Capitalismo
digitale. Tra i nostri ordini online e il fatturato miliardario
di Jeff Bezos c’è una piattaforma che organizza una forza lavoro
globale composta da italiani e stranieri. Inchiesta sul mondo degli
algoritmi, le nuove catene di montaggio, la logistica e i nuovi
conflitti. Come la cultura aziendale della Silicon Valley è stata
importata in Italia.
Alessandro Delfanti
Amazon è la nuova
Fiat
Mentre Amazon raggiunge
il valore di un trilione di dollari e Jeff Bezos si conferma tra le
persone più ricche del mondo, cosa succede nei suoi magazzini? Tra i
nostri ordini online e il fatturato di Bezos c’è un sistema basato
su una piattaforma che organizza una forza lavoro immensa, velocizza
il lavoro, e contribuisce a renderlo meno qualificato e più
instabile. Ma anche in un contesto dominato dalle tecnologie
digitali, per capire la realtà del lavoro contemporaneo è utile
tornare a leggere alcuni studi classici sul lavoro industriale.
Infatti anche se la gran parte delle migliaia di lavoratori e
lavoratrici che varcano ogni giorno i cancelli di Amazon non hanno
esperienza di lavoro in fabbrica, ci sono somiglianze tra le catene
di montaggio degli anni ‘60 e gli scaffali gestiti dagli algoritmi
della multinazionale.
Negli anni ‘60 uno dei
primi teorici operaisti, Romano Alquati, studiava il lavoro in alcune
delle imprese più rappresentative del capitalismo italiano del
dopoguerra: Fiat e Olivetti. Le sue idee contribuirono all’analisi
delle trasformazioni del lavoro e delle lotte operaie in una nuova
relazione tra capitalismo e tecnologia. Tra le caratteristiche
studiate da Alquati ci sono il «mito» della Fiat come creatrice di
lavoro privilegiato e fonte di emancipazione e modernizzazione, la
capacità di sfruttare nuove masse di lavoratori non qualificati, le
difficoltà sperimentate dai sindacati nel comunicare con questi
nuovi soggetti, e infine il ruolo politico delle rigide gerarchie
interne. Ovviamente questa continuità all’interno del capitalismo
italiano, come nel caso del magazzino di Castel San Giovanni (PC),
non è che la cornice per il nuovo modello produttivo delle
corporation digitali americane.
Il mito del lavoro ad
Amazon si basa su diversi elementi. Da un lato, Amazon assume
migliaia di persone con contratti e tempo indeterminato, una rarità
nel panorama delle altre multinazionali della logistica di Piacenza e
della pianura padana. Dall’altro, Amazon ha importato elementi
della cultura aziendale della Silicon Valley dentro i suoi magazzini.
Per esempio, l’azienda fornisce aree comuni dove i lavoratori
possono giocare a calciobalilla, crea un ambiente di lavoro informale
in cui i lavoratori possono vestirsi come preferiscono o ascoltare
musica ad alto volume, e usa un linguaggio (il cosiddetto
«amazoniano») che italianizza parole inglesi come “stoware” o
“lead” invece di usare le corrispondenti italiane (stoccare e
caposquadra). Questi elementi sono usati per presentare Amazon come
luogo di lavoro moderno e giovane. Ad ogni inizio turno, una sessione
motivazionale di qualche minuto guidata da un «manager» (capoturno)
cerca di convincere i lavoratori a credere nella missione di Amazon.
Eppure questo progetto ideologico sembra una mossa disperata di
fronte alla realtà del lavoro nel magazzino.
