Una riunione del Gruppo 63. Dalla sinistra Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Furio Colombo, Alberto Arbasino
Una rievocazione degli antecedenti, del contesto e delle vicende del gruppo 63, ma anche molto di più. Un articolo che, mettendo felicemente insieme cronaca e giudizio critico, partecipazione e distanza, ricostruisce organicamente un passaggio importante nella storia della cultura italiana. Un testo da leggere, rileggere e tenere a mente. (S.L.L.)
Gruppo 63. Quando in Padania c'era l'Illuminismo e la letteratura aveva i suoi pirati
Umberto Eco
In principio fu il Verri.
Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956, a Milano, quando Anceschi
mi ha telefonato. Io lo conoscevo di fama, ma cosa poteva sapere lui
di me? Che mi ero laureato da meno di due anni, lavoravo alla Rai e
stavo frequentando giovani poeti come Luciano Erba e Bartolo Cattafi.
Voleva dare vita a una
rivista e non cercava nomi famosi (li aveva già), ma intendeva
mettere insieme dei giovani, affinché parlassero tra loro. Rievocavo
un giorno l'episodio con un collega universitario, e gli domandavo:
«Ma uno di noi, oggi, con tutte le grane che ha già, gli dicono che
c'è in città un giovane che si è laureato in un'altra università,
andremmo a cercarlo per fargli fare qualcosa?». L'altro mi aveva
risposto: «Ma ci barricheremmo in casa staccando il telefono!».
Anceschi non si barricava mai. Mi introdusse ai misteri del Blu Bar
di Piazza Meda, dove in una saletta tutti i sabati verso le sei
arrivavano, a chiacchierare di letteratura, Montale, Gatto, Sereni,
Ferrata, Dorfles, Paci, qualche scrittore di passaggio. Carlo Bo
dominava la scena coi suoi silenzi omerici.
Noi giovanissimi abbiamo
contribuito a una lenta trasformazione del clima. Ci passavamo le
poesie dei futuri Novissimi, Glauco Cambon ci dava in lettura i
dattiloscritti dei suoi primi saggi su Joyce, Giuseppe Guglielmi ci
leggeva i versi che poi avrebbe pubblicato sul primo Verri, dove
rievocava una lei che recava su un piatto di Sèvres «anifructus
brunito per la cena». Il Verri stava per pubblicare una poesia che
parlava di merda, sia pure in latino. Nel Verri, dal 1956 in avanti
troviamo poesie di Giuseppe Guglielmi, Erba, Cattafi e Giuliani,
Sereni accanto a Balestrini (due generazioni a confronto), Risi,
Pasolini, Antonio Porta che si firmava ancora Leo Paolazzi. C'erano
antologie di nuovi poeti americani, francesi (appare Yves Bonnefoy),
tedeschi (Paul Celan, Hollerer, Ingeborg Bachmann), russi e spagnoli,
racconti di Pontiggia e Calvino. Saggi su Pound, Dylan Thomas,
Wallace Stevens, testi di Robbe-Grillet, e Giuliani dava subito
notizia del Laborintus di Sanguineti. Ma Sanguineti si
occupava di Dante, Montale rileggeva Gozzano, Fausto Curi rileggeva
Govoni, veniva riservata un'attenzione rispettosa alle Storie
Ferraresi di Bassani e al Gattopardo, a Luzi e alle Ceneri
di Gramsci di Pasolini.
Nel numero 1 del 1960
appare uno scritto di Barilli, in cui si regolano i conti con
Cassola, Pasolini e Testori, un saggio di Guglielmi in cui si apre a
Gadda, si salva Calvino, ma si conclude che Moravia e Pratolini
s'intestardiscono a fare gli uomini di qualità. Una nuova vis
polemica batte alle porte. Nello stesso periodo a Milano, ancora nel
1956, era stato fischiato Schonberg alla Scala. Alla prima di
Passaggio, con musica di Luciano Berio e testo di Edoardo
Sanguineti, nel 1962: il pubblico era così inviperito che, per
condannare questa cosa nuova e atroce, aveva gridato:
«centro-sinistra!». Allo Studio di Fonologia musicale della Rai,
diretto da Berio e Maderna, passavano a smanettare con i nuovi
strumenti elettronici Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Henry
Pousseur, ed era arrivato anche John Cage, le cui partiture (a metà
tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate
sull'Almanacco Bompiani 1962, su calcolatori elettronici e
arti - e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape
Mark I di Nanni Balestrini. Nel 1960 usciva finalmente in Italia
l'Ulisse di Joyce, ma prima ancora, proprio con Berio, Roberto
Leydi e Roberto Sanesi si componeva un evento musicale basato sulle
onomatopee del capitolo 11 dell'opera, Omaggio a Joyce - un
tentativo di capire i significati lavorando sui significanti.
