10 giugno 2018

Moi je ne sui pas marxiste!






     Per comprendere bene K. Marx bisogna tenere presente che il suo originale pensiero cominciò ad essere deformato e frainteso quando l'autore era ancora in vita. Ciò condusse lo stesso Marx a prendere immediatamente le distanze dalle deformazioni di esso con una celebre battuta: moi je ne sui pas marxiste! (fv)

 
Salvatore Cannavò

Buon compleanno Marx, libertario letto molto male


Marx è vivo e lotta insieme a noi. Lo slogan è un po’ scontato e forse abusato. Ma sorprendentemente vero. Nel duecentenario della nascita l’autore de Il Capitale e de Il Manifesto del partito comunista mantiene una attualità e una vitalità innegabili.

La scorsa settimana il quotidiano francese Le Monde gli ha dedicato un grande servizio che racconta la diffusione del marxismo negli Stati Uniti. Il Corriere della Sera gli dedica uno dei primi libri della nuova casa editrice, Solferino, curato da Antonio Carioti e in cui, nella prefazione di Ernesto Galli della Loggia si legge che “non bisogna sottovalutare la forza anche camaleontica delle idee, la loro capacità di adattarsi ai tempi, di trovare nuovi motivi per tornare prepotentemente sulla scena. Specie se si tratta di idee forti, forti in particolare nell’indicare quale sia il nemico da combattere (che poi sia quello giusto è tutt’altro discorso)”.

Quello che è stato “un rabbino mancato”, come scrive un rigoroso studioso di Marx, Marcello Musto, docente presso la York university di Toronto, si impone sulla scena più da morto che da vivo. Sicuramente grazie a uno studio talmente intenso da averlo fatto ammalare.

Marx studiò sempre e senza pausa, nonostante gli stenti, i figli che gli morivano in casa, nonostante “la quintessenza della merda” che dovette ingoiare. In vita pubblicò relativamente poco, accumulando appunti e quaderni, alla continua ricerca della perfezione con l’opera omnia, Il Capitale, completato solo nel capitolo primo e poi ricostruito da Engels dopo la morte dell’autore. Questa incompiutezza e la mole sterminata dei suoi scritti rende l’opera marxiana fresca e vitale nonostante il santino del socialismo reale che gli è stato cucito addosso.

A essere convinto che invece Marx faccia rima con libertà è lo stesso Musto che respinge l’idea di una linea di congiunzione tra il pensatore di Treviri e il totalitarismo (tesi coltivata, sia pure con prudenza, da Hannah Arendt): “Marx assegnò un valore fondamentale alla libertà individuale” dice Musto al Fatto quotidiano. “Il suo comunismo è radicalmente diverso dal livellamento delle classi auspicato da tanti suoi predecessori e dalla grigia uniformità politica ed economica realizzata da molti suoi seguaci. Marx fu contrario a ogni tipo di socialismo di Stato e considerò essenziale, per ogni processo rivoluzionario, l’autoemancipazione dei lavoratori. La sua idea di società è, dunque, agli antipodi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo. Marx fu il teorico dell’autogoverno dei produttori”.

Su questa ipotesi c’è un filone di pensiero che è rimasto minoritario nella storia del marxismo occidentale, battuto dal comunismo reale, ma che ha poi trovato nuovi spazi nella Marx Renaissance di inizio 2000 e che può essere sintetizzata nelle parole del filosofo francese Jacques Derrida: “Sarà sempre un errore non leggere, rileggere e discutere Marx”.

Come invitava Immanuel Wallerstein sulle pagine domenicali de La Lettura, leggere Marx significa leggere le sue opere. Da quali cominciare? “Partirei dai documenti più importanti redatti per l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, compresa La guerra civile in Francia, dice Musto, ai quali farei immediatamente seguire i capitoli più storici del Libro Primo de Il Capitale, che resta il testo principale per comprendere la teoria di Marx. La Critica del programma di Gotha è un testo breve quanto prezioso. Una buona selezione dai Grundrisse, soprattutto delle pagine sulla società post-capitalistica, potrebbe precedere alcuni articoli giornalistici pubblicati sul New York Tribune, in particolare quelli sulla crisi economica del 1857. Il Manifesto del Partito Comunista e i Manoscritti economico-filosofici del 1844 restano delle letture molto affascinanti, ma andrebbero affrontate con la consapevolezza che Marx sviluppò ulteriormente le proprie concezioni, dopo la loro stesura”.

Ma, al dunque, perché Marx resta attuale, cosa funziona di quel pensiero? Come scriveva il filosofo francese Daniel Bensaid “il rapporto tra capitale e lavoro resta un rapporto asimmetrico; il primo non potrà mai fare a meno del secondo, mentre il secondo può fare benissimo a meno del primo”.

Musto fa la stessa osservazione: “In un’epoca nella quale la classe capitalista torna ad appropriarsi, senza quasi alcuna opposizione, di enormi quantità di lavoro non pagato, Marx mostra, meglio di chiunque altro, che i lavoratori non ricevono l’equivalente di quello che producono. Ne Il Capitale, egli affermò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediate la ‘trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse’. Questa dinamica si manifesta ancora di più su scala globale”.

Nonostante il lavoro non sia più non solo quello dell’800 ma nemmeno quello del 900 e nonostante il camaleontismo del capitale, quel rapporto ineguale è tutt’ora vigente. Si può pensare che la soluzione risieda in un nuovo compromesso tra capitale e lavoro, ipotesi riformista forte, alla Sanders; oppure che il capitalismo vada abbattuto, ipotesi rivoluzionaria. Ma l’analisi di quella disparità resta tutt’ora in piedi. La storia recente ha dimostrato che non esiste “terza via”. Anche per questo Marx non sente il peso dei suoi duecento anni.

Il Fatto – 30 aprile 2018


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