28 giugno 2018

L'AMORE non si può nascondere!


    Le mie vesti odorano ancora dello spigo che mi donasti...

FRANCA RAME HA DATO CALORE AL MOVIMENTO





        
       Poco più di cinque anni fa moriva Franca Rame. Non credo che siano stati in molti a ricordarla. Ha giocato contro di lei una congiuntura politica sfortunatissima: l'alleanza con la Lega del fascistoide Salvini del movimento 5 Stelle, che Dario Fo, il Nobel che gli fu compagno di vita, sosteneva, spinge a dimenticare non solo i meriti di Dario (che furono grandi), ma anche quelli di Franca che per alcuni aspetti lo furono anche di più.

Se è vero, che – come dice il sociologo Roberto Rovelli, uno dei miei compagni di università che più stimo, – la libertà delle donne è il lascito più importante che – un po' paradossalmente – il Sessantotto ci ha lasciato, Franca ha dato alla cosa un contributo rilevante, oserei dire decisivo, almeno in Italia, pagando un prezzo altissimo.

Il testo che qui riprendo – sobrio e sugoso - introduceva, nella prima pagina, un numero di “alias – il manifesto” dedicato in ampia parte a Franca Rame, a pochi giorni dalla scomparsa. (S.L.L.) 
 
  Censuratissima, sfrontata, capocomica della rivoluzione
 Gianni Manzella


 Ha dato calore 

al movimento 

che un tempo c'era, 

impossibile 

non vederlo, 

ancora oggi, 

sullo sfondo

Non ricorderemo Franca Rame solo come la moglie di Dario Fo, anche se quella «coppia aperta, quasi spalancata» è stata in teatro una delle più longeve delle nostre scene, da quei lontani anni 50 del loro incontro subito teatrale.
E quanto teatro hanno traversato insieme, dagli anni anarchici e grotteschi di quelle bellissime farse dai titoli indimenticabili, metti Chi ruba un piede è fortunato in amore o Settimo, ruba un po' meno, lei bellissima e spiritosa, lui con quella faccia un po' così, da svitato, entrambi non a caso censuratissimi nella televisione democristiana; a quelli solo apparentemente più politici di Nuova scena e della Comune, quando ogni spettacolo diventava un po' un happening. Girando fra Case del popolo e palazzetti dello sport sempre pienissimi di ragazzi e non solo, quelli che qualche anno dopo avrebbe raccontato benissimo Nanni Moretti, autarchici e già un po' disillusi. E con quanto divertimento, mica le tetraggini del cosiddetto teatro politico.
E si pagava volentieri il prezzo dell'immancabile sottoscrizione, di qualche causa da finanziare, dei bicchieri da comprare per sostenere una fabbrica occupata. Perché non erano soli, e questo contava. Si sentiva nell'aria. C'era il Living di Beck e Malina che spingeva il pubblico a uscire dai teatri e lo
portava per le piazze e i luoghi dell'istituzione negata. E Carmelo Bene che buttava via il monologo di Amleto. E Leo e Perla che se ne scendevano a Marigliano per vedere cosa succedeva a mettere insieme Shakespeare e sceneggiata.
È che non c'era distanza fra la Franca e Franco Basaglia, voglio dire che si percepiva un sentimento non di contiguità ma di continuità. Era la stessa lotta, lo stesso tentativo di dare compimento a quel che appunto era nell'aria. Lo spirito del '68, del maggio francese dei teatri occupati, fra rivolta e rivoluzione, ma da noi bisognava tornare indietro di qualche anno se si voleva capire qualcosa, a quell'estate del '60 quando altri ragazzi avevano cancellato per sempre (sembrava) certe tentazioni autoritarie. Ma Franca in teatro c'era nata e fino all'ultimo ne ha sentito la nostalgia. E così noi di lei, di quella sua sfrontata leggerezza che sapeva di attori girovaghi, di un teatro fatto all'impronta, capace di meditata improvvisazione.
Capocomica per imprinting familiare, se è vero che venivano giù dai comici dell'arte: e Fo sarebbe stato buon erede, con quel Mistero buffo che si è visto chissà quante volte e sembrava sempre diverso, forse lo era. Poi, certo, c'è stata la donna impegnata nelle lotte delle donne e per una società meno diseguale, capace di raccontare a tutti cos'è uno stupro.
A un certo punto persino senatrice della Repubblica. Anche lì capace a un certo punto di dire no, per non essere complice del finanziamento di missioni belliche di cui troppi hanno finto di non vedere la contraddizione violenta con quel ripudio della guerra che pure è uno dei cardini della nostra Costituzione.
Ecco, in un momento in cui è vera emergenza la difesa della nostra Costituzione democratica, piace
ricordarla anche così.

“Alias”, Supplemento settimanale de «il manifesto», sabato 1 giugno 2013

FRANCA RAME RICORDA VALPREDA


Franca Rame


Franca Rame racconta Valpreda

Intervista di Silvana Silvestri

 Per la prima volta nell'aprile dello scorso anno intervistavamo al telefono Franca Rame che pure di questo giornale è stata amica e sostenitrice da sempre: volevamo avere un suo parere sul film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage.
La vicenda di Calabresi, Pinelli e Valpreda che diede vita anche a Morte accidentale di un anarchico messo in scena da Dario Fo, raccontati in un film che sembrava relegare a un passato remoto fatti che solo chi li aveva vissuti poteva riempire le scene del fuori campo di lotte studentesche e operaie, di manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, dittature già imposte e le altre a venire. Per un mese intero Morte accidentale di un anarchico fu nel Cile di Allende all'Università dall'ottobre al novembre del 1970. È importante perché dopo il colpo di stato di Pinochet Dario Fo e Franca Rame misero in scena Guerra di popolo in Cile dove in realtà si parlava chiaramente della situazione politica italiana.
Riproponiamo quell'intervista perché l'energia e la vivacità della sua voce la fa sentire ancora presente, un fervore mai spento, da attrice, militante, senatrice, voce di tutto un movimento.

