24 giugno 2018

LA STORIA DEI MARRANI raccontata da D. DI CESARE


Nel 1492 in Spagna si decretò l’espulsione o la conversione forzata degli ebrei. Costretti a ripudiare la fede, molti vissero scissi fra un cattolicesimo di facciata e il mantenimento in segreto delle antiche tradizioni. Un libro ricostruisce la storia drammatica dei Marrani.

Remo Bodei

Quelle anime in esilio

Nel 1096, in occasione dell’imminente partenza dei cristiani per le Crociate, gli ebrei renani, in particolare quelli di Magonza, furono uccisi «come animali da macello» per aver rifiutato di convertirsi. Anche in altri luoghi e occasioni, accettando il martirio, molti, morendo, «santificarono il Nome». Non così, sostanzialmente, accadde nella Spagna e nei suoi domini (compresa l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna). Infatti, dopo che nel gennaio del 1492 venne decretata la cacciata degli ebrei o, in alternativa, la loro conversione forzata, piuttosto che essere costretti all’emigrazione o al martirio, una parte consistente di loro preferì la conservazione della vita, insinuando così il dubbio sul valore di una verità testimoniata dalla morte.

Per necessità molti accettarono, dunque, formalmente il cristianesimo, pur conservando in segreto la loro fede. Avendo perso nel tempo ogni rapporto con l’ebraismo militante, i suoi insegnamenti e i suoi rituali, la religiosità di coloro che venivano popolarmente chiamati marrani (o, nel linguaggio ufficiale, «nuovi cristiani» o «conversi») finì per diventare sempre più «atrofizzata» e legata a una memoria che si assottigliava e si frammentava di generazione in generazione.
    Il Decreto di espulsione

Il loro si trasformò in un «ebraismo per sottrazione», che conservava la speranza del ritorno alla religione dei padri e aveva il suo punto di riferimento in Ester, «simbolo umile e insieme potente del ritorno»che aveva persuaso Assuero a desistere dall’annientamento del popolo ebraico.

La condizione di questi ebrei rinnegati, che vivevano nella «cripta» di un esilio interiore, era precaria ed esposta al pericolo di rivelare la loro condizione. Per questo esercitarono il virtuosismo dell’autocontrollo, aiutati nelle loro tribolazioni dalla speranza di un ritorno alla fede degli avi, qualora le circostanze diventassero favorevoli (cosa che accadrà in città come Ferrara, Venezia, Ancona, Livorno, Amsterdam o Anversa). Come sostiene Donatella Di Cesare, la loro era «una identità lacerata, tragicamente scissa fra due apparenze inconciliabili: una esteriore e ufficiale, l’altra intima e nascosta». Non erano più ebrei, ma nemmeno cristiani. Per i primi, rappresentavano dei traditori, per i secondi, individui essenzialmente inaffidabili. Non erano però «né eroi né martiri».

Traditori di due fedi, diventarono con il tempo inassimilabili rispetto a ogni rigido sistema di credenze, a ogni fondamentalismo. In questo senso, essi rappresentano gli esponenti di una modernità dissonante, scissa, non conciliata o armoniosa: «I marrani portano con sé il seme del dubbio, il fermento dell’opposizione. Dissidenti per necessità, danno avvio a un pensiero radicale». In essi «si frantuma il mito dell’identità», sono scissi in se stessi, provvisti di un «sé duale». Se l’ebreo è l’altro, il marrano è, appunto, «l’altro dell’altro».

Inutilmente gli spagnoli tentarono di assimilarlo con la forza, ponendolo di fronte all’alternativa di essere inglobato nello Stato nazione o di esserne espulso, dichiarato nemico. Non riuscendo a penetrare nel suo intimo, inventarono la prima forma di razzismo, quella che chiedeva ai propri cittadini la limpieza de sangre, poiché sospettavano che l’acqua del battesimo non avesse cancellato nei marrani la loro alterità.
    Ferdinando e Isabella

Tra i conversos e i loro discendenti s’incontrano per noi gli opposti: Tomás de Torquemada, il primo Grande Inquisitore dell’Inquisizione spagnola è accanto a Teresa d’Avila, proclamata da Paolo VI dottore della Chiesa nel 1970.

