11 settembre 2018

S. GARUFI, Quando conobbi Borges


Scrivere per dimenticarsi. Quando conobbi Borges


Tanti anni fa, quando le terze pagine stavano dove dicevano di essere, io mi fidavo della letteratura. La sera aspettavo con trepidazione che mio padre rincasasse dall’ufficio col Corriere, e dopo cena m’immergevo nella lettura della pagina culturale. Gli articoli che preferivo erano quelli più netti, che stroncavano o lodavano un libro con decisione, e fu grazie a uno di questi che inciampai in Jorge Luis Borges. Erano i primi di ottobre, la vigilia del premio Nobel, e il giornale aveva raccolto dei pronostici riguardo al possibile vincitore. Più d’uno scrittore affermava che lo meritasse l’argentino, e questa concordanza, insieme a un elogio di Calvino, che lo definiva “l’ultimo grande mostro sacro della letteratura mondiale”, mi convinsero a comprare il suo ultimo libro, la raccolta di poesie La Cifra.
Era il 1982, e io non avevo ancora vent’anni. Cominciai a leggerlo sul tardi, a letto, e la prima cosa che trovai fu la dedica a Maria Kodama, l’assistente che Borges sposò poco prima di morire. Mi piacque talmente che la ricordo ancora a memoria, per il suo stile chiaro e luminoso come acqua di fonte. Fui sopraffatto dall’emozione, e pensai che quella novella Beatrice fosse la donna più fortunata del mondo. Il mio studio matto e disperatissimo di Borges cominciò allora. Lessi tutti i suoi scritti, mi ubriacai di tigri, labirinti, specchi, e a un certo punto mi accorsi che quelle storie non si depositavano in me come materiali inerti, ma si ramificavano nella mia immaginazione, creavano collegamenti, generavano altre storie. In breve, pensai che lui rappresentasse il momento centrale della storia della letteratura: tutto ciò che lo aveva preceduto preparava il suo avvento, tutto ciò che sarebbe seguito non avrebbe potuto prescinderne.
Così decisi di dedicarmici completamente, e lasciai Giurisprudenza per Lingue. Mio padre disapprovò, sperava che portassi avanti il suo studio legale e cercò di convincermi a restare, ma io non sentii ragione. Ormai non pensavo ad altro, volevo fare la tesi su di lui e sognavo di diventare un ispanista come Emir Rodriguez Monegal, che insegnava a Yale ed ebbe l’illuminazione sul suo destino a soli quindici anni, leggendo un pezzo di Borges su una rivista femminile.
Presi a bazzicare convegni di ispanistica e scoprii un ambiente molto politicizzato, pieno di baroni che simpatizzavano per Sendero luminoso e ammiravano autori impegnati come Neruda e Asturias. Borges non rientrava in quel pantheon, ed era quasi sconveniente nominarlo, perciò strinsi amicizia con Roberto Paoli, uno dei pochi accademici controcorrente, che insegnava a Firenze e amava l’argentino.
Nel marzo dell’84 fu proprio Paoli ad avvisarmi che il mio idolo si trovava a Vicenza e avrebbe parlato all’Accademia Olimpica. Non ci pensai due volte, presi il treno e partii. Borges aveva ottantatre anni e viveva all’altro capo del mondo, quando mi sarebbe ricapitata un’occasione simile? Arrivai al reading immaginando il solito pubblico di happy few, e invece trovai una folla incontenibile. Altro che “scrittore per scrittori”, come sentenziavano i suoi detrattori.
La conferenza fu una delusione. Borges parlò in francese e non capii nulla, in più per la calca faticai a sentirlo e non riuscii a farmi fare un autografo. Insomma, ero avvilito, ma non volevo tornarmene a casa a mani vuote, così chiesi a un giornalista se conosceva i suoi programmi, e questi mi rivelò che avrebbe dormito all’Hotel Londra Palace di Venezia.
Per farmi ricevere da lui pregai mio padre di telefonare in albergo per fissarmi un appuntamento tramite la Kodama, alla quale doveva dire che stavo preparando la tesi su di lui e che non gli avrei preso molto tempo. Ricevuto il via libera di mio padre, l’indomani mattina mi presentai puntuale alla reception, ma la Kodama mi accolse con fastidio, come fossi uno scocciatore, e solo per la mia insistenza acconsentì a farmi parlare con lui per il tempo della colazione.
