24 settembre 2018

AL CINEMA L'ULTIMO FILM DI R. ANDO'


Una storia senza nome di Roberto Andò. 
 
Interpreti: Micaela Ramazzotti, Renato Carpentieri, Laura Morante, Alessandro Gassmann, Jerzy Skolimowski, Gaetano Bruno, Antonio Catania, Marco Foschi, Renato Scarpa, Silvia Calderoni, Emanuele Salce, Paolo Graziosi, Filippo Luna, Michele Di Mauro, Giovanni Martorana

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 La scommessa di perdersi dentro un film
  di Daniela Sessa

Quando Alessadro Pes (Alessandro Gassman) entra nella stanza di Vitelli (Antonio Catania), produttore cinematografico, la macchina da presa riprende sullo sfondo una parola: invenzione. E quando l’inquadratura allargata illumina la frase di Louis Lumiere “Il cinema è un’invenzione senza avvenire” si precipita dentro una storia sinusoidale, paradossale e sfrenata. E’ “Una storia senza nome”, l’ultimo film di Roberto Andò ed è una delle più riuscite dichiarazioni d’amore al cinema. Da Buster Keaton di “La palla n°13” a Roberto Andò la storia del cinema è anche la storia della tentazione dei grandi registi di togliersi lo sfizio di giocare con la loro stessa arte. Mostrare gli ingranaggi del set, togliere le maschere agli attori, svelare gli interessi dei produttori e le stravaganze degli autori. Ad Andò interessa questo, ma vuole di più. Vuole il film. Lo vuole nel momento in cui è idea, è storia senza immagine e senza suono. Un copione dall’identità incompiuta, una storia innominata e innominabile. La storia è quella del furto della “Natività” di Caravaggio. Una leggenda che dal 1969 attraversa dall’Oratorio di San Lorenzo (o dell’Immacolatella) di Palermo la storia d’Italia, quella tragica e imbarazzante della mafia e della politica, della famosa Trattativa e del 41bis, di superpoliziotti e di pentiti, di Commissioni Antimafia e di indagini FBI che portano ai confini di un mondo che è forse il porcile in cui i brandelli della meravigliosa tela furono dati in pasto ai maiali  (Andò riprende quest’ipotesi insieme ad altre tutte legate all’epica mafiosa) o forse il Giappone o forse qualche caveau di una banca svizzera o di un collezionista. Roberto Andò tratta quel furto per quello che è: il luogo dell’ambiguità, del mistero, della cialtroneria. Non lo sottrae alla riflessione civile. Andò non potrebbe: tradirebbe se stesso se non dicesse che la delinquenza mafiosa e le sue complicità istituzionali hanno sottratto legalità al nostro Paese e ne hanno sporcato la bellezza. Ma questo ennesimo mistero italiano è nel film solo un pretesto, anzi per dirla con le parole di Andò “quasi il dispositivo dell’indagine”. Un’espressione che Leonardo Sciascia avrebbe approvato, anche perché il film a Sciascia di “Una storia semplice” deve qualcosa: quel celebre furto e la levità nello scrivere d’imposture.