Nel suo lavoro sulla
FIAT, Alquati sottolineava come l’azienda usasse l’introduzione
di nuove tecnologie sulle linee di produzione per poter usufruire
della massa di operai non qualificati che stava emigrando verso
Torino dalle aree depresse e rurali del Sud. Ad Amazon lo scanner per
codici a barre (la pistola sparacodici), che indica ai lavoratori la
collocazione di una merce e permette di inserire nel sistema
l’avvenuto prelievo (o meglio «pick»), è la tecnologia
principale su cui si basano questi processi di dequalifica. Anche il
brevetto depositato alcuni mesi fa da Amazon per un braccialetto
elettronico che guiderà la mano del picker verso l’oggetto giusto
ha lo stesso scopo: non automare la produzione, ma piuttosto
velocizzare e intensificare il lavoro vivo, semplificando e
standardizzando i compiti e quindi riducendo la necessità di
manodopera qualificata. Amazon assume masse di lavoratori privi di
esperienza o specializzazione, che possono essere addestrati in poche
ore. In questo modo Amazon gode di grande flessibilità
nell’organizzazione del lavoro, e può introdurre di continuo nel
magazzino lavoratori nuovi, disposti a tollerare ritmi di lavoro
elevati e turni imprevedibili.
Durante i picchi di
produzione come Natale, l’azienda non può fare affidamento solo
sulla forza lavoro locale e deve pescare al di fuori del territorio
attorno a Castel San Giovanni. Per esempio, pullman anonimi gestiti
da agenzie interinali portano decine di giovani lavoratori precari a
lavorare nel magazzino da città vicine o persino da quartieri
popolari di Milano. I cosiddetti «badge verdi» (mentre i lavoratori
assunti da Amazon portano un badge blu) non hanno alcuna certezza e
possono essere assunti con contratti che vanno da pochi giorni a
qualche mese. I picker, stower e packer che costituiscono la
maggioranza della forza lavoro del magazzino sono chiamati «ragazzi»
invece che lavoratori, un titolo riservato ai meccanici che
gestiscono le linee.
La natura precaria del
lavoro ad Amazon è esacerbata delle gerarchie interne, che Alquati
alla Fiat chiamava «assurde» e di chiara natura politica. Ad
Amazon, la divisione del lavoro sembra essere funzionale a far
accettare ai lavoratori la disciplina più che rispondere a logiche
organizzative. Come alla Fiat negli anni ‘60, un lavoratore può
acquisire competenze tecniche o organizzative, per esempio lavorando
con gli algoritmi che distribuiscono i compiti ai picker, solo per
essere scavalcato nella gerarchia interna da manager assunti
dall’esterno, più pronti all’obbedienza e ad esprimere fede nel
mito e nella cultura aziendale di Amazon.
Le «forze nuove» negli
anni ‘60, analizzate da Alquati, erano il risultato delle
migrazioni interne verso il Nord in rapida industrializzazione. Il
sindacato faticava a comunicare con questa nuova massa di lavoratori
che entravano in Fiat. Tuttavia Alquati seppe prevederne il
potenziale politico, che sarebbe esploso da lì a pochi anni. Oggi i
lavoratori e le lavoratrici di Amazon sono piuttosto il risultato di
migrazioni globali, e i bianchi italiani ne sono solo una componente.
Provengono dalla provincia e dalle periferie, con una grande
variabilità in termini di età e persino ceto sociale. Questa
diversità contribuisce a rendere il lavoro sindacale difficile, e i
confederali tendono a organizzare lavoratori bianchi italiani.
Ma ci sono anche fattori
politici. Amazon è la sola grande azienda logistica della zona ad
avere impedito con successo l’ingresso del sindacato Si Cobas,
tramite il quale lavoratori migranti, soprattutto dal Maghreb, sono
stati protagonisti di lotte ad Ikea e Gls, e giovani precarie sono
state in prima fila al magazzino di H&M. Ad Amazon, i sindacati
confederali raggiungono già centinaia di lavoratori, ma faticano a
includere i nuovi soggetti che rappresentano una parte significativa
della forza lavoro (i «ragazzi») e possono resistere alle
condizioni di lavoro del magazzino solo andandosene. In futuro i
processi di ricomposizione e le alleanze che sono all’opera in
altre aziende potrebbero espandersi ad Amazon, e questo potrebbe
essere esplosivo per l’evoluzione dell’economia digitale
italiana.
Il manifesto – 19
settembre 2018
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