Ripropongo un testo di Giorgio Vasta scritto per il programma di sala di Bestie di scena di Emma Dante. Lo spettacolo è stato in programma nei maggiori teatri italiani.
Bestie di scena di Emma Dante: il discorso dello sguardo
di Giorgio VastaQuando siamo entrati in sala – più o meno qualche minuto fa – Bestie di scena era già lì.
Nel senso che abbiamo raggiunto il teatro, abbiamo pagato il biglietto, abbiamo lasciato giacche e cappotti al guardaroba e siamo entrati nella sala che poco a poco si va riempiendo; alla ricerca del nostro posto, abbiamo visto che attori e attrici in maglietta e pantaloni percorrevano il palco da una parte all’altra. Il training che precede lo spettacolo, ci siamo detti, un allenamento che però di solito avviene dietro le quinte (dunque, abbiamo pensato, siamo entrati in qualcosa dove le soglie che di solito distinguono il prima dal durante e dal dopo sono rarefatte se non del tutto cancellate).
Intanto abbiamo trovato il nostro posto. Avere un posto, il proprio, individuato da una lettera e da un numero, è una cosa definita dal codice che regola la nostra presenza in questo luogo. Eppure, se ci pensiamo, non è una questione da poco: avere un posto assegnato è una garanzia, ed è un modo specifico di conoscere lo spazio. Noi siamo gli spettatori, quelli che tramite una transazione economica si sono conquistati il diritto di abitare la platea dove a breve sarà possibile assistere a quanto accade in scena.
A tutto ciò ovviamente non pensiamo perché non ce n’è ragione: e allora ci sediamo, osserviamo le figure sul palco, ci guardiamo intorno, magari facciamo qualche cenno di saluto, scambiamo due parole con chi ci sta accanto, torniamo a guardare i corpi; poi le luci declinano – disattiviamo i cellulari: le luci si spengono. Ancora qualche colpo di tosse e lo spettacolo – che è già cominciato – comincia.
A questo punto succede una cosa. Ricorrente, ma allo stesso tempo particolare. Mentre gli attori continuano a percorrere la scena cerchiamo un ultimo assestamento provando a prendere una posizione comoda; solo che, se anche le poltroncine su cui siamo seduti sono confortevoli, non riusciamo a trovarla.
Per riconoscere l’ipersensibilità di una pelle aristocratica, la regina della favola di Hans Christian Andersen, fatta accomodare la principessa in cima a una montagna di materassi guanciali e cuscini, colloca sotto tutti quegli strati un pisello; quando il mattino dopo domanda alla ragazza com’è trascorsa la notte, lei risponde di non essere riuscita a chiudere occhio perché ha continuato a sentire sotto il suo corpo qualcosa di fastidioso.
L’equivalente del legume fiabesco – o del classico sassolino nella scarpa (o, considerato il contesto in cui ci troviamo, di un’eventuale molla rotta sotto il tessuto della poltroncina: ciò che mette in crisi – in maniera lieve, certo, ma perdurante – il modo in cui stiamo nello spazio) – è il nostro sguardo. Lo strumento che normalmente usiamo per decifrare le cose, si rivela all’improvviso un ingombro. È come trovarsi nel paradosso descritto da Franz Kafka in un suo frammento: «Il proprio osso frontale gli taglia la strada, egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare».
Bestie di scena è appena iniziato e la prima cosa che succede è che andiamo a sbattere contro i nostri occhi.
Vale allora la pena domandarsi come agisca Bestie di scena su questo aspetto immateriale e decisivo che coincide con il nostro sguardo (in un certo senso lo sguardo è – come la voce e la scrittura – una parte del nostro corpo, a tutti gli effetti nostra, specifica, individuale e individuata, ma paradossale, essendo una parte del corpo strutturalmente immateriale).
Mpalermu, 2001, è l’esordio teatrale di Emma Dante. Si racconta la storia dei cinque componenti della famiglia Carollo e dei loro legami, dell’intenzione dichiarata di uscire di casa, di una soglia che non viene mai varcata. Fin dall’inizio – gli attori in schiera che si rivolgono al pubblico – ricorre una battuta: «E tu chi ci talii?»; ovvero, traducendo dal dialetto (e smarrendo nella traduzione la quota di aggressività intrinseca alla domanda): «Che cos’hai da guardare?»
È un’espressione recuperata dal parlato comune di Palermo. Una città in cui, tutt’altro che incorporeo, lo sguardo è un solido carico di materia, ed è un’azione, un comportamento che ha a che fare col conflitto. Nel senso che in una città come Palermo guardare – se anche chi guarda non ne è consapevole perché sta solo osservando distrattamente qualcosa o qualcuno – può venire percepito come una provocazione, la sfida alla quale è inconcepibile sottrarsi, una distrazione a cui si deve rispondere con la distruzione. Assistendo a Mpalermu ci si rende conto che se all’inizio «E tu chi ci talii?» sta ancora in un contesto logico, poco a poco si configura come una specie di tic, fissazione, o meglio fissità: una domanda fossile che minaccia ogni possibile risposta.