Nel 1962 Bruno Munari
organizzava a Milano la prima mostra di arte cinetica e programmata,
e nel 1963 Eugenio Battisti faceva nascere a Genova il Marcatré,
magazzino di molte nuove esperienze. Molti di quei fermenti erano
espressione di un "illuminismo settentrionale", anche se a
questo clima appartenevano il siciliano Vittorini o il napoletano
Abbagnano, e la prima riunione del Gruppo 63 avviene a Palermo nel
corso di un festival musicale e teatrale di ampia apertura europea.
Ma non per caso Anceschi aveva intitolato a Verri la sua rivista,
così come anni prima Vittorini aveva preso a prestito il titolo del
suo Politecnico da Cattaneo. Il Verri nasceva in quella Milano in cui
le edizioni Rosa e Ballo avevano fatto conoscere i testi di Brecht,
Yeats, gli espressionisti tedeschi e il primo Joyce, Bompiani su
consiglio di Antonio Banfi, nella collana Idee Nuove, aveva
pubblicato testi filosofici che erano stati ignorati dalla cultura
idealistica, mentre da Torino Frassinelli ci aveva fatto conoscere
Melville, il Portrait joyciano, e Kafka. Già dagli anni
Cinquanta vi si leggevano Pound ed Eliot, da Bologna il Mulino ci
faceva conoscere attraverso La teoria della letteratura di
Wellek e Warren i formalisti russi e il New Criticism, l'Einaudi, la
Feltrinelli e poi il Saggiatore avrebbero tradotto Husserl, Merleau
Ponty, Jakobson o Wittgenstein.
Questi fermenti si
scontravano con la cultura ufficiale del Pci. Non la cultura
marxista, che accoglieva anche Geymonat o Galvano della Volpe, ma una
linea di partito che cercava di tradurre i dettami del realismo
socialista in termini di un nazional-popolare, non estraneo alle
esperienze del modernismo ma attento più ai contenuti che alle forme
(Guttuso, Pratolini, il primo Visconti, o le Ceneri di Gramsci di
Pasolini). Nascevano dibattiti su ortodossie e deviazionismi a
proposito del Metello di Pratolini o Senso di Visconti.
Grande gelo di fronte ai film di Antonioni, che qualcuno assolveva
solo perché mettevano in scena, sia pure sotto forma di drammi
privati, quella che allora si chiamava l' alienazione del mondo
capitalistico. Ma l'altro aspetto per cui la cultura ufficiale di
sinistra si trovava ostile all'illuminismo padano era che la
formazione culturale dei suoi quadri era ancora fondamentalmente
crociana e idealistica, mentre l'ambiente dell'illuminismo
settentrionale si caratterizzava per un rifiuto della cultura
crociana e della mitologia dell'intuizione lirica. Ricordiamo gli
sforzi fatti da Vittorini, già eretico sin dai tempi del Politecnico
(un altro richiamo all' illuminismo lombardo di Cattaneo) quando nel
1962 aveva operato la svolta storica del Menabò 5. Nel 1961
Vittorini aveva dedicato il Menabò 4 alla letteratura sul mondo
industriale, ma aveva deciso di dedicare il Menabò 5 alle nuove
tendenze linguistiche in un mondo dominato dalla tecnologia.
Vittorini proponeva prove narrative di Edoardo Sanguineti, Nanni
Filippini e Furio Colombo. Vi appariva anche un saggio,
apparentemente polemico, ma sotterraneamente complice, di Italo
Calvino (La sfida al labirinto), che allora mi aveva detto:
«Scusa, ma Vittorini ha ritenuto prudente che stendessi intorno a
voi un cordone sanitario». Caro e amabile Calvino che in futuro
avrebbe incrociato i suoi destini con quelli dei sentieri che si
biforcano e con gli sperimentalismi dell'Oulipo.
