08 giugno 2018

IL TALMUD RISORTO DALLE CENERI


E' con il Talmud che l'Occidente iniziò (già nel Medioevo) a bruciare i libri. Viaggio nel testo più venerato e perseguitato della religione ebraica. Tra roghi, cristiani antisemiti e nazisti.

Alberto Melloni

Quando il Talmud risorge dalle ceneri

Era il giugno del 1242. La gente che accorreva curiosa attorno alla piazza del rogo cercava invano fra le fiamme l’orrore pedagogico che la legalità del regime di cristianità forniva ai buoni fedeli: nessun odore di carne abbrustolita, niente urla estreme di un condannato già passato dalla tortura. Solo un falò di pergamene con le copie del Talmud sequestrate agli ebrei e distrutte nel turpe tripudio dell’antisemitismo cristiano. Quei libri, che contenevano il commento del giudaismo rabbinico ai trattati giuridici della Mishna, erano già stati additati come portatori di errori da diversi teologi: gli ebrei, nel regime di cristianità, dovevano sopravvivere ma in una condizione di plateale minorità.

Osservare la Torah sì, ma comprenderla con quell’atto supremo di libertà che è l’ermeneutica, no. Il Talmud era questa libertà e questa libertà doveva andare al rogo. Nel 1236 era stato un ebreo convertitosi e diventato frate a fare un elenco delle 25 “ bestemmie” anticristiane contenute nel Talmud. Papa Gregorio IX, ascoltate le accuse, condannò il Talmud alla confisca, da eseguire il 3 marzo 1240, primo giorno di Quaresima, in attesa di una disputa che ebbe luogo a Parigi a fine giugno.

La causa del Talmud fu difesa da Rabbi Jehiel: che abilmente sostenne che dato che il Talmud non poteva “ provare” il cristianesimo, era impossibile che lo “ bestemmiasse”. Ma non sempre un buon avvocato basta: specie se i giudici, domenicani e francescani, hanno la sentenza in tasca. E la sentenza fu il rogo. Così nel 1242, dopo una lunga serie di drammatici sequestri, 24 carri con migliaia di volumi andavano verso le fiamme, salvo alcuni mandati a Roma per “ rappresentare” anche lì la scena del fuoco. Fuoco riaccesosi a più riprese in Francia, in Sicilia, in Germania, in Inghilterra; accompagnato a condanne papali, conciliari, imperiali – sulle quali solo il dotto umanista Johannes Reuchlin, amico di Pico della Mirandola e prozio di Filippo Melantone, fece obiezioni sconsolate.

Il rogo del Talmud fu rimesso in scena, in modo ancor più spettacolare sul piano della didattica dell’antisemitismo, nella Roma papale il 9 settembre 1553 con repliche a Ferrara, Urbino, Mantova. La comunità di Roma sognava fra le lacrime di vedere le lettere della Torah orale salire al cielo fra le volute di fumo per ridiscendere altrove. L’altrove era la bottega dei Soncino e di Bomberg che ristampano il Talmud e poi quella prodotta da una donna, Vilna, e diventata il modello di tutti. Una “ visione” del testo che sarebbe rimasta normativa sia per le edizioni successive sia per le varie traduzioni a cui si sta aggiungendo, trattato dopo trattato, la traduzione italiana ( Talmud babilonese, progetto curato da rav Riccardo Di Segni e diretto da Clelia Piperno, per i tipi di Giuntina).
Una pagina di Talmud

Questo progetto di un “ talmud italiano” – che non serve al rabbinato, ma agli studiosi – pubblica ora il trattato delle benedizioni: Berakhòt, curato da David Gianfranco Di Segni, è il primo della sequenza di 36 trattati che formano il Talmud. Riguarda tutte le benedizioni che punteggiano la vita dell’uomo che, benedicendo, sa assumere quella postura di gratitudine verso il Benedicente che è la sola sapienza beatifica data alle creature. Ed è una traduzione difficile, perché non è la prima traduzione italiana del trattato. Fra Ottocento e Novecento il rav Vittorio Castiglioni, pedagogista froebeliano triestino, aveva pubblicato Mishnaiot ( riedito dalla Tipografia Sabbadini nel 1962): cioè il testo di cui il Talmud è commento.

E soprattutto Laterza aveva pubblicato nel 1958 la traduzione italiana di Berakhòt, senza testo a fronte. Dieci anni dopo con una prefazione di mons. Pietro Rossano, grande protagonista del dialogo interreligioso, e per la cura di Sofia Cavalletti, il volume usciva di nuovo per Utet, sempre col fuorviante titolo di “ Talmud”, tout court. Il problema non stava nel titolo, ma nel traduttore, ormai morto, delle due edizioni: Eugenio Zolli. Perché prima di essere Eugenio Zolli – ebreo polacco, vissuto a Trieste e professore di ebraico a Padova – era stato rabbino capo della comunità triestina (quella di Castiglioni) dal 1920 e dal 1938 rabbino capo della comunità ebraica di Roma.

Con quella carica, Israel Zolli avrebbe avuto da Pio XII la promessa di fornire parte dell’oro che Kappler pretese dagli ebrei per evitare la deportazione che invece si compì in silenzio, dopo la rapina, il 16 ottobre 1943. Zoller, nascostosi, si salvò; ma sparì dalla vita della comunità, dismise il rabbinato e si fece cattolico. Uno shock e un affronto senza precedenti e senza pari, curato solo dalla paziente e ferma sapienza di rav Elio Toaff, i cui rapporti con Giovanni Paolo Il vanno considerati anche per questo come un atto di coraggio, asimmetrico rispetto a quello richiesto al papa. Quell’opera che servì ad avvicinare irenicamente il cattolicesimo alla tradizione di Israele, voleva informare il lettore sulla storia del Talmud e sulle correnti ebraiche diffidenti verso la architettura talmudica – fra le quali la Cavalletti annoverava il sionismo. Ma così facendo finiva per fare del Talmud uno strumento utile a capire “ l’ambiente in cui è sorto il cristianesimo”: il che ritornava, per la via irenica, al nodo della disputa del XIII secolo.

La interpretazione dell’ebraismo appartiene alla tradizione di Israele, o va pesata ( accettata o condannata non cambia) come preparazione di un “ dopo” cristiano? Le “ nuove” Berakhòt curate da Gianfranco Di Segni insegnano a chi si avventura nel labirinto ermeneutico, che solo la comprensione dell’altro a partire da ciò che gli è irrinunciabile può impedire che l’affetto diventi paternalismo, il paternalismo legalità discriminatoria, la discriminazione fuoco.

La Repubblica – 26 aprile 2018

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