11 giugno 2018

QUANDO ANCHE ITALO CALVINO ERA COMUNISTA


Il testo che segue, poco conosciuto e poco citato anche dagli studiosi di Italo Calvino, rientra in una serie di interviste che, alla vigilia delle elezioni politiche del 1963, il quotidiano del PCI “l'Unità” realizzò tra letterati e uomini di cultura, affidando l'incarico a diversi redattori e collaboratori. A Giorgio Frasca Polara, per esempio, toccò l'intervista a Leonardo Sciascia, a Paolo Spriano, destinato a diventare uno storico importante, quella che segue, a Calvino. A volte si trattava di mere dichiarazioni di voto in appoggio alla campagna elettorale del Pci, ma più spesso le risposte contenevano elementi di riflessione e di critica, ponendo a loro volta delle domande politiche al partito di Togliatti.
Così in questo caso.
Italo Calvino era uscito dal Pci nel '57, dopo che i carri armati sovietici in Ungheria e la feroce repressione della rivolta operaia avevano gelato le speranze di grande riforma del comunismo internazionale. Già da prima il suo percorso di scrittore progressivamente allontanato dai canoni del neorealismo e del nazionalpopolare che, seppure a maglie larghe e senza obblighi o sanzioni, restavano la linea ufficiale del partito nella politica culturale. La pubblicazione all'inizio del 1963 de La giornata di uno scrutatore (il mio amico Vincenzo Vasile la colloca con ottime ragioni non solo al vertice dell'opera di Calvino, ma della letteratura italiana del Novecento), aveva riportato lo scrittore alla realtà contemporanea dopo la riscrittura delle Fiabe italiane e le parabole illuministiche della “trilogia degli antenati”; ma quel racconto rappresentava in realtà la negazione radicale dell'engagement frontista. 
Pur amareggiato e ferito da quegli eventi lo scrittore non cessa di partecipare alla vita politica italiana. Nel 1961, per esempio, è tra i primi ad aderire all'appello di Capitini per la Marcia della Pace ed il 21 settembre sarà in prima fila a marciare sulla strada tra Perugia e Assisi. Proprio nella Giornata di uno scrutatore aveva messo in bocca ad Amerigo, il protagonista di quel racconto lungo, parole che potevano applicarsi a lui: “... nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire”. 
Italo Calvino certamente guardava con interesse al progressivo avvicinarsi del Psi all'area di governo, al processo di unificazione socialista, al progetto riformista del costituendo centro-sinistra. Ma era profondamente convinto che i conati riformistici si sarebbero arenati senza la forza operaia rappresentata soprattutto dal Pci. 
È quello che avrebbe scritto a Norberto Bobbio nell'aprile del '64: “... ebbene sì, sono riformista. O più precisamente: credo che oggi (e forse soltanto oggi) si possa cominciare a considerare un riformismo che non cada nella trappola tante volte denunciata dalla polemica rivoluzionaria, cioè nel sistema della classe dominante. Perché si salvi dalla trappola, questo riformismo deve poter contare sulla forza del movimento operaio internazionale (…) cioè il riformismo riuscirà solo se saranno i comunisti a guidarlo”. In quella lettera aggiungeva che non andava dimenticato “il valore universale dell'antitesi operaia quale il marxismo l'ha proposta” ed esprimeva l'aspirazione di “salvare la capra dell'universalismo proletario e i cavoli della razionalità storica e tecnica: i due pezzi di un ideale umanesimo che ora sembrano più che mai inconciliabili”. La lettera in verità dava forma a quanto c'era già, esplicitato con molta chiarezza, nell'intervista qui "postata", e rilasciata un anno prima, nel marzo del 1963. 
Giova forse un po' di contestualizzazione. Quelle elezioni seguivano il primo esperimento di centro-sinistra, il governo tripartito Dc-Pri-Psdi guidato da Fanfani dal febbraio 1962, con l'appoggio esterno del Psi di Nenni. Alla sua nascita il Pci di Togliatti non aveva votato contro, ma aveva decretato una “astensione critica”. Quel primo centro-sinistra aveva tra l'altro realizzato la nazionalizzazione dell'industria elettrica e la scuola media unificata, ma questo primo impulso accentuò l'opposizione di Confindustria e dei ceti proprietari, che divenne durissima dopo la presentazione del progetto di riforma urbanistica che bloccava, attraverso il regime pubblico dei suoli, la speculazione fondiaria. Già sul finire del 1962 il progetto del centro-sinistra sembrava essersi arenato. 
Durante la campagna elettorale della primavera 1963 la Dc – ricattata dalla conservazione – confermava il progetto di accordo politico con il Psi, ma metteva la sordina e il freno ai programmi di riforme. Ciò non impedì al Pli di Malagodi, il partito che più direttamente esprimeva gli interessi della grande proprietà, un qualche protagonismo. Questo spiega il senso dell'intervista a Calvino, che – senza neppure esplicitare una dichiarazione di voto – auspica una avanzata del Pci, per controbilanciare la prevista ondata di destra (poi non verificatasi nelle dimensioni temute). 
E tuttavia la parte più interessante dell'intervista non è qui: è piuttosto nell'idea di un riformismo ove l'intervento dall'alto si connetta alla partecipazione dal basso e trovi in essa linfa e sostegno. (S.L.L.)

