La doppia passione di Camille Claudel
Nel 1888 Camille Claudel espone, al Salon des Artistes Français, “Sakountala” (L’abbandono),
forse l’opera più bella, più intensa e carica di pathos che abbia mai
realizzato. Ritrae l’amore tra Sakountala, figlia adottiva di un
eremita, e il principe Douchanta. Si tratta di una leggenda indiana del V
secolo, tragica seppure a lieto fine, poiché i due si uniscono in
matrimonio con un antico rito nuziale, ma quando il principe ritorna al
suo castello per sortilegio si scorda di lei, che ha tenuto con sé il
suo anello come pegno d’amore. Sakountala
decide di andare al castello per rammentargli il loro amore, in virtù
dell’anello, ma questo le scivola nel fiume e va perduto. Lo ritrova un
pescatore che lo riporta al principe, il quale ricordando all’improvviso
ogni cosa corre dalla sua amata Sakountala che, nel frattempo, aveva
partorito il figlio concepito la notte delle nozze. Douchanta riconosce
il bimbo come figlio suo, riabbraccia l’amata, e con loro rientra felice
al castello.
L’opera non fu soltanto esposta,
ricevette anche la Menzione d’Onore. Impossibile non provare sentimenti
di identificazione con queste figure che, al di là della loro perfezione
e bellezza, sono una vera e propria autobiografia scultorea. Quasi una
prefigurazione. Tutti i movimenti dell’animo umano si materializzano
nelle opere di Camille Claudel, come il catalogo di un’esistenza: la
sensualità, il desiderio, i languori dell’amore, la gioia, la
determinazione, ma anche gli inganni della vita, l’umiliazione e la
voglia di riscatto, la disillusione, la rabbia, la disperazione. Il
vortice delle passioni e la totale negazione in cui la morte risucchia
tutto e tutti, il senso straordinario del movimento e la sua tensione
interiore, trasudano dalle sue sculture, mostrando in questa alchimia la
“vera” Camille: l’ultimo mito, come viene spontaneo definire un’artista
la cui vita è stata una perenne lotta per affermare, senza compromessi,
le sue due passioni, e contro ogni convenzione della morale borghese
dell’epoca: l’arte realizzata da una donna e l’amore, clandestino, per
un uomo: Rodin. Sepolta viva per trent’anni, abbandonata da tutti,
lasciata marcire tra i folli, per non turbare i sonni tranquilli e
borghesi di una famiglia prestigiosa. Ridotta al silenzio e
all’inoperatività per non offuscare la memoria di un grande artista di
Francia. Uscita dalle mura del manicomio soltanto per finire nella fossa
comune di un cimitero, neppure una pietra a ricordarne nome e dignità
all’esistenza. Una fama d’artista riconosciuta solo dopo la morte, dopo
settant’anni di oblio, caso unico nell’arte del Novecento, secolo che ha
visto l’emancipazione femminile e l’ammissione del ruolo sociale delle
donne. Tutto questo è Camille Claudel. Artista grande, donna coraggiosa e
appassionata, figlia di un’epoca che non ha saputo vederne i meriti e
le indubbie qualità. Un’epoca in cui l’indipendenza e la vita bohémienne
erano rifiutate alle donne, viste come spose sottomesse o come cocottes
decorative, strumenti sempre disponibili al piacere maschile. Camille,
donna passionale, scelse un lavoro “da uomo” e visse l’arte senza mai
separarla dall’esistenza più intima, dal suo essere delicatamente
femminile. Artista moderna fino in fondo, anticipò i tempi – e i modi di
fare arte, già espressionistici – nel periodo in cui l’esordiente
Picasso poteva affermare, con sferzante misoginia, che “le donne o erano
muse o zerbini”. Camille ha pagato con trent’anni d’inferno, e la
rinuncia alla sua arte, il fatto di essere contemporaneamente donna e
artista. Una manciata di anni, quelli felici, in cui nel mondo maschile –
e maschilista – dell’arte seppe farsi strada, riuscendo a esporre le
sue opere al Salon. Nascere nell’Ottocento (nel 1864 a
Villeneuve-sur-Fère, nella regione della Champagne) in una famiglia
borghese di provincia, pretendere una vita libera, scegliere le proprie
passioni e assecondarle, è già un atto rivoluzionario: a dodici anni
Camille modellava l’argilla e aveva iniziato ad assimilare, dalla
cospicua biblioteca paterna, una cultura sicuramente eccezionale per
l’epoca: raro per un uomo, quasi impensabile per una donna. Dopo il
trasferimento della famiglia a Parigi, ad appena 17 anni, Camille si
iscrive all’Accademia Colarossi, l’unica scuola cosmopolita, alternativa
all’Accademia delle Belle Arti riservata solo agli uomini, che propone
invece la stessa classe e l’identica tariffa per i due sessi. Boucher,
scultore di buon livello, la segue nei suoi progressi. Tre anni dopo, il
maestro deve momentaneamente lasciare la sua allieva per un
soggiorno-premio in Italia e chiede ad Auguste Rodin di sostituirlo
nell’insegnamento, raccomandandogli in particolar modo Camille. Rodin è
un uomo di 42 anni, dall’aspetto forte e tarchiato, capelli chiari e
barba rossiccia, naso importante, occhi da miope, vivissimi e attenti.