«Ho avuto la possibilità di vederlo e rivederlo questo film con molto interesse. Le intenzioni sono buone, ma... Quel che dico è sicuramente pesante: manca di coraggio. Un giovane vedendo oggi il film di Giordana cosa può capire di quegli anni? E soprattutto non dice che a Calabresi fu tolta la scorta. «Vai. e tanti auguri!». Chi l'ha ucciso? Si sa. Ma chi non lo sa? Sì, viene accennato. Ma, a mio avviso, non basta. Si vede solo il corpo del commissario abbandonato per terra tra le macchine come fosse «dimenticato» lì da qualcuno. Non si sente il furore, la fatica, l'ansia politica di quegli anni. Non c'è Milano. La situazione era tremenda, cominciavano i primi arresti, è stata una pagina di storia stragista, ‘sporca', ambigua, assassina.
Quello che sapevamo e che si vede anche nel film è che certamente Calabresi non era nella stanza quando Pinelli fu fatto volare dalla finestra del IV piano della questura di Milano. Quando Dario mise in scena Morte accidentale di un anarchico, era in atto il processo Calabresi-Lotta continua. Dopo l'udienza gli avvocati difensori di “Lotta continua” ci raggiungevano a teatro e ci raccontavano quello che era emerso durante il dibattimento che veniva immediatamente inserito nello spettacolo.

Non sarà che il film vuole collocare la vicenda nel passato una volta per tutte?
Siamo certi siano passati quei momenti? Tira una brutta aria in questo Paese. Ma cosa possono capire i giovani disinformati come sono, se non si dà una corretta realtà del passato? Non c'è la visione reale di quello che si stava vivendo. Mancano le lotte operaie e studentesche, le cariche della polizia, le manganellate, gli arresti, e possiamo dirlo, in questura si sentivano le urla degli interrogati. C'è chi le ha pure registrate.

In qualche modo si continua a parlare in modo ambiguo di Valpreda, «ballerino e violento», la sua criminalizzazione non è certo sospesa, né quella degli anarchici in genere.
Ho molti amici anarchici, qualcuno forse esaltato (ma gli esaltati credo si trovino ovunque), ma generosi e onesti come pochi. Conoscevo Pietro da prima della strage di cui fu accusato. L'ho seguito durante la sua pesante carcerazione. Conservo tutte le sue lettere. Si è fatto tre mesi in isolamento con la luce sempre accesa. Non appena si appisolava lo andavano a svegliare. Proibito dormire, capito? Durante quei tre mesi non ha visto altro che le guardie carcerarie. Nessun avvocato, nessun parente. E quando dico nessuno voglio dire proprio nessuno.
Un'esperienza che non vorrei vivere. E dopo 1110 giorni di carcere viene scarcerato il 29 dicembre grazie alle numerose manifestazioni popolari organizzate dal movimento per la sua libertà, Dario ed io siamo andati a salutarlo. Grande commozione. Posso dire che il film c'entra poco con quello che è realmente successo in quel periodo difficile per tutti. Nel suo caseggiato c'erano poliziotti all'ingresso e ad ogni piano, che chiedevano i documenti a chi entrava. Sua zia Rachele che per lui era come una madre, quando è stato rilasciato, lo lasciava uscire solo con me e avevamo sempre con noi la scorta. La polizia lo seguiva ovunque anche perché aveva ricevuto minacce di morte. Di fianco a Valpreda la vita non era facile. I fascisti volevano farlo fuori. Si era quindi accompagnati dalla polizia. Noi per nostro conto, loro in macchina. Dovevo comunque comunicare al Questore i nostri movimenti.
Se si andava a vedere un film, due poliziotti si sedevano dietro, due davanti e due di lato. Per l'ultimo dell'anno avevamo uno spettacolo a Bologna. Pensai che era ora che Pietro passasse un momento tra i compagni, decidiamo quindi con Dario e Jacopo di portarlo con noi. Avverto la questura dello spostamento. Si parte in macchina, come sempre seguiti dall'autovettura della polizia. Causa la neve e le strade gelate, perdiamo la scorta perché è finita fuori strada. Ora al ricordo, sorrido, ma allora la tensione era molta. Contatto con il telefono della mia macchina, la questura di Milano comunicando l'incidente. «Troverà il questore di Bologna ad aspettarvi al casello dell'autostrada» mi rispondono. Tiro un gran sospiro. Così è stato.
Raggiungiamo il locale dove si doveva tenere lo spettacolo, un circolo privato dove la polizia non poteva entrare. Io e un altro compagno abbiamo controllato che nessuno portasse coltelli o altro e ho chiesto di fare entrare un poliziotto che alla fine disse: «Che bello, io chissà cosa pensavo potesse succedere». Invece si era divertito.
A mezzanotte al momento del brindisi tutti hanno cantato bandiera rossa o qualcos'altro, poi lentamente ci si zittisce. scende un gran silenzio. siamo tutti sospesi. E nel silenzio ci sono i singhiozzi di Pietro che assapora il piacere dell'amicizia, della fratellanza, della libertà. Si svegliava come da un incubo. Era uscito di prigione solo alla vigilia di Capodanno, dopo 1100 giorni di prigione, eravamo a Cernobbio da mia madre, portava ancora le scarpette rosse da ballo.
"alias il manifesto", 1 giugno 2013

A. CARULLI, La mia gente





La mia gente, come me, si leva all'alba.
Lavora e il mondo ha sonno.
La trovi, mani nella terra ,secca di sole
fra le pietre calde, a ninnare
un seme orfano, inciampato , per caso.

Quando sono andata via, il mio paese
non mi guardava.
Stava girato di spalle, distratto dall'ansia
di un tempo di fame.
L'ho pensato tanto, per anni
fino ad averne pietà .
Abbiamo lo stesso dolore.
Non ci siamo capiti
ci siamo perduti
come talvolta capita ai grandi amori.
 
