10 giugno 2018

ANNIBALE RAINERI SULLA VITA E SULLA MORTE



      Questa mattina un vecchio amico mi ha fatto un regalo che desidero rendere pubblico:

Carissimo,
ogni tanto metto in forma scritta miei pensieri. In questo ultimo periodo provo a scriverli su palermograd, una rivista online di Palermo che  si iscrive nella tradizione del comunismo, con molta libertà. Alcuni sono miei amici, in ogni caso persone molto serie e che cercano di comprendere e conoscere. Provo in questo ambito di impegno politico, quello che mi è più affine per storia, di inserire l'interrogativo radicale sulla violenza e quello, altrettanto radicale, sulla dualità femminile/maschile del genere umano. È in fondo "la mia specialità" tentare di connettere universi culturali diversi, e specialmente di aprire finestre. Ecco l'ultimo "passatempo".
Una buona domenica di interruzione del quotidiano, di pacificazione, forza e, se si riesce un po' di gioia, o almeno di serenità,
Annibale

IL FRONTE CULTURALE
SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
di Annibale C. Raineri
8 giugno 2018

«Ascoltate le nostre sconfitte» detto con voce appena percettibile, ma insieme ferma, decisa. Così sento le parole che compongono il titolo del romanzo di Laurent Gaudé tradotto nel 2017 per le edizioni e/o da Alberto Bracci Testasecca.
«Ascoltate … sconfitte», invito accorato a non voltare lo sguardo di fronte al racconto di ciò che espone l’essenza dell’essere-in-guerra: la sconfitta inscritta nello stesso atto della vittoria, la sconfitta dell’umano, di sé in quanto essere umano, di cui fa esperienza il protagonista indipendentemente dal vincere o perdere una battaglia o la guerra stessa. «Perché ho combattuto? Cosa ne è rimasto di me nell’atto stesso in cui la battaglia ha preso corpo?»

Libro bellissimo, dal ritmo incalzante, che prende il lettore costringendolo alla lettura senza possibilità di separazione, fino alla fine, alla fine del racconto, ma insieme alla fine del cammino, a quel punto in cui, assieme al protagonista, si comprende come la storia, quella storia, la nostra da parecchi secoli, è giunta al punto di conclusione, e da essa non c’è punto d’aggancio per il suo oltrepassamento. Giunti al punto; del libro, della storia del protagonista, al punto di conclusione della cosa stessa che il libro ci mostra, per necessità intrinseca e non per mero accidente cronologico.

Fin ora ho detto «il protagonista», «la storia raccontata». Singolari, ma nel senso di quel essere-pluralmente-uno del protagonista/protagonisti che ci cattura nel seguire riga dopo riga il fluire segmentato del racconto, delle storie che nella loro pluralità dicono di uno stesso.
Il romanzo è la storia di un agente francese, Assem, cui sono assegnate operazioni sporche, “un cacciatore” che ha operato in Afganistan, Sahel, Iraq, Libia nella cattura di Geddafi, e che sta per essere ingaggiato nella caccia ad un agente americano, Sullivan Sicoh – su richiesta degli stessi servizi statunitensi a quelli francesi – quello stesso che ha catturato Bin Laden e che da allora ha fatto perdere le sue tracce e sembra essersi “messo in proprio”.
La trama di questa storia, ambientata nel presente, si intreccia con altre storie ed altri protagonisti di epoche remote: Annibale, il generale nordista Grant, Hailè Selassiè. La tecnica narrativa costruisce questi intrecci in un montaggio perfetto che ci costringe a passare da una storia a un altra senza preavviso, producendo in tal modo un effetto di straneamento che, invece di allontanare il lettore, lo cattura sempre più, costringendolo ad una attenzione che lo vincola al nodo che unisce tutte quelle storie: «Lei ha vinto, tenente?» chiede Sullivan Sicoh, l’agente americano, ad Assem, il francese protagonista, la stessa domanda che Sullivan aveva fatto a se stesso nell’attimo in cui aveva catturato Bin Laden, la stessa che attraversa lo sguardo di Annibale mentre contempla la sua vittoria a Canne, o il generale Grant quando vede la sconfitta di Lee, o ancora Hailè Selassiè, la domanda che sorge dall’immagine delle migliaia di corpi senza vita che coprono le terre d’Italia, d’Africa, d’America. «Chi, cosa ha veramente vinto?»

La storia di Assem, l’agente francese, si incrocia con quella di Miriam, un’archeologa irachena presa dal dramma per la cancellazione di una parte importante della storia umana consegnata ai posteri negli oggetti presenti nei siti archeologici della sua terra, ed ora distrutti dalla furia dello Stato islamico. Una notte d’amore, il caso di un incrocio in un luogo – ogni città del romanzo è luogo d’incrocio delle storie dei suoi protagonisti disperse nel tempo – amore «per sempre», il per sempre di una notte sola che dura per l’eternità di una (due) vita. Attimo in cui l’incrocio delle storie di vita è il punto cruciale del cambiamento, dell’attraversamento di ciò che si è vissuto: il fare esperienza del proprio vivere. Incrocio reso possibile dalla parola poetica: «Corpo, rammenta, e non soltanto come amato fosti» «Allora ho capito che avrei amato quell’uomo che mi stava regalando le parole di Kavafis perché sentiva, per chissà quale intuito, che mi avrebbe fatto bene (…) perché in quel momento avevo conosciuto qualcuno che come me aveva tremila anni».
Il romanzo è così il racconto di un’esperienza, della esperienza della coscienza che fa esperienza dell’uccidere, non solo perché ha ucciso, ma perché riesce ad attraversare quell’atto. Essa mette capo così ad una dimensione che non posso non chiamare del sacro (termine che non mi sembra compaia mai nel testo), ma che connette, riempie di valore la terra in cui sono sprofondati i corpi ormai privi di vita di tanti massacri, con i luoghi in cui sono custoditi i resti sepolcrali di antichi riti (i tori sacri del dio Api), violati dagli archeologi, la terra in cui alla fine torna, a conclusione del libro, la statuetta del dio Bes – che Miriam ha nascosto nelle tasche di Assem in quella notte d’amore – lì, a Canne, a vegliare sui morti della battaglia.

