
detto di Camille che lavorava alla maniera di Rodin, così come c’è una
parte dell’opera di Rodin che fa eco a quella di Camille. Il numero
delle opere firmate da Camille durante il periodo di lavoro con Rodin è
limitato, mentre tutti i testimoni la descrivono come una lavoratrice
accanita sulla produzione di opere di grande qualità, non certo di copie
d’apprendistato. Perduto l’amore, Camille si ritrova sola e disperata.
Inizia a bere. Combatte con difficoltà economiche sempre più grandi, a
cui non riesce a tenere fronte, priva di mezzi e di commissioni, isolata
da una famiglia ostile, completamente abbandonata, reietta agli occhi
di una società che la discrimina, disconosciuta da un ambiente artistico
che le volta le spalle dopo averle spalancato le porte. Morto il padre,
e passata una settimana, la madre firma la sua condanna a vita
nell’inferno dei folli ed è perduta per sempre: tradotta a forza il 10
marzo 1913 nel manicomio di Montdevergues, non conoscerà più la libertà,
sepolta viva per trent’anni, fino alla morte, avvenuta in una Francia
assediata dall’occupazione tedesca nell’inverno del 1943. E le sue mani
smetteranno di scolpire per sempre. Scriveranno solo parole che, a
distanza di tanti anni, stringono il cuore di chi legge e che, allora,
non trovarono le risposte che chiedevano: vita, libertà, amore. In una
lettera al suo amico e mercante Blot, Camille nel 1935 descrive così la
sua vita: “… un romanzo… un’epopea come l’Iliade e l’Odissea. Ci
vorrebbe Omero per raccontarla, sono caduta dentro un baratro, vivo in
uno strano mondo… dal sogno che è stata la mia vita, ora è rimasto solo
l’incubo…” – “… da cosa deriva tanta ferocia umana… prometto che mai più
recherò scandalo a voi, perché sono troppo desiderosa di riprendere una
vita normale… non farei più nulla di disdicevole perché ho troppo
sofferto”. Negli anni Ottanta la sua figura, ormai dimenticata, a parte
l’attenzione di qualche raro studioso, fu riportata alla luce dalle
attente e appassionate ricerche di una pronipote ventenne, Reine-Marie
Paris. Catturata dal fascino di alcune sculture, che quasi
distrattamente adornavano il salotto del nonno Paul Claudel, la nipote
divenne ed è tuttora la sua biografa, ricercatrice e curatrice di tutte
le iniziative che la riguardano. Raccontò in seguito: “cercando per la
mia tesi di laurea dettagli su mia zia, si scatenò un silenzio
imbarazzante… Camille mi apparve come un personaggio “maledetto”
all’interno della famiglia, che volle per decenni cadesse un oblio
totale e una censura vera e propria”. Scopo della vita di Reine divenne
da allora l’impegno di riabilitare agli occhi del mondo il genio della
zia, dichiarando: “… il mio sogno, il mio progetto futuro sono quelli di
creare un museo autonomo di Camille Claudel… perché questo lei merita”.
Articolo ripreso da: https://rebstein.wordpress.com/2014/02/07/la-doppia-passione-di-camille-claudel/
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