Antonella Carulli

MUSICA E POESIA


       Dal 9 giugno al via la diciannovesima edizione della Milanesiana – Letteratura Musica Cinema Scienza Arte Filosofia Teatro e Diritto, Festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e quest’anno dedicato al tema “dubbio/certezza”. Il pianista e compositore Michele Sganga sarà come di consueto ospite per la sezione Il respiro della musica e della poesia, con due concerti il 28 e il 29 giugno. Accanto a pagine classiche di Claude Debussy e Robert Schumann, suonerà due opere per pianoforte di sua composizione: La voce degli alberi, e – in prima esecuzione assoluta il 28 giugno – Variazioni irregolari.

Il dubbio e la certezza. Interrogando musica e poesia

di Michele Sganga

A rigor di logica si dovrebbe tutti concordare su un punto: se da un lato parole e note musicali si fanno facilmente strumenti adatti all’espressione delle nostre, pur vaghe, certezze, dall’altro il silenzio assurge ben più docilmente a simbolo dell’umano dubitare, innervato tra le une e le altre sotto forma di cesure o di pause, e mostrandosi in maniera ineluttabile –  subdola, a volte – quale perfetto archetipo dell’insicurezza e della paura dell’uomo di fronte alle grandi domande sull’esistenza e sull’origine del cosmo. (Con quel vuoto di parole e suoni a disegnare in fin dei conti i contorni di un più grande silenzio, che è simulacro spettrale e irrisolto di ogni altro, perché irrisolvibile: quello della nostra ignoranza).
Ma se non ora, quando provare a sostenere piuttosto il contrario? Quando dubitare fino alle estreme conseguenze di ciò che appare ovvio e rassicurante, se non  proprio nel momento in cui è di dubbio e certezza che si vuole ragionare? Tra l’altro, a mio avviso – e detto non per inciso – musica e poesia sono tra i “luoghi” più potenti per farlo, più della stessa filosofia. Anche questo a dispetto di ciò che il senso comune suggerisce… Ma vediamo perché. O meglio, diciamo che io, da musicista, preferirei metterla nei termini seguenti.
E’ come se la poesia ambisse a divenire puro suono, mentre la musica con movimento opposto volesse farsi parola comprensibile. Ciascuna delle due però preservando le proprie specifiche caratteristiche, rivelandosi secondo le proprie, peculiari e materiche, ancorché immateriali vibrazioni. La dualità in atto è lampante. Per questo i silenzi dell’una e dell’altra appaiono, e sono, identici, mentre le espressioni attraverso cui si manifestano appaiono, e sono, solamente speculari. Quando poi musica e poesia, come nel canto ad esempio, sono fuse assieme, la forza delle cesure e delle pause raddoppia. Anzi, si eleva al quadrato.
Così ora, ribaltando il concetto espresso inizialmente, posso esporre il dubbio (e l’istintiva, musicale certezza al contempo) che sia proprio questo tipo di silenzio, elevato a potenza, ciò che andrebbe meglio ascoltato. Infatti, se da un lato parole e suoni ben rappresentano, di fatto incarnandolo, anche ciò che ci interroga, e che quindi in fin dei conti ci mette in crisi e ci fa vivere nel dubbio continuo, dall’altro è solo nel silenzio che occorre riconoscere la certezza cui aggrapparsi. Non a caso è quel vuoto intessuto di cesure e di pause, il luogo in cui si attua e prende vita il respiro della musica e della poesia, proprio come dal vuoto pare scaturisca il “respiro” del cosmo attraverso il big bang, o quello delle particelle cosiddette “virtuali”, di cui pure pare quel vuoto a livello subatomico sia permeato, secondo le teorie quantistiche odierne.
Quest’ultimo parallelismo appena accennato tra cosmologia e fisica da una parte, e poesia e musica dall’altra, può fare forse da degna conclusione a questa breve divagazione, perché circolarmente illustra un’altra lampante dualità, utile da riconoscere ed esplorare a detta di molti, non foss’altro perché capace di entusiasmare soggetti appartenenti a branche di saperi e discipline solo in apparenza distanti. Sono donne e uomini che amano dubitare e interrogarsi per mestiere, e che più spesso non tacciono, non restano in silenzio ancorati alle loro “virtuali” certezze – e per fortuna! –, bensì parlano (o scrivono) troppo, come me. Persone che non a caso da anni vanno incontrandosi e confrontandosi, come – fra altri luoghi al tempo stesso utopici e reali – capita alla Milanesiana, sede di salvifici dubbi e di concrete certezze creative, occasione sicura di inaspettate e magiche intersezioni culturali e artistiche.

Articolo ripreso da: http://www.minimaetmoralia.it/wp/dubbio-la-certezza-interrogando-musica-poesia/

27 giugno 2018

L' UTOPIA SOCIALISTA DI Z. BAUMAN


      Di formazione marxista e politicamente attivo sin dalla giovinezza, Bauman aveva sperimentato sulla propria vita le durezze del regime comunista polacco tanto da dover vivere da esule a Londra dopo aver perso la cattedra all'Università di Varsavia. Ciò non gli impedì di continuare a credere nella possibilità che un mondo diverso fosse pensabile. Castelvecchi pubblica ora le sue riflessioni del 1976 su utopia e socialismo. 
     
      Permettetemi, nell'occasione, un ricordo personale: nel febbraio 1976 mi trovavo a lavorare nel Centro di Formazione di Trappeto di Danilo Dolci. Proprio in quel mese del '76 si svolse nel Centro - che Danilo amava chiamare "Borgo di Dio"- uno degli ultimi grandi Seminari organizzati dal sociologo triestino. Vi parteciparono, tra gli altri, il pedagogista brasiliano Paolo Freire; l'allievo di Jean Piaget, Jacques Voneche; il grande psicologo palermitano Gastone Canziani; il pedagogista marxista polacco Bogdan Suchodolskij. Quest'ultimo parlava perfettamente la lingua italiana e mi sono trattenuto più volte, nelle pause dei lavori seminariali, a dialogare con lui. E' stata la persona che, per prima, mi ha aperto gli occhi sul "socialismo reale" e sulla realtà dei cosiddetti Paesi dell'Est. Della sua Polonia diceva che era un Paese più cattolico dell'Italia e, dal momento che considerava assai poco socialisti quei paesi, un giorno mi confidò: "Caro Franco, devi sapere che è più facile essere marxisti in Italia che in Polonia. E, così come è stato necessario un giorno far passare il socialismo dall'utopia alla scienza, oggi è urgente tornare all' utopia!" . (fv)