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Il film di Andò, scovata la storia, prende respiro e diventa uno stravagante puzzle di situazioni, personaggi, citazioni fagocitati da una macchina da presa che riduce in celluloide realtà e fantasia, verità e menzogna. “Un atto fantastico”, lo ha definito Andò. Ed è così. Voler chiudere il film in una definizione di genere è cadere nella trappola giocosa del regista che, sempre colto e raffinato, in quel nastro di celluloide ha impresso un noir, un thriller a tratti anche erotico, una sofisticated comedy, una farsa per spiazzare attori e spettatori, accompagnandoli dinanzi all’altare della finzione fino a pronunciare tutti insieme una battuta del film “La verità è sempre necessaria?”. Esiste ciò che viene raccontato e non sempre chi racconta è ciò che è. Identità metamorfiche gemellari. Il doppio che Andò ha celebrato in “Viva la libertà” qui si moltiplica e ogni personaggio ha il suo doppio: la carrellata sulle gemelle suggerisce il sovrasenso. Il doppio di “Una storia senza nome” va slegato da letture che non siano comiche: rovesciare è il verbo del cinema, è l’atto della fotografia, è la resa dell’immagine. Valeria Tramonti (Micaela Ramazzotti) fa la ghost writer di Alessandro Pes, sceneggiatore di successo ma in crisi creativa. Per tutti è però la scialba segretaria di uno studio di produzione -persino per la madre Amalia Roberti (Laura Morante)- che riceve in dono da un ambiguo investigatore in pensione Alberto Rak (Renato Carpentieri) la storia senza nome del furto senza fine. Valeria, però, non esiterà a trasformarsi in femme fatale in una sequenza quasi di celia dove la sottrazione degli indumenti, il gel nei capelli e il rossetto sulle labbra diventano l’epifania di una donna che non lascia a metà le storie, nemmeno se per terminarle deve scimmiottare la Nikita di Luc Besson o acconciare movenze, caschetto e sigaretta alla Monica Vitti. La citazione è la strategia metacinematografica di Andò.
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Non è solo Gassman figlio che cita Gassman padre con una voluta forzatura del personaggio mascalzone al limite dell’arcitaliano ma è l’inquadratura dall’alto del motoscafo che cita 007 e la spy story , è il bianco e nero che cita la novelle vague e il cinema in bianco e nero, è citare se stesso infilandosi in una inquadratura o farsi doppio nel regista Jerzy Kunze (interpretato dal regista Jerzy Skolimowski), è il numero di battute (mitragliate da Gassman nella scena del pestaggio) e titoli di film messi dentro il film (“Viale del tramonto” di Billy Wilder, il regista che insieme a Peter Bogdanovich, ha ispirato Andò in questo suo lavoro), è mostrare tutto il processo creativo del film. Se tutto complica la trama, se fa giocare a rimpiattino con la scena madre e fa temere di perdere il filo della storia, si ricordi che su questa scommessa ha puntato Andò. Perdersi dietro e dentro una storia è la magia del cinema, la ragione per cui si fa cinema, la passione con cui si guida la macchina dei sogni. Andò si è permesso, nel pieno della maturità artistica e intellettuale, di scrivere (con Angelo Pasquini e Giacomo Bendotti) e di girare un film colto e personale. Poteva essere un limite, ma l’intimità tra Andò e il cinema è il pregio dl film. Andò alza l’asticella della cinefilia: amare il cinema vuol dire conoscerlo e riconoscerlo, maneggiarlo, crearlo anche solo con l’atto di guardarlo dentro una sala, applaudirlo e piangere di commozione, come nelle migliori commedie americane quando le lacrime bagnano i baci. Andò si permette ancora di più: chiede di divertirsi insieme a lui. Il film ha punte di comicità affidate al fulmine sonoro di Lucio Dalla, all’ironia di Amleto di Shakespeare messo a far da didascalia al gioco erotico, al grottesco con la balbuzie di Diego Spadafora (Gaetano Bruno) e il travestimento del latitante Agate (Silvia Calderoni), alla beffa con la battuta “Detesto Lars Von Trier!”. Colpiscono nel film di Andò il cortocircuito felice tra impegno e arte (la Natività può finire la sua storia solo immaginandola) e la felicità di sbizzarrirsi con la varietà delle inquadrature (il montaggio è di Esmeralda Calabria, la fotografia di Maurizio Calvesi): i primi piani che rincorrono le carrellate indietro e queste che inseguono angolazioni verticali che a volte fissano un particolare.  Un movimento da thriller che la musica, bellissima, di Marco Betta è attenta a sottolineare. Un film intenso e straniante con un cast sempre all’altezza, capace anche (specialmente) nei ruoli di contorno (tra tutti Gaetano Bruno) di interpretare quel labile confine tra commedia e dramma che la sceneggiatura imponeva. Che la visione di Andò imponeva.  Scorrono i titoli di coda sui putti di Serpotta e lo spettatore resta immerso nella sontuosa e sorridente malinconia della Bellezza. Forse a un film, al cinema non deve chiedersi altro.

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