“Tutti hanno
ragione. Nessuno ha la ragione”, ci ricordava qualche giorno fa un
caro amico. Ci è venuto in mente leggendo questo articolo, a nostro
parere la cosa più bella sulla Palestina pubblicata negli ultimi
tempi.
Yaniv Iczkovits
Il dono del Tikkun che
salverà Gaza. L’arte di riparare il mondo
Mio nonno, Moshe Iczkovits, non era registrato nelle liste dei tedeschi, eppure salì su un trasporto diretto ad Auschwitz. Salì sul treno della morte per seguire la sua amata, senza poter immaginare quale sorte li aspettava. All’arrivo mio nonno era destinato a morire, ma un medico del campo di Auschwitz ebbe pietà di lui e modificò il numero che aveva sul braccio. Fu così che mio nonno si salvò e fu spedito in un campo di lavoro.
Dopo la guerra, quando
tornò alla cittadina dov’era cresciuto, si rese conto di non poter
restare oltre nella terra dove era nato. Il suo Paese l’aveva
tradito. Israele rappresentò il suo tikkun, la sua riparazione.
Quando nacqui
all’ospedale Soroka di Beersheva, negli anni Settanta, insieme a me
erano nati altri bambini, arabi, figli di persone del posto, a cui il
nonno raccontò una storia del tutto diversa. Vivevano in paesi e
città della Palestina, finché un giorno scoppiò la guerra e furono
costretti ad abbandonare le loro case. Alcuni raccontano di essere
scappati per paura, altri che gli ebrei li cacciarono dalle loro
abitazioni. Comunque sia andata, il giusto tikkun ottenuto dagli
ebrei con la fondazione dello Stato di Israele significò la
catastrofe per molti figli di questa terra.
Il tikkun di un uomo è
la catastrofe di un altro e ancora oggi non si è trovata la
riparazione per questa parte del mondo. Noi israeliani abbiamo
imparato a convivere con il conflitto come si convive con un tumore.
Periodicamente ricominciamo l’ennesimo aggressivo ciclo di sedute
di chemioterapia, da terra o dall’aria, ma ogni volta il tumore
colpisce un’altra parte del corpo.
Un tempo c’erano
infiltrazioni dalla Striscia di Gaza, e abbiamo costruito le
recinzioni. Poi è stata la volta dei missili Qassam, e ci siamo
riparati sotto una Cupola di Ferro. Dopodiché hanno scavato i tunnel
e noi abbiamo levato una barriera. Adesso è la volta degli aquiloni
che incendiano i nostri campi. Forse inventeremo il frumento che non
brucia. Chi lo sa come andrà a finire. Per quanto noi possiamo
inventare e perfezionare, nessun tikkun arriverà. Le due parti sono
troppo occupate a fare paragoni e discutere di chi ha sofferto di più
e a quali privilegi questo gli dà diritto.
Nel corso degli anni, i politici hanno tentato di disegnare mappe, definire linee di confine e firmare accordi parziali. Nessuno si occupa più di ciò che costituisce il cuore del conflitto: il dolore dei due popoli. Si tratta di un ottimo esempio di completo fraintendimento del concetto di tikkun: questa terra non richiede mappe, bensì una consapevolezza condivisa. Non un coinvolgimento internazionale, ma fiducia. Non unilateralità, collaborazione.
L’ultimo romanzo che ho
scritto («Tikkun o la vendetta di Mende Speismann per mano della
sorella Fanny») viene a rammentarci che il tikkun nell’anima di un
uomo, o nello spirito di un popolo, non può avvenire se non si
rovista nelle ferite. Il tikkun richiede di superare i confini, di
uscire dalla zona di comfort. Ci costringe a fare qualcosa che non
abbiamo mai fatto. Ci obbliga a riconoscere quello che abbiamo sempre
cercato di dimenticare. Ci invita a raccontarci una storia diversa da
quella a cui siamo abituati.
È questa la grande forza della letteratura. Mentre la realtà produce giustificazioni e spiegazioni su quanto avvenuto, su cosa bisogna fare e come bisogna reagire, la letteratura esige attenzione. La realtà ci incanala subito verso la nostra visione, la letteratura impone di cancellare i confini. Mi ricordo un giorno, ero impegnato come riservista nella Striscia di Gaza e mi trovavo a un posto di blocco a osservare «i miei nemici» attraverso un binocolo. D’un tratto nel cortile di una delle case ho visto un papà di Gaza giocare a calcio con i figli e le figlie.
Ricordo di essere rimasto stupefatto di fronte a quel quadretto così banale. I miei occhi non erano avvezzi a scene simili. Le mie orecchie non erano abituate a udire scoppi di risa dall’altra parte. Sono rimasto a fissare per ore quella famiglia che nemmeno sapeva di essere osservata, come se si trattasse di un miracolo. È questo che succede quando le persone sono rinchiuse nei loro confini. La comprensione basilare, naturale, dell’umanità dell’altra parte, diventa quasi impossibile.
Ecco, oggi sia da parte
degli israeliani sia da parte dei palestinesi non avvengono molti
miracoli, e le barriere si fanno sempre più alte. Eppure alla base
di tutto, volendo essere ottimisti per un momento, sia nella storia
israeliana sia nella storia palestinese ci sono dolore e giustizia.
Le storie sono lì, aspettano qualcuno che faccia il primo passo e
attraversi il confine. Per quanto la soluzione del conflitto sembri
impossibile da un punto di vista diplomatico e storico, per quanto la
sicurezza paia irraggiungibile. Alla fine due persone, un palestinese
e un israeliano, si troveranno una di fronte all’altra, alzeranno
gli occhi dalle mappe, si guarderanno negli occhi e diranno: noi
vogliamo la riparazione, vogliamo il tikkun.
(Traduzione di Raffaella Scardi)
il Corriere della sera –
14 giugno 2018
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