20 settembre 2018

LUCIO PICCOLO VISTO DA NICOLA GRATO


Lucio Piccolo con Vincenzo Consolo (ph. di F. Scianna)


      Questa mattina mi piace riprendere da  https://poetarumsilva.com/2018/09/20/la-solitudine-orfica-di-lucio-piccolo-di-n-grato/ un bell'articolo di Nicola Grato sul grande Lucio Piccolo:


La solitudine orfica di Lucio Piccolo

 N. Grato

La poesia italiana del Novecento annovera autori difficilmente collocabili, irregolari, appartati: il siciliano Angelo Maria Ripellino, il leccese Vittorio Bodini, per non parlare di Dino Campana, Edoardo Cacciatore, Stefano D’Arrigo del misconosciuto Codice siciliano, Lorenzo Calogero, Pino Battaglia, Nadia Campana.[1] Fra questi “irregolari” il palermitano Lucio Piccolo, Barone di Calanovella “scoperto” per puro caso da Montale. Piccolo è poeta del tempo, della solitudine, del paesaggio esteriore figura multiforme, metamorfica e barocca di quello interiore; Lucio Piccolo poeta della luna, come il Recanatese o Vittorio Bodini; del giorno e della notte,[2] dell’acqua e del suo fluire ininterrotto, della luce e del suo correlativo oggettivo nel mondo che è il buio, il cupo, la faccia nascosta d’ogni luna. Lucio Piccolo poeta orfico già nelle raccolte pubblicate in vita,[3] ancor di più in una delle due raccolte postume,[4] Il raggio verde.
Le carte postume di Piccolo assolvono a un compito: esse ci mostrano il metodo di totalità di scrittura che contraddistingue l’intera opera del Barone di Calanovella: non ci si stupirà, infatti, di trovare alcuni versi che riecheggiano certi periodi delle prose, come ne L’esequie della luna, L’orologiaio prodigioso, Il libro, La bussola, L’eclisse nella stanza.[5]
La lirica Il raggio verde, eponima della silloge, mostra il viaggio orfico di un raggio di sole (la poesia) che scompare la notte per riapparire, vivificato dal contatto letificante cogli inferi, nel mattino:

Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l’ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d’abissi… poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell’ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinìo della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favola, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.[6]

L’uso del complemento di specificazione, in questi versi, serve al poeta per legare intimamente il soggetto col suo correlativo; il soggetto e il suo qualificante necessitano di una specificazione che infine costituisca un’unità autonoma. Così i sintagmi ultimo sguardo del sole, cristallo marino d’abissi o immense ali di farfalla appaiono come microcosmi dai quali scaturisce l’immagine di una poesia che si muove per scorci ed allusioni. Il sole tramonta nel mare, s’annuncia la notte. Piccolo sente lo scoramento per la morte del luminare mattutino: si riavrà ancora una volta esso dal letargo notturno? Questa domanda, fuor di metafora, nasce dal timore, ingenuo e incalzante, da parte del poeta di poter perdere la parola, il timore che l’afasia letificante imprigioni il dire poetico che s’inoltra nella notte per risorgere, nella parola, al mattino della poesia. Come il sole-Osiride viene ogni notte fatto a brani e costretto a vagare negli inferi, così la poesia ha continua necessità di scorporarsi e ricomporsi continuamente, per dare vita al tessuto lirico del verso. Il “senso dell’ombra” del verso 7 indica la morte ed il suo statuto ontologico inane; la notte è luogo d’agnizioni formidabili, più del giorno che illustra gli oggetti evidenziandone la loro spenta materialità. La notte confonde e infonde nuova linfa poetica agli oggetti: è questo un segnale preciso della poetica del Barone: il raggio perduto nella notte si decompone attraverso il prisma infero della coscienza di Piccolo e risorge, facendosi messo dell’oscurità. La notte di Lucio Piccolo non è oscura, è semmai il momento concreto della composizione, il tempo propizio della ricerca da parte del Barone che aveva letto tous les livres, come disse Montale, nella villa in contrada Vina a Capo d’Orlando, luogo nel quale passava, secondo Vincenzo Consolo, “il meridiano della solitudine”. L’orfismo piccoliano, nutritosi di teorie sulla metempsicosi, di letture esoteriche e di solitudine esistenziale, fa riferimento culturale soprattutto allo Yeats di Una visione: “Lo spirito non è quelle immagini mutevoli, ma la luce, e alla fine riaccende in sé, nella propria purezza immutabile, tutto ciò che ha sentito e conosciuto.”[7] Non a caso abbiamo citato Yeats, autore molto caro a Piccolo e col quale il Barone intratteneva corrispondenza. Il lettore che attraversa col poeta la notte della poesia coglie nella luce del giorno il tramite tra gli inferi dello spirito ed il mondo fenomenico mutabile. Questa prospettiva tutta orfica, di un orfismo più vicino a Rilke e al grandissimo Campana, è simboleggiata dal raggio di colore verde di cui s’accende la profondità-interiorità di Piccolo. Il fine della poesia è la favola perenne, il mito mai morto, lo spazio del sacro nel quotidiano.
Il motivo orfico-notturno è così una chiave di lettura del Raggio come di tutta la poesia di Piccolo e su questa falsariga si può interpretare una lirica come Ora la curva dell’anno. In essa è contenuto il prontuario della preparazione al viaggio infero- notturno che compie la poesia:

E fu dapprima nella strada
lunga un silenzio, un’attesa,
poi come i passi
d’invisibili uccelli
sul fogliame supino
(…)
… non discese
nel respiro delle canne in riposo
il sonno che ci ridona
al soffio del mondo?[8]

Il sonno è la fase d’incoscienza che muta le coordinate spazio- temporali del mondo: tourbillions associativi ed agnizioni di precedenti vite si presentano come reali in questo tempo deputato all’incoscienza. La poesia sorge proprio da queste sfere d’immaterialità soporifera; il sonno, se è lecito dire, è una lente d’ingrandimento, tramite la quale è possibile osservare il mondo fenomenico trasfigurato più che ingrandito. Da ciò deriva che l’incoscienza stenda sul mondo una patina noumenica, la quale mette in rilievo non tanto la luminescenza dei corpi, quanto piuttosto la loro ombra diffusa. Per Piccolo la poesia è respiro del mondo, soffio favonico che ridesta i sensi coperti dal quotidiano; la poesia è scaturigine prima delle cose, motore immobile ma in continuo divenire.
La notte appare, dunque, ideale terreno di coltura della poesia. Per Piccolo ciò è tanto più vero quanto più si pensi alle innumerevoli notti passate dal siciliano nella furiosa scrittura e nell’osservazione degli esperimenti ectoplasmatici condotti dal fratello Casimiro nella villa di Capo d’Orlando. Soleva trascorrere la notte in simili faccende affaccendato anche il corrispettivo irlandese di Piccolo, quello Yeats che ebbe a scrivere, in una lirica intitolata Un epilogo e contenuta in A Vision: “Una mente mi occorre che, se il cannone romba / da ogni angolo del mondo, possa stare / avvolta nel meditare della mente…”[9] Versi questi composti dal poeta irlandese nella solitudine di Thoor Ballylee, in una delle notti nelle quali Yeats insieme alla moglie era impegnato in una seduta spiritica, nell’evocazione dei fantasmi della sua poesia. Parafrasando Yeats, possiamo affermare che la condizione del poeta- uomo Lucio Piccolo è quella di chi è stretto nelle fasce della memoria, condannato a vagabondare nei meandri del ricordo nei quali la poesia è un vicolo di passaggio, non un perenne rifugio. La “mente” che occorre a Yeats per legare i ricordi più lontani e sparigliati è la stessa che occorre a Piccolo, e probabilmente ad ogni suo appassionato lettore.

  1. L’invadenza discreta del flusso lunare: la prova karmica del ricupero della coscienza poetica
Il milieu notturno, così caro a Piccolo, è il regno della luna, la quale sorveglia il mondo illustrandone di nuova luce il sembiante oscurato. La luna è il simbolo femminile per eccellenza, costante referente della fertilità presso il mondo contadino; il concetto occidentale di mese muove dalle ventotto fasi lunari. Dunque anche il tempo, il divenire ciclico del mondo, è un’entità lunare. La lirica E intanto la notte è venuta è la fedele descrizione di un ambiente notturno nel quale la forma di ogni cosa è curvata e resa malsicura dall’oscurità. In questa indistinzione spicca la precisione con cui Piccolo nomina una pianta, la verbena:

La verbena nelle aiole ha perduto i colori e tenta
gli strati dell’aria col suo profumo polveroso.
è una mobile soglia che divide, unisce due zone;
ma non sappiamo dove sorga la memoria
e dove cominci l’invadenza discreta del flusso lunare.[10]

