ANTONIO GRAMSCI E PIERO SRAFFA NELLA BUFERA DEL 900
Un libro appena pubblicato smantella la tesi secondo cui l’economista sarebbe stato un agente dell’Urss e del PCI togliattiano per controllare un Gramsci in dissenso con il partito.
L’amicizia fra
due intellettuali della grandezza di Antonio Gramsci e Piero Sraffa coinvolge
un tale spettro di temi e copre una tale quantità di quadranti da essere – di
per sé – più che degna di attenzione. Si tratta di un rapporto i cui contorni
iniziarono a emergere pubblicamente con la seconda edizione (1965) delle
Lettere dal carcere e che fu poi meglio definito nel Colloquio con Piero Sraffa
pubblicato da Paolo Spriano su «Rinascita» nel 1967.
I lavori che da allora hanno descritto l’intensità del rapporto tra i due non hanno trascurato di mostrare quanto il loro sodalizio fosse segnato da una peculiare tensione etica e da una condivisione di idealità civili amplificate e rese dolorose dalla prigionia di Gramsci. Né le ricostruzioni hanno tralasciato di descrivere l’influenza intellettuale che l’uno ebbe sull’altro.
Ma se queste caratteristiche appaiono perfettamente immaginabili considerata la luminosità dei due, è lo sfondo politico dei vent’anni nei quali maturò la loro frequentazione (1919-1937) ad aver generato spiegazioni avventate, spesso costruite su ambiguità linguistiche, parole approssimativamente decontestualizzate, torsioni ideologiche che sono divenute pratica storiografica.
Il libro che Giancarlo de Vivo dedica ora a due giganti del pensiero del XX secolo, con una riflessione sugli innesti delle idee gramsciane nel lavoro di Sraffa, è anche un atto di filologica pietas. Per farlo, l’autore ricorre all’evidenza ricavabile dalle carte che Sraffa donò al Trinity College di Cambridge. Si tratta – nota de Vivo – di documenti mai usati sistematicamente per leggere le circostanze del rapporto Gramsci-Sraffa.
Un rapporto nato a Torino nel 1919 all’ombra della collaborazione del ventunenne Sraffa all’«Ordine Nuovo» di Gramsci e che non conobbe poi soluzioni di continuità. L’amicizia fu dapprima composta di frequentazioni continue tra Torino e Roma, e quindi mediata da uno scambio epistolare diretto o per il tramite di Tatiana Schucht, cognata del fondatore del partito comunista, che trascriveva per Sraffa le lettere ricevute dal carcere e viceversa.
Fu Sraffa – almeno fino al 1932 – il collegamento fra il prigioniero e il Pci, poiché a lui era affidato il compito di recapitare al centro del partito a Parigi le copie delle lettere di Gramsci a Tatiana. E fu Sraffa il consigliere legale che aiutò a predisporre le istanze presentate al governo fascista, motivate dalle declinanti condizioni di salute del leader sardo. Tra esse anche la domanda di espatrio in Unione Sovietica, presentata quando Gramsci era in vista della liberazione.
Il principale equivoco analitico che questo lavoro contribuisce a smantellare (in questo confermando quanto si legge nella bellissima biografia che Angelo d’Orsi ha recentemente dedicato a Gramsci) deve la sua fortuna alla supposta collaborazione che Sraffa avrebbe intrattenuto con i servizi segreti sovietici. Un certo seguito ha, infatti, ricevuto l’interpretazione secondo la quale il grande economista sarebbe stato una spia usata dai sovietici e dal “duplice” Togliatti per controllare il geniale ma eterodosso intellettuale comunista.
Lo sfondo ideologico su cui quest’ipotesi inconsistente ha attecchito affonda il suo credito nell’idea che l’indipendenza politica e culturale che Gramsci maturò rispetto al gruppo dirigente del Pci potesse essere così fastidiosa per il Pcus e per Togliatti da alimentare il tradimento dell’amicizia da parte di Sraffa, il quale, dunque, sarebbe stato manipolato fino a diventare una sorta di controllore delle attività di Gramsci per conto di Mosca.
Le idee di Gramsci si svilupparono e cambiarono significativamente già nei primi anni di prigionia, ma se ciò motivò un disallineamento del partito dal suo fondatore in cattività, non causò invece alcun distacco (né tantomeno il tradimento della fiducia) tra Sraffa e l’amico.