Fin dalle origini del teatro di Emma Dante lo sguardo è dunque un rischio e un pericolo (e forse lo sguardo in teatro è sempre a nostro rischio e pericolo). È il legame e l’impossibilità del legame. Quando in Bestie di scena i quattordici attori si denudano trasformandosi in corpi, si collocano in schiera sul proscenio e prendono a fissarci, ha inizio l’avventura dello sguardo. Del guardare e dell’essere guardati. Un’avventura che subito ci innervosisce perché non sappiamo bene cosa fare. In teoria di fronte a noi c’è pochissimo – nessuna scenografia, nessun costume, neppure una battuta da ascoltare – eppure questo poco è troppo.
Appena ci si materializzano davanti seni e genitali, lo sguardo vagabonda veloce da un focolaio all’altro, irretito dalla visibilità di ciò che di norma è interdetto, euforico e attonito; è come se i nostri occhi prendessero a balbettare. Solo che questo non si fa. Non possiamo lasciare che il nostro sguardo se ne vada in giro selvatico, non siamo mica dei voyeur, è vero che lo sguardo è istinto ma è anche cultura, e siccome siamo a teatro, e a teatro ci si comporta bene, anche lo sguardo deve comportarsi bene, e così proviamo a controllarlo e teniamo a bada anche la postura, il respiro, la mimica facciale. Ci diamo un tono. E lo stesso non basta.
Perché proprio adesso, quando forse stiamo riuscendo a tenere buono il nostro sguardo, ci rendiamo conto che Bestie di scena a sua volta ci guarda. Anzi, ci vede. Facendoci sentire scoperti (tanto nell’accezione di denudati che di rivelati). È una conseguenza del modo in cui quei corpi che si affacciano dal proscenio ci stanno davanti. Quei corpi hanno (e sono) uno sguardo. Ci fissano uno per uno, individuandoci, minacciandoci («E tu chi ci talii?»), e allo stesso tempo ci scavalcano, vanno oltre le nostre teste conficcandosi da qualche parte nel buio. Ci prendono di mira e insieme ci abbandonano. Soprattutto, lasciandoci avvertire la loro pena, ci fanno sentire in colpa. Il turbamento che ci assale è allora lo stesso di quando sentiamo di avere deluso qualcuno senza però sapere bene in che cosa consiste il nostro torto. Sappiamo solo che qualcosa di irreparabile è accaduto, e che di quel male siamo i responsabili: siamo l’oggetto di una delusione.
L’inizio di Bestie di scena è la creazione. Dovrebbe seguire l’Eden, ma non c’è perché ai «creati» di Emma Dante tocca fare subito i conti con la cacciata. Un’espulsione capovolta, a ruoli invertiti: i creati vorrebbero andarsene via ma vengono continuamente respinti dentro il loro paradiso minore; nessun connotato drammatico – il braccio teso di un angelo armato che indica la direzione in cui allontanarsi – bensì lo stato tragicomico di chi non riuscendo a fuggire trascorre il tempo in un inesauribile andirivieni tra curiosità e traumi, scoppi, paure, azioni reiterate (asciugare, spazzare), fino a quando tra il tentativo di andarsene e l’abitare non c’è più nessuna differenza. A risaltare, allora, è il nesso tra presenza e vergogna, più esattamente tra coscienza della propria presenza e conseguente coscienza della propria vergogna. In Masaccio, Eva copre seno e pube, Adamo copre il volto, reagendo a un disagio che la nudità rivela ma che trascende la nudità in sé: il disagio di esserci, di doverci essere (l’imbarazzo di essere umani). Le bestie di scena sono sempre in fuga ma fuggono dentro un rettangolo nero a sua volta circondato dal nero: nessuna via d’uscita, nessun esito che rompa l’equilibrio. Alla fine la sensazione è che l’unico luogo in cui le bestie di scena possono stare – male, maldestramente, scivolando e rompendosi di continuo – sia proprio la fuga.
Ecco allora cosa c’è in quegli sguardi.
Intrappolati nel teatro da soma immaginato per loro da Emma Dante – un’immaginazione in cui, della regista palermitana, si avverte il temperamento, l’intemperanza, l’ironia e un’infinita tenerezza per il destino di quei corpi –, alle bestie di scena non resta altro che fissarci con un’espressione in cui non c’è conoscenza, tanto meno consapevolezza, un’espressione densamente vuota, lungimirante e ottusa, originaria e postuma come quella dell’asino-santo Balthazar nel film di Robert Bresson, che allo stesso tempo inaugura e conclude: una preghiera animale, assoluta, ancestrale, muta non perché abbia volontariamente scelto il silenzio ma perché non le è dato di accedere alla parola.