Il ritmo piano e quasi stagnante di questi versi è spezzato dalle ben marcate cesure che conferiscono vigore allo spartito lirico e ne innalzano il tono. Ricercate sono anche rime come soglia in rima assonanzata con memoria, rima questa non casuale ma studiata, quasi a voler rimarcare le due parole e farle così diventare chiavi del testo. La verbena è soglia, spazio che unisce e divide. Difficilmente si comprenderebbe il ruolo simbolico affidato alla pianta se non sapessimo che la verbena, nella medicina popolare, viene considerata un vulnerario, capace cioè di sanare le ferite ma, e questa è chiosa di Piccolo, anche di aprirne. La verbena assume lo stesso ruolo della siepe leopardiana o del muro montaliano, ma con una differenza ancora una volta di prospettiva: mentre per il recanatese e per il genovese la siepe e il muro sono entità immobili, che dividono fisicamente lo spazio che solo in un secondo tempo diverrà metafisico, per il Berone di Calanovella la verbena è soglia di un mondo già altro. Quali zone separa dell’anima la verbena? Che ruolo hanno in questa lirica parole come   memoria e sintagmi come l’invadenza discreta del flusso lunare?
William Butler Yeats, nel poemetto Le fasi della luna, contenuto in Una visione, analizza le ventotto fasi lunari e ne spiega l’influsso sull’uomo:

Ventotto sono le fasi della luna,
la luna piena e quella nera e tutti i quarti,
ventotto, ma ventisei sono le culle
in cui per forza l’uomo deve essere cullato,
perché non c’è vita al colmo e al nulla.
Dalla falce iniziale al primo quarto, il sogno
non chiama che all’avventura, e l’uomo è sempre
felice come un uccello o un animale;
ma via via che la luna cresce alla sua pienezza
egli segue i più difficili capricci

ogni pensiero immagine diventa, e l’anima diventa
un corpo: troppo perfetti quell’anima e quel corpo
al plenilunio per stare in una culla,
troppo solitari per il traffico del mondo:
corpo ed anima respinti e rigettati
oltre il mondo visibile.[11]

La difficoltà interpretativa di questi versi nasce è dovuta al tessuto simbolico davvero enorme rappresentato in Una visione. Quella di Yeats non vuole essere certamente una spiegazione scientifica di temi come la vita e la morte, o il divenire vitale; il suo intento è schiettamente simbolico, egli intende fondare un nuovo prontuario di figure e simboli. Centrale in questi versi è il sogno, il quale è molto vicino alla realtà quando la luna è all’apice del suo percorso: durante il plenilunio i sogni diventano corpi estesi, figure della pienezza:

Al plenilunio, sulle colline desolate
i contadini incontrano quelle creature della pienezza
e si affrettano via rabbrividendo: anima e corpo
estranei entro l’estraneità di quelle stesse
creature rapite in contemplazione, l’occhio
della mente fisso su immagini
che furono, una volta, pensiero

e dopo lo sgretolarsi della luna:
l’anima che ricorda la propria solitudine
rabbrividisce in molte culle; tutto è mutato.
Vuole servire il mondo, e mentre serve

l’anima e il corpo prendono la rozzezza
della bestia da soma.

prima del plenilunio andava in cerca
di se stessa, dopo in cerca del mondo.[12]

Esiste, quindi, un prima e un dopo per l’anima che sogna nel plenilunio.
Nella prima fase l’anima riconosce se stessa; nella seconda essa va alla ricerca del mondo, dello spazio esteso esterno. Le fasi lunari si alternano, durante il loro divenire si formano i sogni, meglio, le figure di sonno. Piccolo, così attento all’incidenza culturale ed esoterica di Yeats nei primi del novecento, avrà certamente letto questi versi dell’irlandese rielaborandone il significato in E intanto la notte è venuta. La poesia nasce per Piccolo dalla memoria, nel momento della ricerca del mondo che l’anima compie, quando la luna è calante. Ma il riconoscimento della propria coscienza poetica attanaglia Piccolo: la luna che giunge al culmine del suo percorso inchioda l’anima del poeta (coscienza) al corpo; il sorgere della poesia (memoria) è insidiato dai flussi lunari, le prove orfiche cui il poeta dovrà sottoporsi e che sono il prezzo da pagare perché la poesia stessa, liberata dal crogiolo infero- notturno, possa risorgere all’aurora del testo. La verbena è, infine, il discrimine tra memoria ancestrale e tempo storico, tempo del ricordo e coscienza poetica; la verbena non risana la ferita fondamentale del Piccolo uomo e poeta, cioè la consapevolezza di dover guardare avanti pur avendo un legame struggente col passato. La prova karmica che Piccolo esperisce non lo libererà, lo farà ridiscendere infinite volte dall’erta per ricuperare il masso della propria coscienza poetica scivolato a valle.