De Vivo spiega con passione le vicende editoriali della pubblicazione delle Lettere di Gramsci: una storia conosciuta, ma mai affrontata dall’angolazione dell’economista voluto a Cambridge da Keynes. Una storia dalla quale si possono ricavare utili spunti su quanto sia stata (e sia) faticosa la ricostruzione filologica di quell’opera, ma che – come questo libro spiega con intelligenza – difficilmente può essere utilizzata per piegare il ruolo di Sraffa, o fraintendere la sua lealtà.
Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Castelvecchi
Articolo ripreso da Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2018
________________________________________________________P.S. Riprendo dal mio diario Facebook la cortese replica del prof. Franco Lo Piparo:
Franco Lo Piparo: Caro Francesco, grazie per l’attenzione che porgi ai miei
lavori su Gramsci. Tanto onore mi sembra eccessivo e immeritato. Mi sembra
anche eccessivo il titolo che hai voluto aggiungere alla recensione sul «Sole»
del libro di de Vivo: «Nuovi documenti e un libro smantellano le fantasie di
Franco Lo Piparo». Né nel titolo né nel corpo della recensione il nome Lo
Piparo compare mai. Salvo che io non abbia letto male.
Il problema è serio e va al di là delle tue ossessioni che io rispetto.
Che posso dirti? In questa sede solo due cose.
(1) L’argomento non può essere trattato in uno scambio di battute su FB. Grazie comunque per avere sollevato anche in questa sede il problema. Ti invito a organizzare dove vuoi un dibattito pubblico dove, con serenità e con la dovuta attenzione filologica, possiamo mettere a confronto i nostri rispettivi punti di vista. Discutere fa sempre bene e, chi lo sa, magari o tu o io alla fine possiamo modificare o riformulare meglio l’idea da cui eravamo partiti. A questo serve discutere.
(2) Io sono un ammiratore di Piero Sraffa. Dovrai sapere che ho dedicato un libro al ruolo che a mio parere ha svolto Sraffa nel trasmettere a Wittgenstein idee gramsciane sulle quali è costruito uno dei classici della filosofia del linguaggio del Novecento, le «Ricerche filosofiche». L’idea non è mia ma di Amartya Sen. Ho dato solo contenuto a quella che in Sen era solo una intuizione suggerita dalle numerose conversazioni che aveva avuto a Cambridge con Sraffa. Il libro, lo dovresti sapere, è «Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere», Donzelli 2014.
Ancora grazie e un caro saluto.
Il problema è serio e va al di là delle tue ossessioni che io rispetto.
Che posso dirti? In questa sede solo due cose.
(1) L’argomento non può essere trattato in uno scambio di battute su FB. Grazie comunque per avere sollevato anche in questa sede il problema. Ti invito a organizzare dove vuoi un dibattito pubblico dove, con serenità e con la dovuta attenzione filologica, possiamo mettere a confronto i nostri rispettivi punti di vista. Discutere fa sempre bene e, chi lo sa, magari o tu o io alla fine possiamo modificare o riformulare meglio l’idea da cui eravamo partiti. A questo serve discutere.
(2) Io sono un ammiratore di Piero Sraffa. Dovrai sapere che ho dedicato un libro al ruolo che a mio parere ha svolto Sraffa nel trasmettere a Wittgenstein idee gramsciane sulle quali è costruito uno dei classici della filosofia del linguaggio del Novecento, le «Ricerche filosofiche». L’idea non è mia ma di Amartya Sen. Ho dato solo contenuto a quella che in Sen era solo una intuizione suggerita dalle numerose conversazioni che aveva avuto a Cambridge con Sraffa. Il libro, lo dovresti sapere, è «Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere», Donzelli 2014.
Ancora grazie e un caro saluto.
Francesco Virga: Accolgo con piacere
il tuo invito, caro Franco. L'incontro potremmo farlo nel prossimo autunno. La
sede e il moderatore individuali tu. Naturalmente ho letto il tuo ultimo libro.
E tra quelli che hai scritto, negli ultimi anni, è quello che ho apprezzato di
più. Cosa vuoi, poi? Ognuno di noi ha le proprie ossessioni! Ma le mie non mi
hanno mai impedito di riconoscere il merito storico che ti spetta di aver
contribuito in Italia a riaprire il dibattito su un pensatore di cui non si
occupava più nessuno.
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