Intervista  a Italo Calvino di Paolo Spriano 

Da “l'Unità” del 21 marzo 1963

I limiti del riformismo borghese nell’Europa occidentale e in America — La prospettiva della coesistenza pacifica - I comunisti chiave di volta dello schieramento popolare

TORINO, marzo
Una conversazione politica con Italo Calvino parte sempre da una discussione sulle grandi linee storiche del mondo contemporaneo. Proprio su questi aspetti generali Calvino in questi ultimi anni ha avuto occasione di scrivere saggi, corrispondenze di viaggio, interventi di carattere culturale e politico.

Come vedi la situazione rispetto a qualche anno fa?
I dati di fondo della situazione non sembrano mutati, anzi rimangono confortanti. Il processo di avvio alla coesistenza pacifica tra i due Grandi è continuato anche se non ha fatto passi avanti decisivi; un fatto sintomatico è che oggi sia possibile considerare anche il Papa tra coloro che si adoperano per creare un clima di distensione. Quando però passiamo dalla valutazione delle tendenze storiche più generali alla analisi delle situazioni particolari, ci saltano agli occhi numerosi fattori negativi in contraddizione con una prospettiva ottimistica a lunga scadenza. Questa Europa occidentale offre una vista nient’affatto rassicurante. Qui in Italia ci siamo un po’ abituati a considerare lo sviluppo industriale di tipo neo-capitalistico e il riformismo democratico di tipo centrosinistra come due fenomeni paralleli. Ma nel resto d’Europa non è affatto così: il nuovo sviluppo economico-tecnologico si accompagna a una strutturazione autoritaria dello Stato sulla linea De Gaulle-Adenauer. La stessa Spagna di Franco in una prospettiva di questo genere finirebbe per trovare nuove chances di sopravvivere. Anche in America, del resto, una linea di coesistenza pacifica e l’ideologia kennediana di riformismo democratico, nel quadro borghese, sono insidiate continuamente dai gruppi reazionari nord-americani. Nel mondo borghese — si potrebbe quindi sintetizzare — le minoranze riformiste e progressiste sono condizionate, anche quando riescono a porsi alla testa della direzione politica dalle ali più reazionarie, cui sono tenute continuamente a dare assicurazione che le fondamenta del capitalismo non saranno scosse e di cui insomma devono subire continuamente il ricatto.

E nel mondo socialista?
La politica kruscioviana di coesistenza pacifica è andata avanti, e mi pare indiscutibile che essa debba fornire la linea strategica di tutto il mondo socialista. Appunto per questo, per le implicazioni che questa linea strategica dovrebbe avere sui vari piani, si rimane preoccupati da una atmosfera che si è creata in queste ultime settimane e che ha avuto manifestazioni rilevanti nelle riunioni di Mosca con gli scrittori e gli artisti. La polemica sulla libertà delle espressioni artistiche è solo un aspetto di queste riunioni, a mio parere. Nell’URSS la letteratura è una tribuna dell’opinione pubblica e quindi un conflitto tra potere socialista e scrittori, che si risolva in un giro di vite dato alle possibilità di critica, diventa ancor più negativo perché segna un arresto o un passo indietro in un processo che sembrava portare a una maggiore dialettica tra potere e opinione pubblica.