Salii due piani e, giunto davanti alla porta, sentii una voce tremula che declamava dei versi in inglese. Alla prima pausa bussai timidamente e, senza il minimo cambiamento di voce, Borges rispose: ”Lasciate ogni speranza voi che entrate”.
Aprii trattenendo il fiato e vidi un vecchio in penombra seduto ai piedi del letto, davanti a una tazza fumante poggiata su un tavolo. La stanza odorava vagamente di umidità. Dalle sopratende accostate filtrava qualche raggio di luce pulviscolare che si depositava sui radi capelli bianchi e sugli occhi gonfi e spenti.
Ero lì, a tu per tu con un mito, e ricordo soprattutto dettagli insignificanti come il fatto che gli annodai la cravatta, che misi lo zucchero nel caffellatte e che gli guidai la mano per prendere la tazza. Forse per questo mi passò presto l’imbarazzo. Gli ero utile, mi prendevo cura di lui, e Borges ricambiava parlando, citando poesie e raccontando aneddoti personali.
Cominciò dal café con leche, che si stava sorbendo con gusto. Disse che da giovane, con l’amico Xul Solar si divertivano a sperimentare nuove combinazioni di alimenti, come le sardine col cioccolato, e dicendolo faceva delle smorfie di disgusto e rideva. Sembrava enunciasse il manifesto della cucina postmoderna, perché “las buenas combinaciones ya fueron inventadas” e il café con leche era insuperabile.
Poi passammo alla poesia, gli chiesi cosa stesse recitando quando avevo bussato, e Borges ripeté dei versi di Shakespeare. Si capiva che amava declamare, e infatti continuò con un ipallage di Virgilio, poi un sonetto di Quevedo, la “rosa senza perché” di Silesius e l’incipit del Purgatorio di Dante.
Dopo aver ascoltato quell’antologia privata gli feci una domanda stupida, di cui mi pentii subito: con quali versi voleva essere ricordato? Io ne avevo tanti in mente suoi, ma la sua replica fu secca. “No me gusta la idea de que me recuerden después de muerto. Yo quiero morir entero, olvidarme y ser olvidado”.
Ammutolii. Avevo già letto affermazioni del genere in qualche intervista, ma credevo fosse un eccesso di falsa modestia, invece non c’era alcuna affettazione nelle sue parole. Quasi indovinando i miei pensieri, aggiunse: “Estoy un poco harto de mí mismo”. Forse era stanco di viaggiare, di recitare la parte del guru al quale chiedono sempre le stesse cose. Ma se desiderava essere dimenticato, perché scrivere libri?, lo incalzai. E lui mi spiegò con pazienza, come per tranquillizzarmi: “Escribo un libro para olvidarme de ese libro, y escribo también para olvidarme”. Disse che voleva smettere di svegliarsi ogni mattina ed essere Borges. Lo faceva spesso, di parlare di sé in terza persona, ma non per megalomania. Credo fosse una specie di sdoppiamento tra la figura pubblica e quella privata. Forse si rendeva conto di essere diventato meno un uomo che una vasta e complessa letteratura, com’ebbe a dire lui stesso di un classico. D’altronde anch’io lo chiamavo Borges, senza premettere alcun titolo, come se il suo nome fosse diventato sinonimo di Maestro.
Dopo poco la Kodama si affacciò alla stanza rammentandogli i suoi impegni. Il mio tempo era scaduto. Borges si alzò in piedi appoggiandosi a me e mi chiese di porgergli la giacca, ma volle raccontarmi un’ultima storia. Era un aneddoto riguardante sua madre, Leonor, che gli fece da angelo custode dopo che diventò cieco. Avevano vissuto nella stessa casa di Buenos Aires a lungo, perché lei campò quasi cent’anni, di cui più di trenta da vedova. Ebbene, ogni volta che andava a dormire era solita dire alla governante: “Que me recuerde a las ocho”, cioè voglio essere ricordata a me stessa alle otto. Non conoscevo quell’espressione spagnola, ma il senso era chiaro, perché la sveglia mattutina è essenzialmente questo, il ridestarsi della coscienza, e lui ora preferiva l’oblio.
Dopo fu tutto diverso. Dopo chiamai casa e seppi che in realtà non avevo alcun appuntamento con Borges: mio padre aveva mentito e io mi infuriai e lo ringraziai per questo. Dopo in treno mi mulinarono mille pensieri: sulla sterminata letteratura che attribuisce alla memoria il compito di dovere etico, e all’oblio quello di perdita tragica e colpevole. Dopo l’oblio per me non fu più solo un mostro vorace e spietato, ma anche un prete compassionevole che concede l’assoluzione a chiunque, perché tanto colui che è stato non può più non esser stato, e proprio questo è il suo umile viatico per l’eternità.
