19 settembre 2018

AMAZON E' LA NUOVA FIAT


Capitalismo digitale. Tra i nostri ordini online e il fatturato miliardario di Jeff Bezos c’è una piattaforma che organizza una forza lavoro globale composta da italiani e stranieri. Inchiesta sul mondo degli algoritmi, le nuove catene di montaggio, la logistica e i nuovi conflitti. Come la cultura aziendale della Silicon Valley è stata importata in Italia.
Alessandro Delfanti
Amazon è la nuova Fiat
Mentre Amazon raggiunge il valore di un trilione di dollari e Jeff Bezos si conferma tra le persone più ricche del mondo, cosa succede nei suoi magazzini? Tra i nostri ordini online e il fatturato di Bezos c’è un sistema basato su una piattaforma che organizza una forza lavoro immensa, velocizza il lavoro, e contribuisce a renderlo meno qualificato e più instabile. Ma anche in un contesto dominato dalle tecnologie digitali, per capire la realtà del lavoro contemporaneo è utile tornare a leggere alcuni studi classici sul lavoro industriale. Infatti anche se la gran parte delle migliaia di lavoratori e lavoratrici che varcano ogni giorno i cancelli di Amazon non hanno esperienza di lavoro in fabbrica, ci sono somiglianze tra le catene di montaggio degli anni ‘60 e gli scaffali gestiti dagli algoritmi della multinazionale.
Negli anni ‘60 uno dei primi teorici operaisti, Romano Alquati, studiava il lavoro in alcune delle imprese più rappresentative del capitalismo italiano del dopoguerra: Fiat e Olivetti. Le sue idee contribuirono all’analisi delle trasformazioni del lavoro e delle lotte operaie in una nuova relazione tra capitalismo e tecnologia. Tra le caratteristiche studiate da Alquati ci sono il «mito» della Fiat come creatrice di lavoro privilegiato e fonte di emancipazione e modernizzazione, la capacità di sfruttare nuove masse di lavoratori non qualificati, le difficoltà sperimentate dai sindacati nel comunicare con questi nuovi soggetti, e infine il ruolo politico delle rigide gerarchie interne. Ovviamente questa continuità all’interno del capitalismo italiano, come nel caso del magazzino di Castel San Giovanni (PC), non è che la cornice per il nuovo modello produttivo delle corporation digitali americane.
Il mito del lavoro ad Amazon si basa su diversi elementi. Da un lato, Amazon assume migliaia di persone con contratti e tempo indeterminato, una rarità nel panorama delle altre multinazionali della logistica di Piacenza e della pianura padana. Dall’altro, Amazon ha importato elementi della cultura aziendale della Silicon Valley dentro i suoi magazzini. Per esempio, l’azienda fornisce aree comuni dove i lavoratori possono giocare a calciobalilla, crea un ambiente di lavoro informale in cui i lavoratori possono vestirsi come preferiscono o ascoltare musica ad alto volume, e usa un linguaggio (il cosiddetto «amazoniano») che italianizza parole inglesi come “stoware” o “lead” invece di usare le corrispondenti italiane (stoccare e caposquadra). Questi elementi sono usati per presentare Amazon come luogo di lavoro moderno e giovane. Ad ogni inizio turno, una sessione motivazionale di qualche minuto guidata da un «manager» (capoturno) cerca di convincere i lavoratori a credere nella missione di Amazon. Eppure questo progetto ideologico sembra una mossa disperata di fronte alla realtà del lavoro nel magazzino.