Piero Bevilacqua

La speranza di un altro mondo oltre il muro del socialismo reale
Ciò che innanzi tutto stupisce il lettore un po’ informato sulla vita di Zygmunt Bauman, nel leggere questo Socialismo utopia attiva, tradotto ora per la prima volta in Italia (Castelvecchi, pp.181, euro 17.50 ), è l’intatta passione ideale che l’ispira. L’autore, ebreo polacco, scrisse questo testo nel 1976, quando ormai viveva da 5 anni nel Regno Unito, dopo aver perso la cattedra all’Università di Varsavia. Di formazione marxista e politicamente attivo sin dalla giovinezza, egli aveva sperimentato sulla propria vita le durezze del regime comunista polacco.

E tuttavia, nulla della propria scomoda vicenda biografica – come accade solo ai grandi pensatori – fa ombra al nitore della riflessione teorica sulla necessità dell’utopia socialista. D’altra parte egli possiede tutti gli strumenti, sia teorici che storici, per comprendere i limiti giganteschi entro cui dovette muoversi la Rivoluzione d’Ottobre, e che il socialismo realizzato del suo paese e del blocco sovietico dovette pesantemente scontare.

«Marx – ricorda Bauman – non credeva che il socialismo sarebbe arrivato prima che il capitalismo avesse “esaurito” il proprio potenziale creativo e riteneva che questo potenziale bastasse a elevare le forze produttive a livello dell’abbondanza.In questo senso, il socialismo può essere collocato direttamente nell’ambito politico e culturale dell’organizzazione sociale. Diventerà infatti possibile solo dopo che il capitalismo, alla sua maniera brutale e spietata, avrà liberato la società dalla scarsità economica e, di conseguenza, dall’asservimento alla Natura e alla necessità».

Il primo esperimento di rivoluzione marxiana della storia, condotto in un paese arretrato come la Russia, dovette tuttavia cercare strade non previste da Marx. Lenin e i suoi compagni dovettero far leva, per i propri scopi insurrezionali e per l’edificazione di una nuova organizzazione sociale, su una massa sterminata di contadini. Quei contadini, piccoli proprietari terrieri, la cui sparizione sociale era, nella previsione teorica di Marx, condizione del passaggio al socialismo.

Bauman segue molto sinteticamente in un capitolo apposito, e a un livello teorico-culturale, il modo in cui il socialismo si afferma in Russia e nei paesi satelliti. E non manca di pervenire a una valutazione d’insieme, storica e attuale, sull’ Urss del suo tempo, di aperta disillusione: «Invece di aprire le finestre della storia su distese incredibilmente vaste di libertà umana, il socialismo sovietico non è riuscito nemmeno a conseguire la forma limitata e incompleta di libertà personale che la formula liberale della cultura capitalistica garantisce. Anche al più ben disposto, pronto a minimizzare i campi di lavoro e le cacce alle streghe come incidenti occasionali e atipici, la libertà presente nella vita quotidiana sovietica deve apparire misera e penosa».
E tuttavia, proprio questa amara, profonda consapevolezza dei limiti e degli errori, anche tragici, di quella esperienza, fornisce oggi alle sue riflessioni sulle ragioni dell’utopia e del socialismo una freschezza sorprendente. Parlano un linguaggio di speranza e di liberazione in un mondo sprofondato nella confusione. Sarebbe più giusto dire un mondo in cui gli «invisibili vessatori» – espressione di un Bauman più recente – alzano cortine fumogene per confondere le tracce delle loro scorrerie e del loro dominio. La confusione sotto il cielo è creata ad arte da chi vuol nascondere la frattura profonda fra chi domina e chi è dominato.

Il sociologo polacco smonta l’uso negativo, tanto colto che banale, del termine immesso nella cultura dell’Occidente da Tommaso Moro. Utopia diventa il lemma per designare, col senno di poi, l’impresa troppo ardita e non riuscita, il progetto fallito, insomma l’aspirazione impossibile. Al contrario, essa alimenta, l’immaginazione del sociale possibile, oltre le condizioni del presente, infrange il dominio apparentemente schiacciante dell’ordine costituito. E oggi, aggiungiamo noi, consente di liberarsi dall’utopia negativa, dall’ideologia camuffata del «non c’è alternativa», di rompere le gabbie di un ordine sociale preteso immodificabile in quanto «naturale», l’unico possibile.

L’utopia è dunque l’orizzonte che muove gli uomini, perché in grado di far sentire la propria vita sociale come progetto, proiezione creativa verso un possibile mondo migliore. In una società in cui il «futuro» delle ciance politiche e pubblicitarie ( hanno talora la stessa menzognera semantica) è affidato all’uscita sul mercato dell’ultimo modello di smartphone, il ritorno dell’utopia socialista costituisce un antidoto culturale e politico di prima grandezza.

Si tratta, d’altra parte, di un aspetto ineliminabile della storia umana. Lasciamolo dire a Bauman: «Credo che non si possa comprendere realmente la vita sociale se non si presta la dovuta attenzione al ruolo fondamentale giocato dall’utopia. Le utopie si pongono, rispetto alla totalità della cultura – per parafrasare Santayana – come un coltello con la lama rivolta contro il futuro. Esse provocano costantemente la reazione del futuro sul presente producendo così la nota miscela nota come storia dell’umanità».

Il manifesto – 30 maggio 2018

Wendell Berry, Quando non si sa più cosa fare


La vera opera

Può darsi che proprio quando non sappiamo più cosa fare
siamo arrivati alla nostra vera opera,

e che quando non sappiamo più dove andare
siamo arrivati al nostro vero viaggio.

La mente non perplessa non si adopera.
Il torrente ostacolato è quello che canta.


Wendell Berry

NON ASPETTARTI ALTRE RISPOSTE OLTRE LA TUA!




noi abbiamo commesso degli errori,
non si può negarlo
.