Insomma, i nuovi
scrittori, che ritenevano che l'impegno stesse nel linguaggio e non
nella tematica politicizzata, erano visti come mosche cocchiere del
neocapitalismo, anche se tra di loro vi erano molti schierati a
sinistra. Quando nel 1962 era uscito il mio Opera Aperta, su
“Paese Sera” si parafrasava un inciso di Montale (che si era
dimostrato sempre attento benché dubbioso lettore, incuriosito e
preoccupato dalle nuove esperienze): «Dite a quel giovane saggista
che apre e chiude le opere, quasi fossero usci, giochi di carte o
governi a sinistra, che andrà a finire in cattedra e che i suoi
alunni, imparando a tenersi informati su decine di riviste,
diventeranno così bravi da voler prendere il suo posto» (il che per
fortuna fu mirabile profezia, e non ho mai capito perché i miei
alunni non dovessero leggere decine di riviste). Su “Il Punto” si
parlava di un libro «che ha galvanizzato le più torpide
intelligenze critiche italiane». “L'Unità” avvertiva un
pericoloso ritorno al decadentismo, “Filmcritica”, allora di
ispirazione paleomarxista (ne era nume tutelare il futuro senatore
missino Armando Plebe) parlava di «opera aperta come opera assurda».
Sull' “Espresso”, ancora fortezza degli ultimi difensori
dell'intuizione lirica che si battevano come gli ultimi giapponesi
sulle isole del Pacifico, si affermava indignati che «le più
potenti perversioni del gusto avranno sempre dei soliti avvocati che
difendano le loro maggiori stravaganze». “Rinascita” intitolava
L' opera aperta musicale e i sofismi di Umberto Eco. L' Avanti
rilevava come «Eco stia a sostegno di pochi inesperti e modestissimi
narratori d'avanguardia». Sino a che un giorno è nata l'idea di
ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che
vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri
testi.
Di questo ha già parlato
ieri su questo giornale Nello Ajello e ha ricordato i riti
dell'incontro palermitano, dando anche un sapido schizzo della
società letteraria dell'epoca. Non è vero che non avessero fatto la
loro gita a Chiasso, per tornare all'allegoria arbasiniana, perché
Pavese aveva pur tradotto Moby Dick, Montale Billy Budd,
e Vittorini gli autori pubblicati in Americana. Ma è certo
che per la nostra generazione il mondo si era allargato. Non avevamo
bisogno di andare neppure a Chiasso, perché si andava e veniva da
Parigi e da Londra in aereo. Noi, nati intorno agli anni Trenta,
appartenevamo a una generazione fortunata. I nostri fratelli maggiori
erano stati distrutti dalla guerra, alcuni erano finiti a Coltano,
altri avevano sacrificato i loro anni migliori in montagna. I
sopravvissuti erano tornati a una vita normale con dieci anni di
ritardo.
Noi eravamo arrivati alla
liberazione e alla rinascita del paese consapevoli abbastanza per
aver capito quello che era accaduto, innocenti perché non avevamo
avuto il tempo di comprometterci, quando tutte le opportunità erano
aperte. Eravamo pronti a ogni rischio ma - diciamo la verità -
sapendo che non dovevamo pagar pegno. Non eravamo obbligati a
soffrire per conquiste impossibili, esprimevamo una nostra forma di
impudente gaiezza, e ciò faceva soffrire lo scrittore d'antan
che per definizione si voleva sofferente ed escluso. Non eravamo
giovani bohemien che vivevano in soffitta e davano la scalata
alle roccaforti del potere culturale. Ciascuno di noi aveva già
pubblicato uno o due libri, ed era ormai inserito nelle case
editrici, nei giornali, nella Rai, nell'università. Il Gruppo 63 non
ha rappresentato una rivolta dall'esterno ma dall'interno. Il Gruppo
63 irritava la cultura "impegnata" perché credeva più al
gesto rivoluzionario, quello dei futuristi che scandalizzavano i
buoni borghesi. Aveva ormai capito che questi gesti eversivi, nella
nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così
duttile e smaliziata da fagocitare ogni proposta di eversione
immettendola nel mercato culturale. L'eversione artistica non poteva
più assimilarsi all'eversione politica. Si tentava di aggiustare il
tiro, di spostare la polemica su obiettivi più radicali,
difficilmente immunizzabili, di cambiare i tempi e le tecniche di
guerra e soprattutto di anticipare o provocare, attraverso le
soluzioni dell'arte, una visione diversa della società in cui ci si
muoveva. Angelo Guglielmi, nel 1964, nel suo Avanguardia e
sperimentalismo aveva avvertito che, se l'avanguardia storica era
stata movimento di rottura violenta, diverso era lo sperimentalismo.
