L'insegnamento di una
grande intellettuale. Come mettere l'Europa in condizione di superare
le rovine della guerra e delle dittature? Simone Weil non aveva dubbi:
si deve costruire una Europa nuova, unita, democratica e solidale.
Una lettura attualissima.
Roberto Esposito
Se Simone Weil avesse
fatto l’Europa
Mai come in questi mesi, in cui perfino l’esistenza dell’unità europea appare in discussione, un’analisi limpida sulle radici della sua crisi appare ineludibile. Tanto più se iniziata in anni ben più tragici, come quelli in cui su mezza Europa sventolava ancora la croce uncinata nazista. Mi riferisco alla riflessione, intensa e febbrile, sulla ricostruzione materiale e spirituale dell’Europa condotta da Simone Weil nei primi mesi del 1943, quando comincia a delinearsi la sconfitta di Hitler.
Già esule a Marsiglia
per sfuggire alla persecuzione nazista, Simone, dopo una breve
permanenza a New York, implora i capi della Resistenza francese di
accoglierla in Inghilterra con parole che sembrano provenire da un
altro mondo: «La supplico – scrive a Maurice Schumann, portavoce
di De Gaulle – di procurarmi la quantità di sofferenze e di
pericolo necessari a impedirmi di consumarmi sterilmente nella
tristezza».
L’unica scelta,
personale e politica, che le sembra degna è la partecipazione in
prima persona alla battaglia in corso in Europa anche al prezzo della
morte. Così, già stremata nel corpo e nell’anima, il 26 novembre
del 1942 sbarca a Liverpool. Ricoverata nell’aprile successivo in
ospedale, muore – o si lasca morire – il 24 agosto nel Sanatorium
di Ashford, nel Kent. Eppure le bastano quei pochi mesi – impiegata
come redattrice dei servizi di France Combattante – per
produrre una serie impressionante di proposte, progetti, scritti di
straordinaria energia intellettuale, orientati à pensare il futuro
dell’Europa, una volta liberata dall’artiglio nazista.
Essi sono adesso raccolti nell’importante volume di Castelvecchi Una costituzione per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito. Già l’idea, mai realizzata, di paracadutare sulla linea del fronte un gruppo di infermiere per soccorrere i feriti dà il senso della radicalità del suo punto di vista: solo un estremo coraggio volto al bene può battere quello, volto al male, delle truppe tedesche.
Ma ciò che conta è la
necessità di dar vita a nuove istituzioni capaci di fronteggiare la
crisi di civiltà che ha portato l’Europa sull’orlo
dell’autodistruzione. Perché la malattia mortale che ha investito
il continente europeo – fermata sulle rive della Manica solo dalla
resistenza eroica dell’Inghilterra – è nata nelle sue stesse
viscere. Ma se ciò è vero, non basterà la vittoria militare e la
spartizione del mondo che ne seguirà a rimettere sui cardini una
storia irreversibilmente interrotta dal diffondersi della peste
bruna. Né la brutale dittatura sovietica né la potenza tecnica
americana riusciranno a ricostruire l’Europa in macerie in assenza
di un ripensamento globale su quanto è accaduto.
Proprio la Francia
sconfitta e umiliata – la Weil scrive prima dello sbarco degli
Alleati in Normandia – è il luogo da cui l’Occidente può
trovare la spinta per ripartire. Solo chi ha conosciuto il dolore dei
vinti può progettare il futuro con un atteggiamento non fondato sul
prestigio della forza. È un insegnamento – richiamato nelle
intense pagine che Giancarlo Gaeta le dedica in Leggere Simone
Weil, appena edito da Quodlibet – da non lasciare cadere neanche
oggi.
La sconfitta, con tutte
le tragedie che comporta, ha in sé una potenza costituente che a
volte manca alla vittoria. Perciò è dalla sconfitta, prima che
diventi vittoria, che bisogna ripensare le istituzioni a venire. A
partire da una nuova fonte di legittimità, che non può che essere
una rinnovata idea di giustizia. Se si rileggono le Riflessioni
sulla rivolta, le Idee essenziali per una nuova Costituzione, ma
soprattutto la Dichiarazione degli obblighi verso l’essere
umano, tutti contenuti nel volume citato, si coglie l’entità della
svolta reclamata dalla Weil. E anche la sua estraneità ai paradigmi
circolanti negli ambienti intellettuali del tempo.
Senza fermarsi sulla Nota sulla soppressione generale dei partiti politici – che sembra anticipare qualcosa che si va realizzando solo oggi con conseguenze tutt’altro che rassicuranti – ciò che colpisce è il contrasto con le idee del fronte progressista del tempo. Negli stessi anni in cui Jacques Maritain scrive il suo manifesto sui diritti dell’uomo e la legge naturale, Simone Weil sposta l’accento sugli obblighi.
La sua tesi è che se si
parte dalla rivendicazione di diritti – come ha poi fatto la
cultura di sinistra postbellica – si resta dentro il lessico della
contrattazione, effettuale solo se ha dietro di sé una forza capace
di imporla. Se invece si rovescia l’ottica, partendo dai doveri
verso ogni essere umano, si entra in un orizzonte diverso, governato
non da altro che dalla Giustizia.
Allora soltanto, secondo
Simone, potrà nascere una nuova civiltà morale in cui si darà il
primato ai bisogni dell’essere umano. Bisogni del corpo –
nutrimento, calore, sonno, igiene, aria pura. E bisogni dell’anima
– verità, libertà, intimità, ma anche radicamento in un ambiente
necessario alla vita.
Gli uomini hanno bisogno
di progettare il proprio futuro, ma non possono fabbricare, secondo
l’interesse del momento, il passato. È quanto ha tentato di fare
il nazismo, sostituendo il passato reale con un altro inventato ad
arte, funzionale alla soppressione e alla schiavizzazione. Il
riferimento al passato è necessario a costruire il futuro perché la
sua perdita produce l’inaridimento dello spirito e l’avanzata del
deserto. Siamo sicuro che questo rischio sia solo alle nostre spalle?
La Repubblica – 9
aprile 2018
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