Della granitica fede cattolica di Torquemada è difficile dubitare, mentre nella mistica di Teresa e, soprattutto, nel suo Castello interiore, è ben presente la tradizione marrana del sottrarre l’io a ogni unità monolitica, del considerarlo ignoto e inaccessibile anche a se stesso, del custodire il segreto: «l’altro abita nel sé, il sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te stesso [...] è grazie alla separazione che l’anima può ospitare, può far posto all’infinito. Questa è la scoperta delle Indie di Dio». Pur nel suo geometrico razionalismo, anche Baruch Spinoza, di famiglia marrana portoghese, sottoposto all’herem, alla scomunica da parte della comunità ebraica, rivendica nel Trattato teologico-politico il diritto al segreto quando formula l’idea di una libertà per cui non si può prescrivere a nessuno cosa sia vero.

Il marranismo non è finito, segue un percorso carsico che non si può cancellare e che sottende un segreto così profondo da sfuggire agli stessi interessati. Derrida, scherzando, ma non troppo, ha dichiarato negli ultimi anni della sua vita di essersi sempre più spesso sentito come un marrano a causa della «ricerca clandestina di un segreto più grande e più vecchio di me».

In situazioni più angosciose, il marranismo riaffiora nel Novecento, specie all’avvento del Terzo Reich, quando diversi ebrei, al pari di Husserl o Edith Stein, si convertirono al cristianesimo: «Certo è sconcertante che, dopo aver in tutti i modi costretto gli ebrei a integrarsi nella cristianità, a fondersi con il corpo politico della nazione, una volta che siano assimilati, simili al punto da non essere più riconoscibili, si proceda a una rinnovata discriminazione basata sul sangue e consacrata dalle leggi statali».

Il volume di Donatella Di Cesare, con il suo terso e incalzante stile, scopre e illustra con acume una storia ritenuta erroneamente minore o esaurita, ma che ha, invece, una considerevole incidenza sulla genesi della coscienza moderna: «Nella notte della clandestinità, in assenza di ogni testimone storico, i marrani testimoniano il segreto in una esasperata anacronia, una disperata resistenza al tempo del calendario dominante, lottando nell’attesa per una controstoria che, da quel segreto, avrebbe potuto riprendere”.
    Rogo di ebrei

Eppure i marrani, sebbene più numerosi e sottoposti a condizionamenti più drammatici, non sono i soli nella modernità a essere obbligati a fingere per sopravvivere. A prescindere dai libertini, per i quali vale il motto Intus ut libet, foris ut mos est, qualcosa di simile accadde a quanti, per sfuggire all’assolutismo e all’Inquisizione, furono indotti alla «dissimulazione onesta», di cui parla Torquato Accetto nel 1641 (è significativo il fatto che Benedetto Croce facesse ristampare nel 1928, in pieno fascismo, il Della dissimulazione onesta per lasciare una via d’uscita al dilemma tra l’acquiescenza completa al regime e il suo frontale ripudio).

Se, come dice Accetto, «non è permesso di sospirare quando il tiranno non lascia respirare», allora non resta altra possibilità che far mostra di un’esteriore obbedienza per resistere alle vessazioni dell’«ingiusta potenzia». Sarebbe riduttivo (e riporterebbe a un arcaico cliché ermeneutico) considerare il fenomeno della dissimulazione sotto il profilo puramente moralistico.

Presupponendo, infatti, un ideale metastorico di autenticità nelle relazioni tra gli uomini, si finirebbe per infliggere ai soggetti agenti un’esplicita censura, quasi avessero arbitrariamente deciso di complicarsi la vita. Si dimentica così non solo che la «dissimulazione onesta» viene concepita quale ombra che mette in risalto la luce e dà «riposo al vero», ma anche quale forma di resistenza razionale e creativa all’oppressione di un potere che cominciava allora a infiltrarsi direttamente nelle coscienze (anche per colmare il vuoto di egemonia interiore lasciato dagli scismi teologici e dalle guerre di religione che allora dissanguavano l’Europa).


Il Sole 24 Ore – 10 giugno 2018

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