Siamo sempre di meno. Le nostre
parole d’ordine sono confuse. Una parte
delle nostre parole
le ha stravolte il nemico fino a renderle
irriconoscibili.

Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto? Su chi
contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più nessuno e da nessuno compresi?
O contare sulla buona sorte?

Questo tu chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta
oltre la tua.

Bertolt Brecht
    

26 giugno 2018

Anche se rischi di restare solo, continua a pensare ...


Malgrado tutto, non dobbiamo mai stancarci di ragionare!
 
Parafrasando un film di Sergio Leone : Quando un uomo con un ragionamento incontra un uomo con uno slogan, l'uomo con un ragionamento e' un uomo morto .
Purtroppo a livello nazionale la nostra politica e' dominata dagli slogan e dalla superficialità. Penso che di questo ci dovremmo tutti occupare, arginare gli slogan vuoti e pericolosi. Tutti possiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo in ogni nostro discorso, azione, chiacchiera anche da bar. Gli anticorpi civili e sociali li costruiamo così e dobbiamo farlo con determinazione. L'opinione pubblica siamo noi.

Giovanni Manildo

EDUARDO DE FILIPPO A PALERMO


Palermo, Lettere, 69. La lezione di Eduardo

 Piero Violante

      Ricordo l’apparizione di Eduardo nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, in agitazione. Era forse la prima volta che Eduardo si lasciava convincere a tenere una lezione in una facoltà. A convincerlo riuscì Rognoni, sempre lui, che di Eduardo era amico ed estimatore. Quella lezione dal titolo Perché il teatro di Eduardo? m’è rimasta negli anni impressa per la lucidità intellettuale e la forte tensione con cui Eduardo recitò una Ballata, un Moritat sul suo modo di fare teatro, attraversato dal cruccio della necessità di riscattarlo dalla facilità del comico.
Eduardo - così ci raccontò - aveva esordito nel 1904, a quattro anni, al Teatro Valle, nel teatro di Scarpetta, dinanzi a Vittorio Emanuele III, la regina Elena e sei palchi - ricordo la sottolineatura ironica con gli occhi del numero sei - di dignitari di corte. Era l’epoca in cui Scarpetta per nove mesi l’anno riproponeva al pubblico, ancora «entusiasticamente unitario», la napoletanizzazione della pochade francese e vi inseriva la cristallizzazione del piccolo-borghese-pulcinellesco: la maschera di Felice Sciosciammocca e di cui Eduardo sottolineò la parentela con il Fefè di Pi-randello. Ecco, questa operazione di Scarpetta - ci disse Eduardo - che si era per forza scordato di Goldoni e del suo teatro borghese, di Gallina e dello stesso Petito (e di cui Eduardo non a caso riprenderà negli anni Cinquanta Palummella) segnò la prima e grave distorsione del teatro italiano del Novecento, lo scotto che Scarpetta doveva pagare per sopravvivere con il mestiere. Il teatro doveva far ridere e Scarpetta-Sciosciammocca faceva ridere.
Ma lo scotto di Scarpetta, ci disse Eduardo, è stato per anni anche il suo. Quando nel ’28 mise su compagnia, capì che per trascinare il pubblico, prendendolo per la cravatta, doveva coprire di comicità il fondo tragico del suo modo di intendere il teatro. Tant’è - ci disse Eduardo - che di Natale in casa Cupiello sia il pubblico che la critica preferiva il finale delsecondo atto con l’arrivo dei Magi e si seccava per il plumbeo finale del terzo. Agli italiani di quegli anni il presepe piaceva, eccome! Così Eduardo continuerà a pagare, soprattutto sotto il fascismo quando «quello del balconcino» - ci disse - proclamò che a lui le compagnie dialettali non piacevano. Bisogna aspettare la guerra, la sua drammaticità e la miseria del dopoguerra perché la tragicità di Eduardo potesse venire fuori senza più cautele. Eduardo si riferì soprattutto a Il Sindaco di Rione Sanità. La dimensione epica allora conquistata da Eduardo, commentò subito Rognoni, lo avvicina all’esperienza di Brecht: i napoletani lumpen di Eduardo sono «straniati» per trarne una lezione morale e dialettica sulla ricchezza e la miseria, sui valori borghesi e sulla loro falsità, questa sì comica. Quella sera del marzo 1969, dopo una recita al Biondo di Filumena Marturano, a cena, al Cassaro, allora in una traversina di corso Vittorio Emanuele, ci spiegò come i tempi della recitazione vadano sempre costruiti e soprattutto rispettati. «È da trent’anni - ci disse, rifacendola mentre tutto il ristorante si fermò per ascoltarlo - che quella scena di Filumena quando poggio le mani sul tavolo e mi alzo dalla sedia la faccio sempre uguale, con lo stesso tempo». Imbrigliare il tempo, costruirne uno proprio per comunicare allo spettatore il valore, il senso di un gesto, di una parola.

Da PIERO VIOLANTE, Swinging Palermo, Sellerio, 2015

E. DE FILIPPO ALLE PRESE CON LE VONGOLE "FUJUTE"


Disegno di Eleonora Bossa

Eduardo e gli “spaghetti con le vongole fujute” 