Quest’opera così coinvolgente – almeno così è stato per me – ha un valore particolare per chi nella propria vita ha attraversato attivamente la dimensione della lotta e del conflitto, in quanto costringe a guardare a quella dimensione con un altro sguardo. Non è lo sguardo della vittima, come accade in tante opere di ispirazione nonviolenta, è lo sguardo del combattente che vede l’oggetto della propria violenza, anche quando essa è giustificata, e da quella visione si lascia interrogare. Per questo è un libro che invito a leggere.
Alla fine della lettura, però, si aprono delle questioni che vanno oltre ciò che nel libro è mostrato, questioni di ordine logico-speculativo ed etico-antropologico.
Il racconto è costruito attraverso lo sguardo sulla morte. L’esperienza che narra è l’esperienza della coscienza che alla fine diviene capace di questo sguardo, diviene capace di sostare con lo sguardo sulla morte. Questo sguardo interroga ogni dimensione del confliggere violento, indipendentemente dall’obiettivo che tale confliggere muove. Ma sostare con lo sguardo sulla morte non apre per se stesso alla vita: è la coscienza del limite, ma, per se stesso, è incapace di oltrepassamento, è incapace di produrre il legame con la vita. Sul piano logico-speculativo la doppia negazione non afferma, semplicemente nega il negativo (con buona pace degli hegelismi di maniera). Così la negazione della violenza, cui perviene alla fine il protagonista, non è per se stessa un inizio di vita.
Non è un caso che il romanzo racconti storie di uomini (la presenza di Miriam non riesce a modificare questo dato), o meglio mostra la storia dell’uomo (dell’umanità vista-agita dal maschio), che giunge alla consapevolezza del suo proprio limite.
È questo l’unico punto di vista possibile, è questa l’unica storia che nel presente come nel passato ha vissuto l’umanità? Vi è un altro sguardo che orienti alla vita, al legame con la vita, oltre o accanto alla storia come storia di violenze e di uccisioni?

Sempre nel 2017 la piccola casa editrice Il margine ha edito un piccolo libro scritto da Mattia Civico: Badheea. Dalla Siria in Italia con il corridoio umanitario. Mattia Civico si limita a raccogliere le parole di Badheea, donna siriana che racconta la propria vita dal villaggio di Al Dabaa, vicino Homs, al campo profughi in Libano, ed infine in Italia grazie al corridoio umanitario organizzato dalla Federazione delle Chiese evangeliche, dalla Tavola valdese e dalla comunità di Sant’Egidio. È quindi la storia di una donna raccontata da lei stessa – anche se trascritta da un uomo. È la storia di una vita attraversata dalla guerra e che attraversa la guerra. È la storia di una possibilità, di un modo diverso di stare nella guerra (di Badheea, ma anche dei volontari di Operazione Colomba), e per noi è lo stimolo ad avere uno sguardo diverso sulla vita che ci permetta di vedere oltre la guerra anche quando e dove la guerra ci si impone (o, aggiungo io, siamo costretti a sceglierla come nei casi della lotta al nazismo, vedi la partecipazione del pastore Dietrich Bonhoeffer ad un tentativo di omicidio di Hitler).
A fronte del senso di impotenza «la storia di Badheea racconta che invece qualcosa di diverso è possibile, a patto che si abbassino le mani e si mettano in moto i piedi (sottolineatura mia), per andare incontro. Questa storia dunque racconta innanzitutto di una donna che in mezzo alle difficoltà si fa carico della propria famiglia e cerca di metterla in salvo, dopo aver perso tutto. Racconta di un gruppo di volontari italiani, i corpi civili di pace dell’Operazione Colomba della Comunità papa Giovanni XXIII, che ha vissuto con lei e con la sua famiglia per tre anni nei campi profughi del Libano, per proteggere e condividere (…) È in definitiva una storia di persone che si sono messe sulle spalle i fragili destini degli altri. Mettendo forse in salvo innanzitutto la propria stessa umanità».
«La propria stessa umanità», ciò che propriamente è l’oggetto della sconfitta di cui narra il romanzo di Gaudé.

Il libro di Mattia Civico non ha la potenza di scrittura di quello di Laurent Gaudé, è il suo contenuto che ci afferra, indicandoci la direzione verso la quale guardare per cercare un punto di appiglio in un mondo il cui tratto distintivo sembra essere la morte e l’uccidere: il legame originario con la vita, la potenza del generarla e di custodirla grazie al quale le donne, nascostamente per migliaia di anni, hanno garantito all’umanità la possibilità di continuare a vivere, e vivere umanamente.


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