Se tentassimo di dare lo stesso una forma linguistica a quella tensione, se volessimo tradurla in frasi e senso, il discorso di quello sguardo potrebbe essere qualcosa come:
Tu, lì, che cerchi e non trovi una posizione comoda, sei lo spettatore, e tu, spettatore, mi hai fatto del male, per nessun’altra ragione se non per il fatto di essere chi sei; percepirai pure, adesso, lo sguardo pesarti negli occhi (del resto sei qui per questo: per mettere in crisi il tuo sguardo), ma se anche ti senti turbato ricordati sempre che te ne stai nella tua poltroncina, nel tuo posto assegnato, insieme ai tuoi compagni, uno accanto all’altro, compatti, radunati a testuggine, protetti in platea dal semibuio. Io invece sono l’attore, e a me tocca stare qui, nella scena nera, all’inizio e alla fine di tutto, a vagabondare in uno spazio senza posto (io, l’attore, non ho mai il mio posto), qualcosa di cui non solo io ma nessuno sa niente, dove potrebbe accadere di tutto (e di tutto è accaduto e ancora continuerà ad accadere), e dunque, per queste ragioni, io non posso che esserti ostile, spettatore; non, come potresti pensare, perché tra la mia e la tua esperienza c’è uno scarto irriducibile, ma proprio perché tra me e te non c’è nessuna differenza, eppure io sono qui e tu sei lì. A te è concesso il privilegio – tra poco, quando le luci si riaccenderanno – di prendere congedo e andare via: io invece da questo rettangolo nero non posso andarmene perché io qui ci vivo. Ogni spettacolo non fa che ribadire l’impossibilità della mia fuga. Tutto ciò – quello che sono, dove sono, quello che faccio, come lo faccio – riguarda te. Accade in tua funzione.
Io, l’attore, servo a questo: a concederti l’illusione che tu, solo spostandoti da un posto assegnato a un altro posto assegnato, possa davvero tornare a casa. Avere luogo. Io servo a farti immaginare che a separare me da te sia una soglia certa, e che l’andirivieni, la vulnerabilità, il fallimento, il tragicomico, l’ambiguità siano ciò che mi è toccato in sorte e non il modo in cui tu, io, tutti esistiamo. Io dunque ammetto qualcosa che tu neghi. Ma tu vieni qui – perché sei curioso e vuoi capire se ancora una volta riuscirai a farla franca (nonostante dentro di te ci sia anche il desiderio, almeno per una volta, di non farla franca) – e mi guardi, e ti fai guardare, perché ti piace immaginare che le cose stiano in un altro modo. Ti sta bene trascorrere un po’ di tempo nel gioco del teatro sapendo che a un certo punto potrai andartene. Stai tranquillo, è quanto succederà a breve; in quel momento – questo è il mio consiglio – non voltarti; perché osservandoti lasciare la sala, la schiena che oscilla piano nella conversazione con chi ti sta a fianco (commentami, spettatore, commentami), io, il corpo dell’attore che non smette mai di naufragare in scena, ti starò odiando (c’è però una cosa che vorrei proporti, ma lo faccio piano, sottovoce, tra parentesi: tra poco, dopo che le luci si saranno accese, invece di girarti per lasciare la sala dallo stesso varco attraverso cui sei entrato, vieni avanti, sali sul palco, percorri lo spazio, vieni a vedere che cosa c’è qui: esci entrando in scena; raggiungimi: non per consolarmi – non te lo chiedo e in ogni caso non è possibile – ma solo per capire se il tuo posto, qui, riesci ancora a trovarlo; questo è quanto ti propongo, e nel farlo so già che non accadrà: attenderai che le luci si accendano e te ne andrai via).
Il mio unico conforto è sapere che quando fuori di qui ti starai dirigendo verso casa ti verrà il dubbio (e al suo interno, mescolati, ci saranno panico ed euforia) che in realtà tra me e te non c’è nessuno scarto: siamo entrambi bestie di scena. Il tuo basto è il tuo stesso sguardo, mentre il mio ce l’ho sotto i piedi, sopra la testa e tutt’intorno – ed è il teatro.
Le bestie di scena sono ciò che siamo. C’erano prima del nostro arrivo, persisteranno tenaci sul palco quando ce ne saremo andati. Per questo, nel momento in cui usciamo dalla sala Bestie di scena è ancora lì. Non è ancora finito: non può finire mai.
Giorgio Vasta
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