Camilla Ruffo

 
La spaghettata, si sa, a Napoli è un sacro rituale: che sia al pomodorino, ai frutti di mare o semplicemente aglio e olio, nessun napoletano che si rispetti rifiuterebbe mai di appizzare la forchetta!
Ed Eduardo De Filippo, che napoletano lo era fino all’osso, non sfuggiva di certo a questa regola. L’attore, infatti, finché visse la “Compagnia De Filippo”, dopo ogni spettacolo era solito andare a mangiare un boccone in trattoria con suo fratello Peppino e sua sorella Titina. Si racconta che una sera del 1947, dopo la quotidiana rappresentazione teatrale, Eduardo fosse così stanco da non riuscire a trattenersi oltre l’orario di chiusura, così salutò i fratelli e si diresse verso casa.
Ma se la stanchezza aveva avuto il sopravvento sulla tradizionale uscita serale, non si può dire che abbia fatto lo stesso con i movimenti dello stomaco. Giunto a destinazione – ancora più affamato dopo la lunga camminata! - Eduardo muore dalla voglia di mangiare un abbondante piatto di spaghetti con le vongole. Ma, purtroppo per lui, di vongola, in casa, non ce n’era neanche mezza: tutto ciò che offriva la dispensa erano pomodorini, aglio e prezzemolo.
Poteva mai un genio dell’inventiva perdersi d’animo di fronte agli stimoli della fame?
Ovviamente no.
Acceso il fornello mise a bollire l’acqua per gli spaghetti, prese una padella, un filo d’olio, aglio e peperoncino, per poi lasciar scoppiettare i pomodorini nella preparazione di un bel sughetto. Alla fine, gettata la pasta al dente nel preparato, tagliò abbondanti dosi di prezzemolo grossolanamente, e si lanciò nell’assaggio.
Il giorno dopo era così soddisfatto della sua creazione che ne parlò subito con la sorella Titina, affermando che mentre mangiava quegli spaghetti al pomodorino* e prezzemolo le sue papille avevano sentito “il sapore del mare” (merito dell’aroma pungente della spezia).
In breve tempo la ricetta di Eduardo si diffuse così tanto a Napoli da diventare un pezzo della sua storia: gli spaghetti alle vongole fujute (perché, appunto, non ci sono) affollano ancora le tavole delle famiglie partenopee - con grande disappunto dei pescatori, oserei dire.

*Pare che un segreto per la perfetta riuscita di questo piatto sia l’utilizzo del pomodorino di Corbara: piccolo, aspro e dalla caratteristica forma allungata, è ricco di pectina e conferisce ai sughi l’aroma pungente dei frutti di mare anche in loro assenza.

