Ripubblicato «Giorni
tranquilli a Clichy» di Henry Miller. Composto a New York dopo il soggiorno
parigino, uscì nel ’56 per Olympia Press, presentato come un
romanzo pornografico. E in effetti lo era, come “a luci rosse”
era la casa editrice. Un lavoro a cottimo (Miller fu pagato un
dollaro a pagina), destinato a suscitare tristi fantasie in vecchi
sporcaccioni. Ne uscì invece un grande libro, scritto alla maniera
dei surrealisti e capace di esprimere come poche altre opere
dell'epoca la disperazione abissale di un mondo che nella
trasgressione (come nell'alcol e nelle droghe) cercava una
impossibile via di fuga da una condizione esistenziale priva di
significato. Sesso, sesso e ancora sesso che, come in Sade, assume
forme sempre più ripetitive e allucinate. Forse davvero, come
pensava nella Polonia del Settecento il rabbino eretico Jakob Frank, la via per la
santità passa per i luoghi oscuri del peccato.
Pasquale Di Palmo
Henry Miller,
carosello infoiato a Parigi
«Il suo mondo di felicità erotica si muove nella suburbia in una società di falliti e disperati, di paranoici e impossibilitati come quella cara agli impressionisti tedeschi ma cantata con un ritmo e una figurazione cari ai surrealisti francesi; una società che Miller guardava con occhio realista tipicamente americano». Questa osservazione di Fernanda Pivano, nonostante il lapsus riguardante gli «impressionisti» anziché gli espressionisti tedeschi, può idealmente introdurre l’opera trasgressiva di Henry Miller (1891-1980) di cui Adelphi propone, nell’accurata traduzione di Katia Bagnoli, Giorni tranquilli a Clichy («Piccola Biblioteca», pp. 188, € 18,00).
Il racconto fu composto
nel 1940 a New York, subito dopo il soggiorno parigino dello
scrittore, e rivisto nel ’56, anno in cui uscì in Francia, per i
tipi dell’Olympia Press, in inglese (il progetto di copertina
Adelphi riprende quello dell’edizione originale). Per vedere la
luce negli Stati Uniti bisognerà attendere il 1965, quando terminò
il travagliato processo per oscenità intentato a Tropico del Cancro
che costituì un vero e proprio caso editoriale, diventando un
best-seller internazionale, salutato enfaticamente da Orwell come il
prodotto «dell’unico romanziere di valore che sia apparso in
lingua inglese da parecchi anni a questa parte».
Giorni tranquilli a Clichy è ambientato a Parigi, la città della lost generation americana in cui Miller per quasi un decennio, quello degli anni trenta, visse come un clochard e che divenne lo scenario di molti suoi testi, dal succitato Tropico del Cancro al controverso Opus pistorum, redatto su commissione nel 1941, dove vengono descritti, con dovizia di particolari, tutti i gradi più rivoltanti dell’abiezione: dall’incesto allo stupro, dalla pedofilia ai rapporti contro natura, finanche con gli animali.
Anche Giorni tranquilli a
Clichy fu un lavoro nato su commissione: doveva trattarsi di un libro
pornografico, pagato un dollaro a pagina, affidatogli da un
miliardario dell’Oklahoma che non rimase soddisfatto del risultato
e virò sugli scritti di Anaïs Nin, celebre amante di Miller. In
questo racconto vengono narrate le vicissitudini di Joey, chiaro
alter ego dello scrittore, scandite dagli incontri con varie
prostitute, e la relazione che Carl intrattiene con Colette,
adolescente che con i due amici condivide l’appartamento.
La sessualità, com’è tipico in Miller, ha un posto preponderante nell’economia del racconto, anche se qui risulta modulata, più che in altri topoi della sua sovrabbondante produzione, da un’attonita sorpresa per gli incontri prospettati e da una maggior distensione, anche se permangono le tipiche riflessioni esistenziali di indubbio taglio cinico. Lo stesso autore asserisce, a proposito di Carl, personaggio presente anche in altri libri di Miller: «La sua audacia (…) era generata dalla disperazione».
Ed è proprio la
disperazione a caratterizzare questo carosello di uomini e donne
perennemente infoiati, in preda a un delirio alcolico che non conosce
requie, trascinantisi alla stregua di automi, come osserva ancora la
Pivano, in «camere squallide da pochi soldi o minuscoli appartamenti
di periferia (…) nei quali il sesso sembra l’unica speranza,
l’unica via di uscita dei diseredati». La stessa ville lumière
che, come scrisse nel suo romanzo più famoso, «ti cresce dentro
come un cancro, e cresce e cresce finché non ti ha divorato», vista
attraverso alcuni splendidi scorci fotografici di Brassaï, definito
dallo stesso Miller «l’occhio di Parigi», nel testo risulta
riconoscibile solo a tratti.