Secondo te, a che punto stiamo in Italia, nel rapporto tra spinte democratiche e resistenze conservatrici?
Mi pare che in Italia, oggi come per il passato, la maggiore, e forse l’unica garanzia per non avere dei ritorni di involuzione reazionaria, e per smuovere qualcosa nel senso di una democratizzazione e modernizzazione dell’apparato statale e della vita sociale, resta la esistenza di una forte opposizione di sinistra, di una sinistra operaia, con tutte le sue forze politiche, sindacali, associative. Si sa che questa forza propulsiva della sinistra operaia, senza la quale il centro-sinistra si ridurrebbe a una vana etichetta, ha la sua chiave di volta nei comunisti. Oggi l’anticomunismo patologico è in ribasso: la polemica politica e giornalistica si va riconducendo ai reali motivi di classe. I conservatori scendono in campo apertamente per difendere gli interessi della grande proprietà monopolistica, e i voti conservatori probabilmente si gradueranno stavolta anche a destra della DC. Sarebbe grave se un — sia pur leggero — aumento di peso specifico della destra malagodiana e confindustriale in Parlamento non fosse controbilanciato o — speriamo — sopravanzato, da un irrobustimento a sinistra.

Quali ti sembrano, sul piano sociale, i compiti concreti più importanti di una forza di opposizione di sinistra?
Oggi lo sviluppo tecnico- industriale consente certamente possibilità di maggiore benessere, ma se questo benessere rimane sul piano di maggiori consumi, in un paese così povero e arretrato sul piano delle strutture, esso rimarrà in larga misura fittizio. Potremmo dire che il benessere del popolo è veramente in aumento non solo quando si sia accresciuto l’esercito dei consumatori di frigoriferi o di lavatrici, ma quando vi siano larghe disponibilità di scuole per la istruzione, una efficace organizzazione sanitaria, quando si creerà un ambiente urbanistico non da formicaio. E qui si inserisce il problema dello sviluppo della cultura. Il tanto vantato «boom» librario è ancora ben lontano da segnare un aumento del livello culturale degli italiani. Una nazione in cui a leggere è ancora solo una minoranza della popolazione concentrata soprattutto nelle grandi città, in cui le possibilità di diffusione della produzione letteraria e culturale più elevata sono condizionate dalla mancanza di un vasto terreno di una cultura di base generalizzata, una nazione in cui la cultura di massa si espande solo sul piano dello spettacolo, in cui le biblioteche sono quasi esclusivamente una istituzione universitaria, è una nazione in cui un piano di sviluppo culturale diventa sempre di più una necessità fondamentale.

E dal punto di vista delle libertà politiche?
La cosa più allarmante è che, mentre tante cose mutano in Italia, non vediamo segni di cambiamento nel rapporto tra il cittadino e lo Stato, né in quelle istituzioni e persone che rappresentano lo Stato di fronte al cittadino. C’è in atto una specie di controrivoluzione preventiva dei vecchi funzionari conservatori contro il nuovo clima, che prende le forme più vistose, isteriche, patologiche, nei sequestri recenti, nelle condanne della Magistratura, ma che insidia ben altro che un film o un libro. Anche qui la cultura non è che il simbolo di una battaglia per far sì (o per impedire) che lo Stato diventi lo strumento d’una democrazia moderna.

E hai qualche idea sul come dovrebbe oggi strutturarsi questo processo di democratizzazione?
Finché le programmazioni e le riforme vengono dall’alto e sono condizionate solo agli interessi dei gruppi di potere economici e politici, è ragionevole il timore che ci troveremo di fronte a un seguito di compromessi e di occasioni mancate. In una situazione di questo genere, sarà necessario che le forze di opposizione trovino nuove vie per far sì che la partecipazione popolare dia la sua impronta alla impostazione e alla soluzione dei singoli problemi. La lotta politica dovrà farsi più specifica, pur senza perdere il mordente dei grandi temi generali. Sarà una nuova saldatura tra intellettuali e masse che si dovrà attuare, e un nuovo rapporto con gli strumenti del potere politico, dal parlamento alle commissioni tecniche. Si sta delineando una nuova figura di quadro intellettuale-tecnico, ma non soltanto tecnico, cui dovrà andare una autorità sempre maggiore nell’elaborazione delle soluzioni pratiche (e non soltanto nei settori della programmazione economica, ma in tutte le strutture della vita civile). Se questo quadro deriverà la sua autorità solo da quella dei detentori del potere politico o — peggio — del potere economico, s’accorgerà presto d’avere le mani legate. Solo se potrà rendersi interprete d’una coscienza delle masse e valersi della loro pressione organizzata, si metterà finalmente in moto una dialettica democratica capace di dare risultati pratici.
 

Nessun commento:

Posta un commento