09 giugno 2018

SE L'EUROPA FOSSE STATA FATTA DA S. WEIL



L'insegnamento di una grande intellettuale. Come mettere l'Europa in condizione di superare le rovine della guerra e delle dittature? Simone Weil non aveva dubbi: si deve costruire una Europa nuova, unita, democratica e solidale. Una lettura attualissima.
Roberto Esposito
Se Simone Weil avesse fatto l’Europa

Mai come in questi mesi, in cui perfino l’esistenza dell’unità europea appare in discussione, un’analisi limpida sulle radici della sua crisi appare ineludibile. Tanto più se iniziata in anni ben più tragici, come quelli in cui su mezza Europa sventolava ancora la croce uncinata nazista. Mi riferisco alla riflessione, intensa e febbrile, sulla ricostruzione materiale e spirituale dell’Europa condotta da Simone Weil nei primi mesi del 1943, quando comincia a delinearsi la sconfitta di Hitler.
Già esule a Marsiglia per sfuggire alla persecuzione nazista, Simone, dopo una breve permanenza a New York, implora i capi della Resistenza francese di accoglierla in Inghilterra con parole che sembrano provenire da un altro mondo: «La supplico – scrive a Maurice Schumann, portavoce di De Gaulle – di procurarmi la quantità di sofferenze e di pericolo necessari a impedirmi di consumarmi sterilmente nella tristezza».
L’unica scelta, personale e politica, che le sembra degna è la partecipazione in prima persona alla battaglia in corso in Europa anche al prezzo della morte. Così, già stremata nel corpo e nell’anima, il 26 novembre del 1942 sbarca a Liverpool. Ricoverata nell’aprile successivo in ospedale, muore – o si lasca morire – il 24 agosto nel Sanatorium di Ashford, nel Kent. Eppure le bastano quei pochi mesi – impiegata come redattrice dei servizi di France Combattante – per produrre una serie impressionante di proposte, progetti, scritti di straordinaria energia intellettuale, orientati à pensare il futuro dell’Europa, una volta liberata dall’artiglio nazista.

Essi sono adesso raccolti nell’importante volume di Castelvecchi Una costituzione per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito. Già l’idea, mai realizzata, di paracadutare sulla linea del fronte un gruppo di infermiere per soccorrere i feriti dà il senso della radicalità del suo punto di vista: solo un estremo coraggio volto al bene può battere quello, volto al male, delle truppe tedesche.
Ma ciò che conta è la necessità di dar vita a nuove istituzioni capaci di fronteggiare la crisi di civiltà che ha portato l’Europa sull’orlo dell’autodistruzione. Perché la malattia mortale che ha investito il continente europeo – fermata sulle rive della Manica solo dalla resistenza eroica dell’Inghilterra – è nata nelle sue stesse viscere. Ma se ciò è vero, non basterà la vittoria militare e la spartizione del mondo che ne seguirà a rimettere sui cardini una storia irreversibilmente interrotta dal diffondersi della peste bruna. Né la brutale dittatura sovietica né la potenza tecnica americana riusciranno a ricostruire l’Europa in macerie in assenza di un ripensamento globale su quanto è accaduto.
Proprio la Francia sconfitta e umiliata – la Weil scrive prima dello sbarco degli Alleati in Normandia – è il luogo da cui l’Occidente può trovare la spinta per ripartire. Solo chi ha conosciuto il dolore dei vinti può progettare il futuro con un atteggiamento non fondato sul prestigio della forza. È un insegnamento – richiamato nelle intense pagine che Giancarlo Gaeta le dedica in Leggere Simone Weil, appena edito da Quodlibet – da non lasciare cadere neanche oggi.
La sconfitta, con tutte le tragedie che comporta, ha in sé una potenza costituente che a volte manca alla vittoria. Perciò è dalla sconfitta, prima che diventi vittoria, che bisogna ripensare le istituzioni a venire. A partire da una nuova fonte di legittimità, che non può che essere una rinnovata idea di giustizia. Se si rileggono le Riflessioni sulla rivolta, le Idee essenziali per una nuova Costituzione, ma soprattutto la Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, tutti contenuti nel volume citato, si coglie l’entità della svolta reclamata dalla Weil. E anche la sua estraneità ai paradigmi circolanti negli ambienti intellettuali del tempo.

Senza fermarsi sulla Nota sulla soppressione generale dei partiti politici – che sembra anticipare qualcosa che si va realizzando solo oggi con conseguenze tutt’altro che rassicuranti – ciò che colpisce è il contrasto con le idee del fronte progressista del tempo. Negli stessi anni in cui Jacques Maritain scrive il suo manifesto sui diritti dell’uomo e la legge naturale, Simone Weil sposta l’accento sugli obblighi.
La sua tesi è che se si parte dalla rivendicazione di diritti – come ha poi fatto la cultura di sinistra postbellica – si resta dentro il lessico della contrattazione, effettuale solo se ha dietro di sé una forza capace di imporla. Se invece si rovescia l’ottica, partendo dai doveri verso ogni essere umano, si entra in un orizzonte diverso, governato non da altro che dalla Giustizia.
Allora soltanto, secondo Simone, potrà nascere una nuova civiltà morale in cui si darà il primato ai bisogni dell’essere umano. Bisogni del corpo – nutrimento, calore, sonno, igiene, aria pura. E bisogni dell’anima – verità, libertà, intimità, ma anche radicamento in un ambiente necessario alla vita.
Gli uomini hanno bisogno di progettare il proprio futuro, ma non possono fabbricare, secondo l’interesse del momento, il passato. È quanto ha tentato di fare il nazismo, sostituendo il passato reale con un altro inventato ad arte, funzionale alla soppressione e alla schiavizzazione. Il riferimento al passato è necessario a costruire il futuro perché la sua perdita produce l’inaridimento dello spirito e l’avanzata del deserto. Siamo sicuro che questo rischio sia solo alle nostre spalle?
La Repubblica – 9 aprile 2018

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