Borges intanto continuava il suo tour di oracolo itinerante. Il mondo faceva a gara per averlo, e lui si concedeva a tutti con facilità. Di quel frenetico periodo da globe-trotter, quando lo colpì il castigo della consacrazione, resta la testimonianza fotografica del libro Atlas, in cui le immagini scattate dalla Kodama lo ritraggono su una mongolfiera, o mentre carezza una tigre in uno zoo, o in un monastero shintoista, sempre sorridente e gentile. A poco a poco divenne un munifico  dispensatore di apologhi prêt-à-porter ad uso della chiacchiera culturale, sicché, dopo Borges, chiunque oggi aneli a ribadire la storicità del testo letterario non priverà certo il suo uditorio della voluttuosa citazione del Pierre Menard.
Ci ritrovammo a Roma, nell’ottobre ’84. Per quattro giorni lo seguii dappertutto come uno stalker: all’Accademia dei Lincei, alla Sapienza per la laurea honoris causa, all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e a un ricevimento all’Ambasciata Argentina. Parlammo anche da soli nella sua camera all’hotel Ambasciatori Palace, ma ricordo poco di quegli incontri, se non che fu l’unica volta che ci fotografarono assieme. In verità mi infastidiva un po’ il circo che gli era stato allestito intorno, la vulgata turistica, la ricerca del caratteristico, i piatti tipici borgesiani a menu fisso. Eleggendolo a mio mentore ne ero diventato geloso, avevo sviluppato nei suoi confronti un amore possessivo, e a chi voleva consigli di lettura facevo altri nomi, come se bisognasse meritarselo.
L’ultima volta fu a Milano, la mia città, nell’autunno dell’85. Dopo averlo sentito parlare nell’aula magna della Statale per conto di una fantomatica Aging Foundation che si occupava di problemi geriatrici, andai con lui, mio padre e il prof. Paoli in un ristorante lì vicino. La Kodama non partecipò, aveva delle faccende da sbrigare e ce lo affidò per il tempo della cena.  Borges sembrava di buon umore. Le rumorose proteste degli ispanisti, esclusi dall’organizzazione dell’incontro e relegati in fondo alla sala, non gli avevano guastato l’appetito. Ricordo che papà lo ascoltò quasi sempre in silenzio, mentre Paoli gli chiedeva di Schopenhauer e io lo interrogavo su dei passi del racconto La morte e la bussola. Riuscì a malapena a finire il suo risotto, tante erano le domande cui doveva rispondere. Forse stanco di stare al centro delle attenzioni, o incuriosito dalla presenza muta di mio padre, Borges cominciò a fargli delle domande. Gli chiese che lavoro facesse e cosa leggesse, e lui, con un po’ di imbarazzo e il suo spagnolo maccheronico, spiegò che era un avvocato e che alla narrativa preferiva i saggi, soprattutto di storia della filosofia. Al che Borges esclamò: “como mi padre!” E, prendendo spunto dalla macedonia che gli avevano appena servito, raccontò del modo in cui, quand’era piccolo, suo babbo gli aveva spiegato l’idealismo di Berkeley con l’ausilio di un’arancia, chiedendogli se secondo lui il gusto dell’arancia stava dentro l’agrume o nella bocca di chi l’assaggiava. Quello che aveva capito in quel remoto giorno della sua infanzia, e che non riguardava solo l’idealismo di Berkeley, è che il mondo è fatto soprattutto di relazioni, e che il senso delle cose non sta dentro di loro ma nel rapporto che s’instaura con chi le percepisce, così come il sapore di un frutto lo determina l’incontro col palato di chi l’assaggia. Presto, purtroppo, tornò Maria a reclamarlo, e ci salutammo dandoci appuntamento a giugno dell’anno seguente, quando avrebbe dovuto inaugurare a Firenze il Nono Congresso Mondiale dei Poeti. Morì pochi giorni prima, a Ginevra. Io sono l’unico superstite di quella cena.

Pezzo già pubblicato sul Foglio e ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/ che ringraziamo.

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