Se i futuristi, i dadaisti, i surrealisti erano stati avanguardia,
scrittori sperimentali erano stati invece Proust, Eliot o Joyce. La
maggior parte dei convenuti al convegno di Palermo 1963 stavano più
dalla parte dello sperimentalismo che da quello dell'avanguardia
storica. Per questo avevo allora parlato di una Generazione di
Nettuno, opposta a quella di Vulcano.
Non eravamo una banda di
corsari che dava l'assalto alla Maracaibo della letteratura.
Scrivevo: «Si sta come, nella taverna, Jenny dei Pirati: un giorno
verrà una nave, e Jenny schioccherà le dita e farà cadere le
teste. Ma per intanto Jenny... scruta nel volto gli avventori, ne
mima i gesti ... Come sono fatti i piatti? Di quale legno i letti? E
c' è una relazione tra il legno e la forma dei letti, e la natura
degli avventori? Cosa di questo sarà ricuperabile il giorno dello
sbarco?». Mi chiedevo: «Ma il gesto sperimentale non potrà
attardarsi su se stesso - nella sequenza delle ricerche successive
non si perderà di vista il fine?... Di qui la necessità di un
controllo reciproco, di una discussione, non ad opera finita, ma
mentre l'opera si fa.... Poiché la verifica non è più data dallo
scandalo effettivo di ogni singola proposta; non rimane che la
verifica comune, l'incontro e il controllo delle triangolazioni.
Certo, nulla più dell'effusione lirica individuale sfugge a ogni
triangolazione: segno che la generazione non crede all'effusione
lirica. E se con essa si identifica la poesia, ebbene, sia chiaro che
la generazione non crede neppure alla poesia. Evidentemente crede a
qualcos'altro. Forse non ne conosce neppure ancora il nome».
Immaginatevi se
l'estetica del realismo socialista poteva vedere con favore simili
affermazioni. Ma quello che ancor più aveva irritato la società
letteraria era stata una diversa disposizione al confronto. I nostri
maggiori si erano impegnati a mantenere intatto il loro unico
capitale, l'idea sacrale dello scrittore. Nascondevano il dissenso
nel silenzio e, alla pubblica stroncatura, preferivano la malignità
sussurrata al bar. Invece a Palermo i presenti si leggevano i loro
lavori più recenti e si criticavano spietatamente l'un l'altro. Lo
facevano perché avevano in comune (oltre a tante nuove letture)
questa volontà di dialogo rissoso, ma erano diversissimi tra loro.
Che cosa rendeva simili Giuliani e Leonetti, che cosa avevano in
comune, come stile e come poetica, Marmori e Amelia Rosselli,
Pagliarani e Manganelli o, quanto a valutazione sul marxismo,
Sanguineti e Barilli? Sull'opera aperta Guglielmi aveva opinioni
diverse dalle mie, si opponevano diverse valutazioni dell'opera di
Moravia. Eppure tutti erano tenuti insieme dal proposito di
confrontarsi senza pietà e senza cineserie. Nell'ambito di una
società letteraria apollinea, queste divergenze avrebbero segnato la
fine di una bella amicizia.
A Palermo il dissenso
generava amicizia. Questo era stato il messaggio offensivo lanciato
dal gruppo. Oserei dire che la visibilità del Gruppo è stata dovuta
a chi se ne è sentito offeso. Rimane tipica la faccenda delle Liale
63. Come era nata la battuta? Non ricordo, forse era ingiusta, almeno
rispetto a Bassani (ma all'epoca molto severo col Giardino dei
Finzi-Contini era stato proprio Vittorini). Ma se avesse
circolato come una delle tante boutades messe in giro da Flaiano o
Mazzacurati, saremmo rimasti all'aneddoto. Invece fu proprio Bassani,
evidentemente impreparato al gioco dell'invettiva, a protestare
accoratamente su “Paese Sera”, contribuendo ad allargare lo
scandalo a macchia d'olio. Passati i primi furori, le opposizioni
alla neo-avanguardia hanno preso un'altra strada: si è detto che il
gruppo aveva espresso molte belle teorie ma nessuna opera valida.
