E' con il Talmud che l'Occidente iniziò (già nel Medioevo) a bruciare i libri. Viaggio nel testo più
venerato e perseguitato della religione ebraica. Tra roghi, cristiani
antisemiti e nazisti.
Alberto Melloni
Quando il Talmud
risorge dalle ceneri
Era il giugno del 1242.
La gente che accorreva curiosa attorno alla piazza del rogo cercava
invano fra le fiamme l’orrore pedagogico che la legalità del
regime di cristianità forniva ai buoni fedeli: nessun odore di carne
abbrustolita, niente urla estreme di un condannato già passato dalla
tortura. Solo un falò di pergamene con le copie del Talmud
sequestrate agli ebrei e distrutte nel turpe tripudio
dell’antisemitismo cristiano. Quei libri, che contenevano il
commento del giudaismo rabbinico ai trattati giuridici della Mishna,
erano già stati additati come portatori di errori da diversi
teologi: gli ebrei, nel regime di cristianità, dovevano sopravvivere
ma in una condizione di plateale minorità.
Osservare la Torah sì,
ma comprenderla con quell’atto supremo di libertà che è
l’ermeneutica, no. Il Talmud era questa libertà e questa libertà
doveva andare al rogo. Nel 1236 era stato un ebreo convertitosi e
diventato frate a fare un elenco delle 25 “ bestemmie”
anticristiane contenute nel Talmud. Papa Gregorio IX, ascoltate le
accuse, condannò il Talmud alla confisca, da eseguire il 3 marzo
1240, primo giorno di Quaresima, in attesa di una disputa che ebbe
luogo a Parigi a fine giugno.
La causa del Talmud fu
difesa da Rabbi Jehiel: che abilmente sostenne che dato che il Talmud
non poteva “ provare” il cristianesimo, era impossibile che lo “
bestemmiasse”. Ma non sempre un buon avvocato basta: specie se i
giudici, domenicani e francescani, hanno la sentenza in tasca. E la
sentenza fu il rogo. Così nel 1242, dopo una lunga serie di
drammatici sequestri, 24 carri con migliaia di volumi andavano verso
le fiamme, salvo alcuni mandati a Roma per “ rappresentare” anche
lì la scena del fuoco. Fuoco riaccesosi a più riprese in Francia,
in Sicilia, in Germania, in Inghilterra; accompagnato a condanne
papali, conciliari, imperiali – sulle quali solo il dotto umanista
Johannes Reuchlin, amico di Pico della Mirandola e prozio di Filippo
Melantone, fece obiezioni sconsolate.
Il rogo del Talmud fu
rimesso in scena, in modo ancor più spettacolare sul piano della
didattica dell’antisemitismo, nella Roma papale il 9 settembre 1553
con repliche a Ferrara, Urbino, Mantova. La comunità di Roma sognava
fra le lacrime di vedere le lettere della Torah orale salire al cielo
fra le volute di fumo per ridiscendere altrove. L’altrove era la
bottega dei Soncino e di Bomberg che ristampano il Talmud e poi
quella prodotta da una donna, Vilna, e diventata il modello di tutti.
Una “ visione” del testo che sarebbe rimasta normativa sia per le
edizioni successive sia per le varie traduzioni a cui si sta
aggiungendo, trattato dopo trattato, la traduzione italiana ( Talmud
babilonese, progetto curato da rav Riccardo Di Segni e diretto da
Clelia Piperno, per i tipi di Giuntina).
Una pagina di Talmud
Questo progetto di un “
talmud italiano” – che non serve al rabbinato, ma agli studiosi –
pubblica ora il trattato delle benedizioni: Berakhòt, curato da
David Gianfranco Di Segni, è il primo della sequenza di 36 trattati
che formano il Talmud. Riguarda tutte le benedizioni che punteggiano
la vita dell’uomo che, benedicendo, sa assumere quella postura di
gratitudine verso il Benedicente che è la sola sapienza beatifica
data alle creature. Ed è una traduzione difficile, perché non è la
prima traduzione italiana del trattato. Fra Ottocento e Novecento il
rav Vittorio Castiglioni, pedagogista froebeliano triestino, aveva
pubblicato Mishnaiot ( riedito dalla Tipografia Sabbadini nel 1962):
cioè il testo di cui il Talmud è commento.
E soprattutto Laterza
aveva pubblicato nel 1958 la traduzione italiana di Berakhòt, senza
testo a fronte. Dieci anni dopo con una prefazione di mons. Pietro
Rossano, grande protagonista del dialogo interreligioso, e per la
cura di Sofia Cavalletti, il volume usciva di nuovo per Utet, sempre
col fuorviante titolo di “ Talmud”, tout court. Il problema non
stava nel titolo, ma nel traduttore, ormai morto, delle due edizioni:
Eugenio Zolli. Perché prima di essere Eugenio Zolli – ebreo
polacco, vissuto a Trieste e professore di ebraico a Padova – era
stato rabbino capo della comunità triestina (quella di Castiglioni)
dal 1920 e dal 1938 rabbino capo della comunità ebraica di Roma.
Con quella carica, Israel
Zolli avrebbe avuto da Pio XII la promessa di fornire parte dell’oro
che Kappler pretese dagli ebrei per evitare la deportazione che
invece si compì in silenzio, dopo la rapina, il 16 ottobre 1943.
Zoller, nascostosi, si salvò; ma sparì dalla vita della comunità,
dismise il rabbinato e si fece cattolico. Uno shock e un affronto
senza precedenti e senza pari, curato solo dalla paziente e ferma
sapienza di rav Elio Toaff, i cui rapporti con Giovanni Paolo Il
vanno considerati anche per questo come un atto di coraggio,
asimmetrico rispetto a quello richiesto al papa. Quell’opera che
servì ad avvicinare irenicamente il cattolicesimo alla tradizione di
Israele, voleva informare il lettore sulla storia del Talmud e sulle
correnti ebraiche diffidenti verso la architettura talmudica – fra
le quali la Cavalletti annoverava il sionismo. Ma così facendo
finiva per fare del Talmud uno strumento utile a capire “
l’ambiente in cui è sorto il cristianesimo”: il che ritornava,
per la via irenica, al nodo della disputa del XIII secolo.
La interpretazione
dell’ebraismo appartiene alla tradizione di Israele, o va pesata (
accettata o condannata non cambia) come preparazione di un “ dopo”
cristiano? Le “ nuove” Berakhòt curate da Gianfranco Di Segni
insegnano a chi si avventura nel labirinto ermeneutico, che solo la
comprensione dell’altro a partire da ciò che gli è irrinunciabile
può impedire che l’affetto diventi paternalismo, il paternalismo
legalità discriminatoria, la discriminazione fuoco.
La Repubblica – 26
aprile 2018
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