Mario Giro è stato viceministro
degli Esteri prima con Renzi e poi con Gentiloni, ma non è però affatto un
politico di sinistra. Borghesissimo di famiglia, viene dalla Comunità di
Sant'Egidio. Con Monti (del cui governo era stato consulente al seguito di
Ricciardi) si candidò al Parlamento (senza peraltro essere eletto). Il
viceministro lo ha fatto in quota ai centristi di Alfano. Ha perfino un
fratello senatore con Berlusconi.
E tuttavia il bilancio delle
politiche statunitensi sull'immigrazione al confine meridionale, fatto
all'incirca una anno fa (giugno 2017) sulla scorta di un articolo di Vargas
Llosa sul “Pais”, mi pare corretto: esse sono un fallimento su tutta la linea
se ancora oggi, dopo lo scandalo dei bambini in gabbia al confine tra gli Usa e
il Messico, si può leggere sulla stampa che gli arrivi non calano. Anche la
proposta finale di Giro, rivolta all'Europa, mi pare ragionevole.
Si può – da sinistra - cominciare a
dire ai lavoratori europei che l'esistenza (non solo in Italia) di un ampio
mercato del “lavoro in nero”, senza diritti e tutele, è tra le prime cause
della loro debolezza contrattuale, sia collettiva che individuale? Si può
cominciare a dire che il proibizionismo migratorio, con le sue conseguenze di
illegalità e clandestinità, è un danno pesantissimo per il lavoro? (S.L.L.)
Usa – Messico. I muri fanno ricche le mafie
Mario Giro
Più muri si fanno e meglio funziona
il traffico di esseri umani tra Usa e Messico. Lo testimonia un lungo articolo
sul “Paìs” del premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, liberale di
centro-destra, non certo sospettabile di essere ideologicamente orientato in
favore dei migranti.
Vargas riporta testimonianze dirette
di vari coyotes, gli “scafisti” messicani legati ai narcos, quelli che
organizzano i trasporti sul “treno della morte” o che per soldi guidano i
disperati d’America Latina attraverso il confine Usa. Il ragionamento è
semplice: più il muro con il Messico si rafforza (sono vari anni che è in
costruzione, non lo ha inventato Trump), e più i prezzi salgono, assieme alle
sofferenze e alle perdite di coloro che vogliono passare. Affari d’oro per gli smugglers.
C’è anche una seconda conseguenza: più diventa difficile – apparentemente –
passare, e più aumentano i candidati. Si teme che la chiusura blocchi tutto e
quindi si parte in massa, o si anticipa la partenza. Pare che i narcos
facciano allarmismo su questo, con l’obiettivo di aumentare i guadagni.
Le maniere per “burlare”, come si
dice da quelle parti, il muro sono infinite: catapulte, trampolini, nascondigli
nei treni, auto, camion, piccoli aerei, barche o sommergibili, ma soprattutto i
tunnel. Tra il 1990 e il 2016 la polizia ne ha scoperti 224. Chissà quanti
sono… Secondo Vargas «con l’aumento della persecuzione e delle proibizioni, il
commercio (di esseri umani) invece di decadere, prospera». Il muro
nord-americano non preoccupa i cartelli, anzi a loro conviene: possono
aumentare i prezzi per i passaggi e nel contempo si inseriscono negli appalti
della sua costruzione. In quelle zone malfamate del Messico, le imprese note e
legali non si avventurano con piacere. Un altro effetto collaterale della
politica migratoria restrittiva degli Usa è l’aumento improvviso delle rimesse:
28 miliardi di dollari quest’anno per il solo Messico. Sei messicani su dieci
inviano soldi a casa ed ora lo fanno di più, per paura che i flussi vengano
interrotti o per timore di venire cacciati. Alla fine diviene un’emorragia
inutile per gli Stati Uniti.
L’assenza di canali legali per
entrare a lavorare negli Usa ha fatto nascere negli anni una vera economia
parallela, tutta nelle mani delle mafie locali e dei narcos. Più aumenta
l’ossessione anti-immigrati, e più i cartelli si arricchiscono. L’economia
americana ha assoluto bisogno di braccia, ma le istituzioni e l’establishment
non vogliono riconoscerlo. La sanatoria voluta da Bush jr fu respinta dal suo
stesso partito. Nemmeno Obama è riuscito nell’impresa. Mettendo la testa sotto
la sabbia, si lascia fare ad un mercato del lavoro totalmente in nero. Decine
di milioni di latino-americani e di altri stranieri lavorano negli Stati Uniti
“grazie” alle mafie che li fanno arrivare, li distribuiscono e li sfruttano. In
Europa sarebbe bene riflettere sulla tale situazione, per non commettere lo
stesso errore.
Oggi, alla frontiera con il Messico,
sono numerosi gli edifici addossati alla linea di confine da cui partono i
tunnel, scavati in cantina con tutta calma e rifatti ogni volta che serve. Il
traffico rende talmente tanto da permettere ai mafiosi di offrire salari più
alti di quelli ufficiali a poliziotti, doganieri o ferrovieri, tutti parte
della rete. Quando il presidente messicano Felipe Calderon dichiarò guerra ai narcos,
le vittime furono moltissime ma il transito non cessò. Tutti sanno che vengono
utilizzati i medesimi canali dello smercio della droga, vecchio di decenni e con
possenti complicità dall’altra parte. Così accade anche per le persone: il pull
factor in questo caso è rappresentato dalle reti di manodopera clandestina
che viene offerta sul mercato Usa. Così come in Italia, anche su tale frontiera
i “caporali” dettano legge e si mettono d’accordo con i coyotes.
Può uno Stato permettere che le
mafie controllino la propria frontiera ed una parte importante del proprio
mercato del lavoro? La riposta è chiaramente no. Se le varie “guerre” non hanno
funzionato e se i muri non servono, che fare allora? Anche in questo caso la
risposta è altrettanto chiara: riaprire i canali legali, rilegalizzare
l’immigrazione. Visto che c’è bisogno di lavoratori, meglio l’apertura
trasparente per ripristinare la legalità, piuttosto che questa lurida economia
sommersa. Come spesso accade, la politica proibizionista non paga, ingrassa
solo le mafie.
Pagina 99, 16 giugno 2017
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