Quando il tempo ha fatto giustizia e si è scoperto (e cito solo gli
scomparsi) la grandezza di Porta, Amelia Rosselli, Germano Lombardi,
Manganelli o Emilio Tadini allora si è detto: «Sì, ma costoro non
appartenevano di fatto al gruppo, erano soltanto di passaggio». Ora
è ovvio che, se io denigro il cinema americano e, quando qualcuno mi
cita Orson Welles o John Ford, Humphrey Bogart o Bette Davis, a ogni
nome io rispondo che però quelli non erano veramente americani nel
senso più profondo del termine, alla fine il cinema americano si
riduce a Gianni e Pinotto e io ho vinto la partita. Ma così si è
fatto e ancora si sta facendo su varie gazzette.
Quella del Gruppo 63 non
è stata una stagione dogmatica. Nel corso degli anni il Gruppo ha
saputo rimettere in questione molte idee iniziali. Nella riunione del
1965, Renato Barilli si trovava a fare i conti col nuovo
Robbe-Grillet, e con Grass, e con Pynchon, e citava il riscoperto
Roussel, che amava Verne. E diceva che sino ad allora si era
privilegiata la fine dell'intreccio, e il blocco dell'azione
nell'epifania e nell'estasi materialistica, ma che stava iniziando
una nuova fase della narrativa con la rivalutazione dell'azione, sia
pure di un'azione autre. In quei giorni era stato proiettato un
collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica
incerta, fatto con spezzoni di situazioni standard del cinema
commerciale. Il pubblico aveva reagito con maggior piacere proprio
nei punti che pochi anni prima avrebbero provocato scandalo, dove le
conseguenze logiche e temporali dell'azione tradizionale venivano
eluse (l'avanguardia stava diventando tradizione), ma soprattutto
apprezzava la rivisitazione ironica e critica di un piacevole filmico
che veniva rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in
crisi. In quei giorni era stata discussa la insorgente poetica del
post-moderno, solo che all'epoca il termine non circolava ancora.
Quale è stata la
contraddizione che a condotto il Gruppo 63 al suicidio? Renato
Poggioli nella sua Teoria dell'arte d'avanguardia aveva
fissato le caratteristiche delle avanguardie storiche. Erano:
attivismo, antagonismo, nichilismo, culto della giovinezza, ludicità,
prevalenza della poetica sull'opera, autopropaganda, rivoluzionarismo
e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, come tendenza
agonica all'olocausto e gusto della propria catastrofe. L'avanguardia
agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, mentre lo
sperimentalismo produce l'opera e solo da essa estrae o permette poi
che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una
provocazione interna al circuito dell'intertestualità, l'avanguardia
a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni
produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando
vendeva ai musei una scatoletta con merda d'artista faceva della
provocazione avanguardistica. Ora nel Gruppo 63 esistevano le due
anime, e l'anima avanguardistica è quella che è stata colta dai
mass media. Ma, se tanti testi ancora rimangono, i gesti non potevano
che vivere una breve stagione.
Il momento in cui il
Gruppo 63 ha scelto esplicitamente la strategia dell'attacco è stato
paradossalmente quello in cui ritornava, dallo sperimentalismo sul
linguaggio, all'impegno pubblico e politico. È stata la stagione di
“Quindici”, che ha visto drammatiche conversioni all'utopia
sessantottesca, o sofferte resistenze, e alla fine ha portato il
Gruppo a togliersi la vita - proprio nel senso dell'agonismo di
Poggioli. Confrontandosi con le tensioni immediate di un periodo
storico tra i più contraddittori, il Gruppo si è accorto che una
mancanza di unità ideologica - che all'inizio aveva fatto la sua
forza interna, e la sua energia provocatoria - ora ne sanciva la
giusta estinzione. Fu vera gloria? A tutti, meno che ai
sopravvissuti, l'ardua sentenza. E nostalgia solo per i tanti amici
scomparsi nel corso di questi quattro decenni.
“la Repubblica”, 9
maggio 2003
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