Dal sito “Storie di Napoli” http://www.storienapoli.it/

CAMILLE CLAUDEL raccontata da Raffaella Terribile






La doppia passione di Camille Claudel

Nel 1888 Camille Claudel espone, al Salon des Artistes Français, “Sakountala” (L’abbandono), forse l’opera più bella, più intensa e carica di pathos che abbia mai realizzato. Ritrae l’amore tra Sakountala, figlia adottiva di un eremita, e il principe Douchanta. Si tratta di una leggenda indiana del V secolo, tragica seppure a lieto fine, poiché i due si uniscono in matrimonio con un antico rito nuziale, ma quando il principe ritorna al suo castello per sortilegio si scorda di lei, che ha tenuto con sé il suo anello come pegno d’amore. Sakountala decide di andare al castello per rammentargli il loro amore, in virtù dell’anello, ma questo le scivola nel fiume e va perduto. Lo ritrova un pescatore che lo riporta al principe, il quale ricordando all’improvviso ogni cosa corre dalla sua amata Sakountala che, nel frattempo, aveva partorito il figlio concepito la notte delle nozze. Douchanta riconosce il bimbo come figlio suo, riabbraccia l’amata, e con loro rientra felice al castello.
L’opera non fu soltanto esposta, ricevette anche la Menzione d’Onore. Impossibile non provare sentimenti di identificazione con queste figure che, al di là della loro perfezione e bellezza, sono una vera e propria autobiografia scultorea. Quasi una prefigurazione. Tutti i movimenti dell’animo umano si materializzano nelle opere di Camille Claudel, come il catalogo di un’esistenza: la sensualità, il desiderio, i languori dell’amore, la gioia, la determinazione, ma anche gli inganni della vita, l’umiliazione e la voglia di riscatto, la disillusione, la rabbia, la disperazione. Il vortice delle passioni e la totale negazione in cui la morte risucchia tutto e tutti, il senso straordinario del movimento e la sua tensione interiore, trasudano dalle sue sculture, mostrando in questa alchimia la “vera” Camille: l’ultimo mito, come viene spontaneo definire un’artista la cui vita è stata una perenne lotta per affermare, senza compromessi, le sue due passioni, e contro ogni convenzione della morale borghese dell’epoca: l’arte realizzata da una donna e l’amore, clandestino, per un uomo: Rodin. Sepolta viva per trent’anni, abbandonata da tutti, lasciata marcire tra i folli, per non turbare i sonni tranquilli e borghesi di una famiglia prestigiosa. Ridotta al silenzio e all’inoperatività per non offuscare la memoria di un grande artista di Francia. Uscita dalle mura del manicomio soltanto per finire nella fossa comune di un cimitero, neppure una pietra a ricordarne nome e dignità all’esistenza. Una fama d’artista riconosciuta solo dopo la morte, dopo settant’anni di oblio, caso unico nell’arte del Novecento, secolo che ha visto l’emancipazione femminile e l’ammissione del ruolo sociale delle donne. Tutto questo è Camille Claudel. Artista grande, donna coraggiosa e appassionata, figlia di un’epoca che non ha saputo vederne i meriti e le indubbie qualità. Un’epoca in cui l’indipendenza e la vita bohémienne erano rifiutate alle donne, viste come spose sottomesse o come cocottes decorative, strumenti sempre disponibili al piacere maschile. Camille, donna passionale, scelse un lavoro “da uomo” e visse l’arte senza mai separarla dall’esistenza più intima, dal suo essere delicatamente femminile. Artista moderna fino in fondo, anticipò i tempi – e i modi di fare arte, già espressionistici – nel periodo in cui l’esordiente Picasso poteva affermare, con sferzante misoginia, che “le donne o erano muse o zerbini”. Camille ha pagato con trent’anni d’inferno, e la rinuncia alla sua arte, il fatto di essere contemporaneamente donna e artista. Una manciata di anni, quelli felici, in cui nel mondo maschile – e maschilista – dell’arte seppe farsi strada, riuscendo a esporre le sue opere al Salon. Nascere nell’Ottocento (nel 1864 a Villeneuve-sur-Fère, nella regione della Champagne) in una famiglia borghese di provincia, pretendere una vita libera, scegliere le proprie passioni e assecondarle, è già un atto rivoluzionario: a dodici anni Camille modellava l’argilla e aveva iniziato ad assimilare, dalla cospicua biblioteca paterna, una cultura sicuramente eccezionale per l’epoca: raro per un uomo, quasi impensabile per una donna. Dopo il trasferimento della famiglia a Parigi, ad appena 17 anni, Camille si iscrive all’Accademia Colarossi, l’unica scuola cosmopolita, alternativa all’Accademia delle Belle Arti riservata solo agli uomini, che propone invece la stessa classe e l’identica tariffa per i due sessi. Boucher, scultore di buon livello, la segue nei suoi progressi. Tre anni dopo, il maestro deve momentaneamente lasciare la sua allieva per un soggiorno-premio in Italia e chiede ad Auguste Rodin di sostituirlo nell’insegnamento, raccomandandogli in particolar modo Camille. Rodin è un uomo di 42 anni, dall’aspetto forte e tarchiato, capelli chiari e barba rossiccia, naso importante, occhi da miope, vivissimi e attenti. Camille è nel pieno del suo splendore, come testimoniano le foto del tempo: ha il viso regolare, la bocca carnosa, gli occhi d’intenso azzurro, una fronte superba, lo sguardo fiero, lunghissimi capelli castani e il corpo ben proporzionato, flessuoso.
Sakountala, 1905
Il suo periodo di studentessa è brevissimo: l’agenda di lavoro di Rodin, da subito, è piena di appuntamenti con Camille, nell’atelier dove posa come modella per colui che diventa ben presto suo maestro e uomo della vita, e dove poi lavora come unica collaboratrice. Sono gli anni in cui l’artista riceve importanti commissioni pubbliche dallo stato francese e l’usufrutto di un grande studio, dove portare a compimento alcune opere di grandi proporzioni, tra cui la Porta dell’Inferno e I borghesi di Calais. Ha bisogno di assistenti e capisce subito che il talento di Camille è prezioso. Dirà di lei: “le ho insegnato a scoprire l’oro dentro la materia, ma l’oro era dentro di lei”. Da parte sua, Camille si dà a lui totalmente, assecondando in ogni modo i suoi desideri, anche i più folli. Inizia così fra i due un profondo legame amoroso e professionale. Le mani e i piedi delle grandi opere di Rodin vengono realizzate in quegli anni proprio da lei. Compito delicato e di altissimo valore artistico, come riconobbe lo stesso Delacroix che sentenziò: “E’ dai piedi e dalle mani che si riconosce un grande artista”.
L’unione con Rodin si traduce in una consonanza stilistica che apparenta le opere realizzate da entrambi, ma se appare che Rodin “avvolga” i corpi, Camille “fonde” addirittura gli animi. La sensualità di Rodin si materializza con la potenza dei corpi, quella di Camille, invece, è nell’eterno movimento delle forme. Ancora giovanissima, Camille sa essere impermeabile all’emulazione verso colui che, se non ancora grandissimo e consacrato dall’Esposizione Universale di Parigi del 1900, appare già sulla scena come un artista importante e carismatico. E anche in questo si vede un’intraprendenza, un bisogno di indipendenza, una forza di carattere non comuni in una giovane donna, ambiziosa e consapevole del proprio valore: Camille partecipa a circoli culturali, tiene personalmente i contatti con compratori e galleristi, cerca di ottenere commesse pubbliche. Tenta in tutti i modi di mettersi in vista e di brillare di luce propria, confidando per questo alle amiche di lavorare instancabilmente “come un uomo”.
Camille Claudel atelier