Camille è nel pieno del suo splendore, come testimoniano le foto del
tempo: ha il viso regolare, la bocca carnosa, gli occhi d’intenso
azzurro, una fronte superba, lo sguardo fiero, lunghissimi capelli
castani e il corpo ben proporzionato, flessuoso.
Il suo periodo di studentessa è
brevissimo: l’agenda di lavoro di Rodin, da subito, è piena di
appuntamenti con Camille, nell’atelier dove posa come modella per colui
che diventa ben presto suo maestro e uomo della vita, e dove poi lavora
come unica collaboratrice. Sono gli anni in cui l’artista riceve
importanti commissioni pubbliche dallo stato francese e l’usufrutto di
un grande studio, dove portare a compimento alcune opere di grandi
proporzioni, tra cui la Porta dell’Inferno e I borghesi di Calais.
Ha bisogno di assistenti e capisce subito che il talento di Camille è
prezioso. Dirà di lei: “le ho insegnato a scoprire l’oro dentro la
materia, ma l’oro era dentro di lei”. Da parte sua, Camille si dà a lui
totalmente, assecondando in ogni modo i suoi desideri, anche i più
folli. Inizia così fra i due un profondo legame amoroso e professionale.
Le mani e i piedi delle grandi opere di Rodin vengono realizzate in
quegli anni proprio da lei. Compito delicato e di altissimo valore
artistico, come riconobbe lo stesso Delacroix che sentenziò: “E’ dai
piedi e dalle mani che si riconosce un grande artista”.
L’unione con Rodin si traduce in una
consonanza stilistica che apparenta le opere realizzate da entrambi, ma
se appare che Rodin “avvolga” i corpi, Camille “fonde” addirittura gli
animi. La sensualità di Rodin si materializza con la potenza dei corpi,
quella di Camille, invece, è nell’eterno movimento delle forme. Ancora
giovanissima, Camille sa essere impermeabile all’emulazione verso colui
che, se non ancora grandissimo e consacrato dall’Esposizione Universale
di Parigi del 1900, appare già sulla scena come un artista importante e
carismatico. E anche in questo si vede un’intraprendenza, un bisogno di
indipendenza, una forza di carattere non comuni in una giovane donna,
ambiziosa e consapevole del proprio valore: Camille partecipa a circoli
culturali, tiene personalmente i contatti con compratori e galleristi,
cerca di ottenere commesse pubbliche. Tenta in tutti i modi di mettersi
in vista e di brillare di luce propria, confidando per questo alle
amiche di lavorare instancabilmente “come un uomo”.