È il paese di Bengodi dei bohémiens e dei depravati, in cui si passa da un bistrot malfamato a un appartamento anodino, relegando la sua magnificenza solo a qualche rapido, sbrigativo tratteggio: «Salimmo a zigzag su per la collina in direzione del Sacré Cœur. Ai piedi della cattedrale ci riposammo contemplando il mare di luci scintillanti. La notte esalta Parigi. L’illuminazione, più soffusa se la si vede dall’alto, attenua la crudeltà e lo squallore delle strade. Di notte, vista da Montmartre, Parigi è davvero magica; giace in una conca come un’enorme gemma scheggiata».
Nel libro figura un
altro racconto scritto e riveduto da Miller nello stesso periodo,
Mara-Marignan, di cui esiste anche una versione ridotta intitolata
Berthe. La trama, dominata dall’incontro con una quasi irreale
prostituta, sembra presentare più di un’analogia con la Nadja
bretoniana, non a caso uno dei titoli elencati nei Libri della mia
vita considerati fondamentali dallo scrittore (ma, rimanendo in
ambito francese, non si può passare sotto silenzio il magistero di
Cendrars, Céline e Rimbaud, sul quale egli scrisse Il tempo degli
assassini, uno dei suoi saggi più avvincenti, scevro com’è di
qualsiasi edulcorazione di carattere agiografico). E, ça va sans
dire, quella linea «erotica» che da Sade e il suo acerrimo nemico
Rétif de la Bretonne approda alle aporie di Bataille.
Guido Almansi, uno dei più convinti ammiratori di Miller, rilevava come «anche nelle sue opere migliori, la mistura di passi di alta letteratura e di zavorra è imbarazzante». Ma «l’unicità di ogni accoppiamento sessuale» che Almansi riscontra nell’opera del romanziere americano in realtà si riduce a una serie ininterrotta di coiti che, nonostante le infinite variazioni sul tema e le innumerevoli combinazioni descritte, appiattisce l’atto carnale all’espressione martoriata di «un mondo senza speranza», come osserva il protagonista di Tropico del Cancro.
Il plot narrativo si
dilata in meccanismi angusti e ripetitivi, il sesso è vissuto alla
stregua di un’ossessione che abbisogna di una sequenza infinita di
varianti mimeticamente descritte per poter assolvere al suo compito
di programmatico scarto dalla norma. I rapporti tracciati da Miller
hanno la stessa «bestialità» di quelli esibiti da Bacon nei suoi
dipinti, con effetti allucinatòri che deformano le parti anatomiche
rappresentate.
La prosa di Miller è
contrassegnata da una carnalità endemica, vissuta «di pancia», che
alterna momenti felici a frequenti cadute di gusto e stile. Fu molto
ammirata da Lawrence Durrell e Norman Mailer e, stranamente, anche da
un critico algido come Mario Praz, che osservò al riguardo: «Il
mondo descritto dal Miller è davvero la carcassa, la carogna della
civiltà in sfacelo, rappresentata dall’orrore delle sue città
squallide e tentacolari, e dalla vuotaggine della vita meccanizzata».
Nell’umorismo triviale
di Miller, nei suoi inarrestabili flussi di coscienza, nella sua
prosa brutale che si aggrappa al linguaggio parlato arrivando a
influenzare in maniera decisiva Kerouac e la beat generation, spesso
si nasconde una serie di criptocitazioni. Si pensi ad esempio, nel
racconto che dà il titolo a questo libro, all’episodio
dell’incontro tra la poetessa surrealista e i due protagonisti.
Oltre alla tecnica dell’écriture automatique, richiamata
sarcasticamente dal fatto di scrivere versi con il rossetto sulle
pareti del bagno, non si può non attribuire alla rivoltella che la
poetessa nasconde nella borsetta un preciso riferimento a quanto
teorizzato da Breton, a sua volta memore di Jarry e Vaché, nel
Secondo manifesto del surrealismo: «L’azione surrealista più
semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e
sparare a caso, finché si può, tra la folla».
Tuttavia il medesimo Almansi osserverà come quella di Miller sia «una scrittura realistica che arriva alla surrealtà della visione». Ma il movente è sempre quello della vita vissuta, polemicamente contrapposta alle derive della società consumistica americana, perbenista e intransigente. Scrisse Miller: «Se qualcosa merita il nome di “osceno” è proprio questo confronto obliquo e furtivo con i misteri, questo camminare sull’orlo dell’abisso godendo l’estasi della vertigine senza però cedere al fascino dell’ignoto».
il manifesto – 17
giugno 2018
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