Nel suo lavoro sulla FIAT, Alquati sottolineava come l’azienda usasse l’introduzione di nuove tecnologie sulle linee di produzione per poter usufruire della massa di operai non qualificati che stava emigrando verso Torino dalle aree depresse e rurali del Sud. Ad Amazon lo scanner per codici a barre (la pistola sparacodici), che indica ai lavoratori la collocazione di una merce e permette di inserire nel sistema l’avvenuto prelievo (o meglio «pick»), è la tecnologia principale su cui si basano questi processi di dequalifica. Anche il brevetto depositato alcuni mesi fa da Amazon per un braccialetto elettronico che guiderà la mano del picker verso l’oggetto giusto ha lo stesso scopo: non automare la produzione, ma piuttosto velocizzare e intensificare il lavoro vivo, semplificando e standardizzando i compiti e quindi riducendo la necessità di manodopera qualificata. Amazon assume masse di lavoratori privi di esperienza o specializzazione, che possono essere addestrati in poche ore. In questo modo Amazon gode di grande flessibilità nell’organizzazione del lavoro, e può introdurre di continuo nel magazzino lavoratori nuovi, disposti a tollerare ritmi di lavoro elevati e turni imprevedibili.
Durante i picchi di produzione come Natale, l’azienda non può fare affidamento solo sulla forza lavoro locale e deve pescare al di fuori del territorio attorno a Castel San Giovanni. Per esempio, pullman anonimi gestiti da agenzie interinali portano decine di giovani lavoratori precari a lavorare nel magazzino da città vicine o persino da quartieri popolari di Milano. I cosiddetti «badge verdi» (mentre i lavoratori assunti da Amazon portano un badge blu) non hanno alcuna certezza e possono essere assunti con contratti che vanno da pochi giorni a qualche mese. I picker, stower e packer che costituiscono la maggioranza della forza lavoro del magazzino sono chiamati «ragazzi» invece che lavoratori, un titolo riservato ai meccanici che gestiscono le linee.
La natura precaria del lavoro ad Amazon è esacerbata delle gerarchie interne, che Alquati alla Fiat chiamava «assurde» e di chiara natura politica. Ad Amazon, la divisione del lavoro sembra essere funzionale a far accettare ai lavoratori la disciplina più che rispondere a logiche organizzative. Come alla Fiat negli anni ‘60, un lavoratore può acquisire competenze tecniche o organizzative, per esempio lavorando con gli algoritmi che distribuiscono i compiti ai picker, solo per essere scavalcato nella gerarchia interna da manager assunti dall’esterno, più pronti all’obbedienza e ad esprimere fede nel mito e nella cultura aziendale di Amazon.
Le «forze nuove» negli anni ‘60, analizzate da Alquati, erano il risultato delle migrazioni interne verso il Nord in rapida industrializzazione. Il sindacato faticava a comunicare con questa nuova massa di lavoratori che entravano in Fiat. Tuttavia Alquati seppe prevederne il potenziale politico, che sarebbe esploso da lì a pochi anni. Oggi i lavoratori e le lavoratrici di Amazon sono piuttosto il risultato di migrazioni globali, e i bianchi italiani ne sono solo una componente. Provengono dalla provincia e dalle periferie, con una grande variabilità in termini di età e persino ceto sociale. Questa diversità contribuisce a rendere il lavoro sindacale difficile, e i confederali tendono a organizzare lavoratori bianchi italiani.
Ma ci sono anche fattori politici. Amazon è la sola grande azienda logistica della zona ad avere impedito con successo l’ingresso del sindacato Si Cobas, tramite il quale lavoratori migranti, soprattutto dal Maghreb, sono stati protagonisti di lotte ad Ikea e Gls, e giovani precarie sono state in prima fila al magazzino di H&M. Ad Amazon, i sindacati confederali raggiungono già centinaia di lavoratori, ma faticano a includere i nuovi soggetti che rappresentano una parte significativa della forza lavoro (i «ragazzi») e possono resistere alle condizioni di lavoro del magazzino solo andandosene. In futuro i processi di ricomposizione e le alleanze che sono all’opera in altre aziende potrebbero espandersi ad Amazon, e questo potrebbe essere esplosivo per l’evoluzione dell’economia digitale italiana.
Il manifesto – 19 settembre 2018

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