Nel 1886 Rodin le rinnova in una
lettera il suo impegno amoroso e professionale e stipula un singolare
contratto con lei, appena ventiduenne, in cui dichiara: “ti proteggerò e
ti introdurrò nella cerchia di amici potenti… ed eleverò le tue
capacità artistiche”, impegnandosi inoltre a concretizzare il loro
rapporto affettivo, lasciando l’attuale convivente e promettendole
addirittura di sposarla. Ma Rodin non lascerà mai Rose Beuret, la
“sartina di bell’aspetto” che a 18 anni era diventata la sua modella
preferita e che gli aveva anche dato un figlio (di quasi due anni più
giovane di Camille). La passione per Camille e la fusione dei loro
intelletti creativi è sempre viva, tanto che in quell’anno Rodin le
scrive ancora: “…tu che mi dai dei godimenti così elevati, così ardenti,
vicino a te, mia anima, nel furore dell’amore mantengo sempre il
rispetto per la tua persona e per il tuo carattere, mia Camille, non mi
trattare senza pietà, io ti chiedo così poco…”. Ma le parole ardenti non
colmano quel “vuoto” che Camille dichiara di provare in una lettera a
un’amica: “C’è sempre qualche cosa di assente che mi tormenta…”. Nei
carteggi ritrovati lei esprime senza sosta la volontà di esistere e di
contare, la sua modernità di donna e di artista che non rifulge
pienamente, avvolta come è nel “cono d’ombra” di Rodin. Egli affitta per
loro una dimora in rovina, una villa con giardino selvatico dove
avevano già abitato George Sand e Alfred de Musset, al tempo della loro
storia d’amore. La famiglia Claudel finge d’ignorare per lungo tempo
l’amore e la convivenza di Camille e Rodin: una situazione, in quei
tempi, scandalosa per una ragazza di “buona famiglia”. Rodin intanto
diventa sempre più celebre, nel 1887 ottiene la Legion d’onore, la
massima onorificenza francese. Camille, nel frattempo, scolpisce i suoi
capolavori e insieme a Rodin frequenta i grandi pittori Impressionisti.
Per qualche tempo è felice. Lavora ed è amata. Durante la relazione
Camille rimane incinta, ma interrompe la gravidanza. Quanto questo
aborto abbia influito emotivamente sulla loro storia non si sa, ma alla
soglia dei trent’anni, la relazione di Camille con Rodin comincia a
franare. Molte sono state le ipotesi sulle cause di questa crisi, anche
se non rimane documentazione che racconti perché Camille e Rodin si
lasciarono. Lei credeva in una possibile, definitiva unione, forse per
liberarsi completamente dai sotterfugi e dalle ipocrisie che aveva
dovuto subire nel corso degli anni a causa dell’illegalità. Rodin, pur
amandola e sostenendola nella sua vocazione, nel 1892 rifiuta di
sposarla e questa sembra l’ovvia ragione della fine del loro legame
artistico e sentimentale, che andò sempre più allentandosi, pur tuttavia
senza interrompersi definitivamente, tanto che egli aiutò Camille in
svariate occasioni. Ma la rottura è inevitabile. Camille e Auguste si
incontrano all’inaugurazione di una mostra, tornano di quando in quando a
scriversi ma non entrano più l’uno nello studio dell’altra. Nel 1893
Camille rompe ogni rapporto, affitta uno studio-abitazione e realizza
per conto suo alcune sculture assai importanti. In seguito alla rottura
il forte temperamento di Camille cede. Aveva voluto seguire la sua
vocazione d’artista, aveva amato fuori dagli schemi prestabiliti e ora, a
trent’anni, tutto crolla intorno a lei: vita e professione artistica.
