Alla Chiesa i racconti di Marco Polo piacevano poco. I frati esortavano a
tagliare i brani del «Milione» dedicati ai costumi erotici dei
popoli dell'Asia
Gian Antonio Stella
«Censurate Marco
Polo»
«E le donne sono belle, gioiose e sollazzevoli». Immaginatevi il ribollio di sensi che doveva provare un lettore trecentesco a leggere i racconti di viaggio di messer Marco Polo. Stordito dal turbamento, scrive il filologo Giulio Busi, il frate domenicano Jacopo da Acqui si diede la pena «di redigere, verso il 1330, un bel riassunto di tutti, o quasi, i passi che il Milione dedica a nudità, pulzellaggi, matrimoni e promiscuità sessuale». E fra Francesco Pipino da Bologna andò oltre e compilò una lista dettagliata. Pagine da saltare.
Via quelle sulle ragazze dell’India meridionale, «donzelle» che «finché sono tali, hanno delle carni talmente dure che non riesce a nessuno in nessuna maniera di stringerle o pizzicarle in nessuna parte! E si noti che pagando un denaro piccolo uno è libero di pizzicarle...». Via quelle sul Celeste Impero, dove «le donne sono bianchissime, hanno bellissime carni e sono fatte alla perfezione in tutte le membra» e sul Gran Kan il quale, «quando gli talenta», si fa selezionare «quattro o cinquecento fanciulle» e poi «ne fa dare una a ciascuna delle mogli dei baroni, perché se le mettano a dormire nello stesso letto ed osservino con gran cura se son vergini e perfettamente sane sotto ogni aspetto, se dormono soavemente od invece russino, se abbiano buono e dolce alito…». Per non dire del Tibet, dove «per nulla al mondo uno prenderebbe in moglie una vergine: dicono che non val nulla una donna la quale non abbia usato con molti uomini» e dunque le madri, se «sono di passaggio per quella contrada dei forestieri», offrono loro le figlie e «gli uomini le accolgono e si sollazzano seco loro, tenendole tutto il tempo che vogliono»…
Sono passati più di sette secoli dal 1298 in cui Marco Polo, partito per la Cina col padre Niccolò e lo zio Matteo nel 1271, rientrato ventiquattro anni dopo a Venezia per ripartire presto verso nuove imprese, ma finito in galera a Genova, dettò a Rustichello da Pisa il viaggio più avventuroso di tutti i tempi. Un libro per «imperatori e re, duchi e marchesi, conti, cavalieri e borghesi»: «Troverete qui tutte le immense meraviglie, tutte le grandi singolarità delle grandi contrade d’Oriente!». E «senza nessuna menzogna».
Oddio, qualche
frottola c’è. Come le righe dedicate ai cinocefali delle Andamane:
«Dovete sapere che gli abitanti di quest’isola hanno tutti la
testa canina; hanno gli occhi ed i denti da cane. Vi accerto che
rassomigliano tutti, nel capo, ad un grosso mastino». L’aveva
orecchiato da altri. Va detto però, che frenando anche Rustichello
(più portato al fantasy, diremmo oggi), corresse antiche leggende
spiegando ad esempio che il favoloso liocorno, nella realtà un
rinoceronte di Sumatra, «ha in mezzo alla fronte un grossissimo
corno nero… ha la testa fatta come quella del porco selvatico» e
«non è affatto come la diciamo e descriviamo noi, nei nostri paesi:
la bestia che si lascia prendere in grembo da una vergine. Vi accerto
che è proprio tutto l’opposto…».
In ogni caso, che descriva il Monte Verde «che il Gran Signore ha fatto coprire di lapislazzuli» o le notti nel deserto dove il viaggiatore si perde udendo parlare gli spiriti, «la prosa del Milione è un unico, dettagliato, coloratissimo quadro, lungo più di vent’anni di vita», scrive Giulio Busi, autore per Mondadori di Marco Polo. Viaggio ai confini del Medioevo: «Leggete questo libro come se lo vedeste dipinto, miniato in tinte smaltate e brillanti, e avrete trovato Marco».
Ed è così. La rilettura di quello che il grande critico letterario Attilio Momigliano considerava «il libro più grandioso del Duecento», restituisce nell’ammasso di informazioni pratiche allora preziosissime e oggi superate da Google Maps («La provincia è bagnata da due mari. Ha da una parte il Mar Maggiore e dall’altra…») pepite d’oro di eccezionale fascino, bellezza e freschezza.
Come la descrizione di certe battute di caccia dell’imperatore Qubilai, signore della Cina: «E il Gran Signore resta sempre sopra quattro elefanti, in una bellissima camera di legno, tutta ricoperta al di dentro di drappi d’oro battuto e al di fuori di pelli di leone. In essa dimora continuamente il Gran Kan, quando va a uccellare, per causa della gotta che lo molesta. Egli vi tiene sempre dodici girifalchi, dei suoi migliori. Vi stanno pure parecchi baroni e parecchie dame per divertirlo e fargli compagnia».
E appena «i baroni
che cavalcano intorno a lui gli gridano: “Sire! Passano delle gru”,
egli subito fa scoperchiare la sua camera e vede le gru che passano:
fa allora prendere i girifalchi che preferisce e li lancia. Quei
girifalchi combattono colle gru a lungo e il più delle volte
riescono a prenderle. Il Gran Signore contempla lo spettacolo senza
muoversi dal suo letto; e ne è grandemente divertito e allietato».
Ed ecco i messaggeri del Gran Kan che «sfrecciano senza posa» sulle strade dell’Impero con «una gran cintura, tutta piena intorno intorno di sonagli, per essere sentiti, quando corrono, da molto lontano» e «si lanciano alla corsa più sfrenata che possono. Quando arrivano vicino alla nuova posta, suonano una specie di corno che si sente di lontano, perché preparino i cavalli. E tanto corrono che giungono alla fine delle prime venticinque miglia; e quivi trovano due altri cavalli apparecchiati, freschi, riposati e veloci» e «saltano in sella immantinenti, senza riposarsi né punto né poco…».
E par davvero di vederli, quei cavalieri pazzi, con gli occhi di quel ragazzo «de Venessia» che riuscì a diventare giovanissimo uomo di fiducia dell’imperatore della Cina e raccontò per primo al mondo delle banconote: «(Il Gran Kan) fa prendere delle cortecce d’albero, e più precisamente delle cortecce di gelso, l’albero delle cui frondi si cibano i bachi che fan la seta; fa togliere la buccia sottile che si trova tra la corteccia ed il fusto; fa tritare e pestar quelle bucce e impastar con della colla; quella pasta fa stendere in fogli simili ai fogli di carta. Questi sono completamente neri. Quando essi son fatti, li fa tagliare in foglietti di varia grandezza, foglietti però di forma quadrata e più lunghi che larghi (…) e tutte quelle monete sono fatte colla stessa autorità e solennità come se fossero d’oro o d’argento puro»…
Lui stesso, del resto, era consapevole della fortuna avuta. E fece scrivere a Rustichello: «Da quando Iddio Signor Nostro plasmò colle sue mani il nostro primo padre Adamo, non ci fu mai nessuno, né cristiano, né pagano, né tartaro, né indiano, né d’altra razza che si voglia, che abbia conosciuto ed esplorato delle diverse parti del mondo e delle sue grandi meraviglie, quanto ne esplorò e ne conobbe questo messer Marco».
Il Corriere della sera – 1 settembre 2018
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