Nel 1886 Rodin le rinnova in una lettera il suo impegno amoroso e professionale e stipula un singolare contratto con lei, appena ventiduenne, in cui dichiara: “ti proteggerò e ti introdurrò nella cerchia di amici potenti… ed eleverò le tue capacità artistiche”, impegnandosi inoltre a concretizzare il loro rapporto affettivo, lasciando l’attuale convivente e promettendole addirittura di sposarla. Ma Rodin non lascerà mai Rose Beuret, la “sartina di bell’aspetto” che a 18 anni era diventata la sua modella preferita e che gli aveva anche dato un figlio (di quasi due anni più giovane di Camille). La passione per Camille e la fusione dei loro intelletti creativi è sempre viva, tanto che in quell’anno Rodin le scrive ancora: “…tu che mi dai dei godimenti così elevati, così ardenti, vicino a te, mia anima, nel furore dell’amore mantengo sempre il rispetto per la tua persona e per il tuo carattere, mia Camille, non mi trattare senza pietà, io ti chiedo così poco…”. Ma le parole ardenti non colmano quel “vuoto” che Camille dichiara di provare in una lettera a un’amica: “C’è sempre qualche cosa di assente che mi tormenta…”. Nei carteggi ritrovati lei esprime senza sosta la volontà di esistere e di contare, la sua modernità di donna e di artista che non rifulge pienamente, avvolta come è nel “cono d’ombra” di Rodin. Egli affitta per loro una dimora in rovina, una villa con giardino selvatico dove avevano già abitato George Sand e Alfred de Musset, al tempo della loro storia d’amore. La famiglia Claudel finge d’ignorare per lungo tempo l’amore e la convivenza di Camille e Rodin: una situazione, in quei tempi, scandalosa per una ragazza di “buona famiglia”. Rodin intanto diventa sempre più celebre, nel 1887 ottiene la Legion d’onore, la massima onorificenza francese. Camille, nel frattempo, scolpisce i suoi capolavori e insieme a Rodin frequenta i grandi pittori Impressionisti. Per qualche tempo è felice. Lavora ed è amata. Durante la relazione Camille rimane incinta, ma interrompe la gravidanza. Quanto questo aborto abbia influito emotivamente sulla loro storia non si sa, ma alla soglia dei trent’anni, la relazione di Camille con Rodin comincia a franare. Molte sono state le ipotesi sulle cause di questa crisi, anche se non rimane documentazione che racconti perché Camille e Rodin si lasciarono. Lei credeva in una possibile, definitiva unione, forse per liberarsi completamente dai sotterfugi e dalle ipocrisie che aveva dovuto subire nel corso degli anni a causa dell’illegalità. Rodin, pur amandola e sostenendola nella sua vocazione, nel 1892 rifiuta di sposarla e questa sembra l’ovvia ragione della fine del loro legame artistico e sentimentale, che andò sempre più allentandosi, pur tuttavia senza interrompersi definitivamente, tanto che egli aiutò Camille in svariate occasioni. Ma la rottura è inevitabile. Camille e Auguste si incontrano all’inaugurazione di una mostra, tornano di quando in quando a scriversi ma non entrano più l’uno nello studio dell’altra. Nel 1893 Camille rompe ogni rapporto, affitta uno studio-abitazione e realizza per conto suo alcune sculture assai importanti. In seguito alla rottura il forte temperamento di Camille cede. Aveva voluto seguire la sua vocazione d’artista, aveva amato fuori dagli schemi prestabiliti e ora, a trent’anni, tutto crolla intorno a lei: vita e professione artistica. Aveva sfidato convenzioni e pregiudizi per ritrovarsi sola, delusa, non abbastanza stimata e considerata, come avrebbe voluto essere assecondando il suo genio, allontanata dalla famiglia come una vergogna da nascondere. Dopo Rodin, Camille incontra il giovane compositore Claude Debussy. Non si sa se il loro fu un rapporto d’amore o d’amicizia, ma Debussy, ancora sconosciuto, resta profondamente impressionato dall’artista, e la frequenta per due anni, fino a quando lei, probabilmente perché in fondo al cuore ancora legata a Rodin, ne interrompe il corso. Numerose difficoltà finanziarie cominciano ad affliggerla: essere scultori comporta spese ingenti per i materiali e Camille non riesce a sostenerle, si trova in problemi economici per i quali deve ricorrere all’aiuto del padre e del fratello. Scolpisce opere di piccolo formato per ridurre il costo dei lavori. Un profondo rancore verso Rodin le invade, come un’ombra, il cuore e la mente. Cominciano le ossessioni: Rodin vuole impossessarsi dei suoi lavori, e lei ne distrugge alcuni, Rodin la fa spiare dai suoi assistenti per rubarle le idee, Rodin vuole ucciderla. l segnali di una grave forma di depressione con manie di persecuzione, di una profonda sofferenza, del senso di un abbandono totale e, probabilmente, della consapevolezza di aver donato la sua Arte all’uomo che amava e di averla così perduta per sempre: tutti gli esperti dell’opera di Rodin sanno che la sua maniera, negli anni Ottanta, è contemporanea all’incontro con Camille. Più che quarantenne Rodin, se fosse rimasto solo, si sarebbe probabilmente evoluto verso un neo-michelangiolismo esasperato; improvvisamente, invece, il suo lavoro si anima di una voce nuova, voce che, partita Camille, si insabbia. Questa convivenza di passione e di creazione, in due amanti che svolgono la stessa attività, operando insieme nei medesimi luoghi e sui medesimi soggetti, conduce a un lavoro misto. Si è detto di Camille che lavorava alla maniera di Rodin, così come c’è una parte dell’opera di Rodin che fa eco a quella di Camille. Il numero delle opere firmate da Camille durante il periodo di lavoro con Rodin è limitato, mentre tutti i testimoni la descrivono come una lavoratrice accanita sulla produzione di opere di grande qualità, non certo di copie d’apprendistato. Perduto l’amore, Camille si ritrova sola e disperata. Inizia a bere. Combatte con difficoltà economiche sempre più grandi, a cui non riesce a tenere fronte, priva di mezzi e di commissioni, isolata da una famiglia ostile, completamente abbandonata, reietta agli occhi di una società che la discrimina, disconosciuta da un ambiente artistico che le volta le spalle dopo averle spalancato le porte. Morto il padre, e passata una settimana, la madre firma la sua condanna a vita nell’inferno dei folli ed è perduta per sempre: tradotta a forza il 10 marzo 1913 nel manicomio di Montdevergues, non conoscerà più la libertà, sepolta viva per trent’anni, fino alla morte, avvenuta in una Francia assediata dall’occupazione tedesca nell’inverno del 1943. E le sue mani smetteranno di scolpire per sempre. Scriveranno solo parole che, a distanza di tanti anni, stringono il cuore di chi legge e che, allora, non trovarono le risposte che chiedevano: vita, libertà, amore. In una lettera al suo amico e mercante Blot, Camille nel 1935 descrive così la sua vita: “… un romanzo… un’epopea come l’Iliade e l’Odissea. Ci vorrebbe Omero per raccontarla, sono caduta dentro un baratro, vivo in uno strano mondo… dal sogno che è stata la mia vita, ora è rimasto solo l’incubo…” – “… da cosa deriva tanta ferocia umana… prometto che mai più recherò scandalo a voi, perché sono troppo desiderosa di riprendere una vita normale… non farei più nulla di disdicevole perché ho troppo sofferto”. Negli anni Ottanta la sua figura, ormai dimenticata, a parte l’attenzione di qualche raro studioso, fu riportata alla luce dalle attente e appassionate ricerche di una pronipote ventenne, Reine-Marie Paris. Catturata dal fascino di alcune sculture, che quasi distrattamente adornavano il salotto del nonno Paul Claudel, la nipote divenne ed è tuttora la sua biografa, ricercatrice e curatrice di tutte le iniziative che la riguardano. Raccontò in seguito: “cercando per la mia tesi di laurea dettagli su mia zia, si scatenò un silenzio imbarazzante… Camille mi apparve come un personaggio “maledetto” all’interno della famiglia, che volle per decenni cadesse un oblio totale e una censura vera e propria”. Scopo della vita di Reine divenne da allora l’impegno di riabilitare agli occhi del mondo il genio della zia, dichiarando: “… il mio sogno, il mio progetto futuro sono quelli di creare un museo autonomo di Camille Claudel… perché questo lei merita”.

Articolo ripreso da:  https://rebstein.wordpress.com/2014/02/07/la-doppia-passione-di-camille-claudel/


Lettera a Paul, 3 marzo 1930