Aveva sfidato convenzioni e pregiudizi per ritrovarsi sola, delusa, non
abbastanza stimata e considerata, come avrebbe voluto essere
assecondando il suo genio, allontanata dalla famiglia come una vergogna
da nascondere. Dopo Rodin, Camille incontra il giovane compositore
Claude Debussy. Non si sa se il loro fu un rapporto d’amore o
d’amicizia, ma Debussy, ancora sconosciuto, resta profondamente
impressionato dall’artista, e la frequenta per due anni, fino a quando
lei, probabilmente perché in fondo al cuore ancora legata a Rodin, ne
interrompe il corso. Numerose difficoltà finanziarie cominciano ad
affliggerla: essere scultori comporta spese ingenti per i materiali e
Camille non riesce a sostenerle, si trova in problemi economici per i
quali deve ricorrere all’aiuto del padre e del fratello. Scolpisce opere
di piccolo formato per ridurre il costo dei lavori. Un profondo rancore
verso Rodin le invade, come un’ombra, il cuore e la mente. Cominciano
le ossessioni: Rodin vuole impossessarsi dei suoi lavori, e lei ne
distrugge alcuni, Rodin la fa spiare dai suoi assistenti per rubarle le
idee, Rodin vuole ucciderla. l segnali di una grave forma di depressione
con manie di persecuzione, di una profonda sofferenza, del senso di un
abbandono totale e, probabilmente, della consapevolezza di aver donato
la sua Arte all’uomo che amava e di averla così perduta per sempre:
tutti gli esperti dell’opera di Rodin sanno che la sua maniera, negli
anni Ottanta, è contemporanea all’incontro con Camille. Più che
quarantenne Rodin, se fosse rimasto solo, si sarebbe probabilmente
evoluto verso un neo-michelangiolismo esasperato; improvvisamente,
invece, il suo lavoro si anima di una voce nuova, voce che, partita
Camille, si insabbia. Questa convivenza di passione e di creazione, in
due amanti che svolgono la stessa attività, operando insieme nei
medesimi luoghi e sui medesimi soggetti, conduce a un lavoro misto. Si è
detto di Camille che lavorava alla maniera di Rodin, così come c’è una
parte dell’opera di Rodin che fa eco a quella di Camille. Il numero
delle opere firmate da Camille durante il periodo di lavoro con Rodin è
limitato, mentre tutti i testimoni la descrivono come una lavoratrice
accanita sulla produzione di opere di grande qualità, non certo di copie
d’apprendistato. Perduto l’amore, Camille si ritrova sola e disperata.
Inizia a bere. Combatte con difficoltà economiche sempre più grandi, a
cui non riesce a tenere fronte, priva di mezzi e di commissioni, isolata
da una famiglia ostile, completamente abbandonata, reietta agli occhi
di una società che la discrimina, disconosciuta da un ambiente artistico
che le volta le spalle dopo averle spalancato le porte. Morto il padre,
e passata una settimana, la madre firma la sua condanna a vita
nell’inferno dei folli ed è perduta per sempre: tradotta a forza il 10
marzo 1913 nel manicomio di Montdevergues, non conoscerà più la libertà,
sepolta viva per trent’anni, fino alla morte, avvenuta in una Francia
assediata dall’occupazione tedesca nell’inverno del 1943. E le sue mani
smetteranno di scolpire per sempre. Scriveranno solo parole che, a
distanza di tanti anni, stringono il cuore di chi legge e che, allora,
non trovarono le risposte che chiedevano: vita, libertà, amore. In una
lettera al suo amico e mercante Blot, Camille nel 1935 descrive così la
sua vita: “… un romanzo… un’epopea come l’Iliade e l’Odissea. Ci
vorrebbe Omero per raccontarla, sono caduta dentro un baratro, vivo in
uno strano mondo… dal sogno che è stata la mia vita, ora è rimasto solo
l’incubo…” – “… da cosa deriva tanta ferocia umana… prometto che mai più
recherò scandalo a voi, perché sono troppo desiderosa di riprendere una
vita normale… non farei più nulla di disdicevole perché ho troppo
sofferto”. Negli anni Ottanta la sua figura, ormai dimenticata, a parte
l’attenzione di qualche raro studioso, fu riportata alla luce dalle
attente e appassionate ricerche di una pronipote ventenne, Reine-Marie
Paris. Catturata dal fascino di alcune sculture, che quasi
distrattamente adornavano il salotto del nonno Paul Claudel, la nipote
divenne ed è tuttora la sua biografa, ricercatrice e curatrice di tutte
le iniziative che la riguardano. Raccontò in seguito: “cercando per la
mia tesi di laurea dettagli su mia zia, si scatenò un silenzio
imbarazzante… Camille mi apparve come un personaggio “maledetto”
all’interno della famiglia, che volle per decenni cadesse un oblio
totale e una censura vera e propria”. Scopo della vita di Reine divenne
da allora l’impegno di riabilitare agli occhi del mondo il genio della
zia, dichiarando: “… il mio sogno, il mio progetto futuro sono quelli di
creare un museo autonomo di Camille Claudel… perché questo lei merita”.
Articolo ripreso da: https://rebstein.wordpress.com/2014/02/07/la-doppia-passione-di-camille-claudel/
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