  1. Altri topoi orfici de Il raggio verde
Nella lirica Vennero è presente il tema della casa- rifugio, simbolo della coscienza del poeta fitta di meandri o stanze memoriali. La casa è però soprattutto luogo d’incantesimo, di apparizioni fugaci nelle ore notturne:

Vennero che già dalle imposte chiuse
si disegnavano sbarre, cerchi, ret-
tangoli di chiarore ai guizzi estre
mi del lumino.[13]
Si nota subito che i versi procedono con una continua inarcatura, quasi ad indicare un flusso che dirompente travalichi la materia. Sono, infatti, spezzati termini come “ret- tangoli” o “estre- mi”, espediente questo adoperato forse per significare l’apparizione di figure fantasmatiche, le quali altro non sono che brani di materia, inarcature dello spazio prive di corporeità, come le parole smozzicate in un nonsense carico al contrario di un significativo altrosenso. Le anime dei morti compaiono evocate; esse possono essere le anime dei cari defunti, e sappiamo quanto Piccolo avesse a cuore il proprio retroterra di affetti e parentele. Sappiamo anche, come precedentemente ricordato, che egli amava aggirarsi, assieme al fratello Casimiro, per le sale “dissuete” della sua villa a Capo d’Orlando durante le ore notturne foriere di anime vaganti, simboli anch’esse di quel circolo continuo della memoria ch’è continuamente presente nella lirica del nostro. Non importa dare nomi precisi a queste anime vaganti, le quali già in Plumelia– forse la silloge più esoterica di Piccolo usavano manifestarsi nelle notti d’incantamento del poeta siciliano. Ogni notte finisce nel giorno, però; anche gli spiriti ritornano nelle grotte dalle quali la notte li aveva convocati: il giorno è il momento nel quale Orfeo deve risalire dagli inferi per divenire partecipe del mondo e del dolore:

E il giorno fu ritorno: s’infranse
il cristallino silenzio di stanze
di sale dissuete, stormi sottili d’echi si sciolsero
che un incanto da più lune teneva
agli angoli, alle volte…[14]

La notte è il canovaccio del giorno per il poeta orfico: Novalis, nei suoi Inni alla notte, riteneva la notte madre di tutti i viventi, constatandone la superiorità sul giorno. Altra distinzione che operava il tedesco era quella che la notte interiore fosse superiore a quella fisica, poiché in essa appare una latitudine mentale nuova, quella degli occhi infiniti, pieni di profondi sensi. Per Novalis la notte è, inoltre, luogo d’incontro mistico tra l’anima e l’amante Cristo; certamente la notte in Piccolo assume valenza diversa, per certi aspetti essa è affine, però, con la notte novalisiana. Piccolo si nutre sicuramente anche qui della teoria yeatsiana dell’anima vagante nel sonno, la quale anima diviene nel suo vagare mente che cerca d’inglobare, essendo il suo sguardo trasumanato, la teoria delle altre menti vaganti, in un unico consesso. Proprio di qui il paragone tra Piccolo e Novalis: infatti, per il Cavaliere di Calanovella gli occhi della notte di ascendenza novalisiana possono tradursi nelle innumerevoli possibilità della mente conoscitiva, la quale nel sonno diviene oltremodo potente e capace di formidabili agnizioni.
Nell’ultra-mondo orfico la categoria tempo è sovente assente o, meglio, di essa resta quel senso indefinito di fuga ed ellissi deformante che è la notte. La lirica L’ora ha gettato l’ancora è particolarmente indicativa del senso di smarrimento del tempo, della continua tensione alla fuga di Piccolo:

L’ora ha gettato l’ancora su questo
angolo di mondo
varcava forse fra cresta di monte e cresta
e vide acqua di conca e si guardò
incantata
immobile a un filo di suono

d’un ruscello segreto nei declivi
i cespugli d’eriche la tengono,
che tremano d’un vento
che non è.[15]
In questi versi è evidente il complesso ordito di rime interne: àncora- angolo; monte- conca; tengono- tremano; segreto- vento. La lirica dall’andamento ritmico piano e misurato riceve un sussulto nei versi 4 e 10 tronchi. Il tempo è correlato all’“acqua di conca”: esso si specchia in un borro di acqua stagnante e, successivamente, in un ruscello. Gli agenti immobilizzanti del tempo sono i cespugli di erica; ancora una volta è affidato alla flora il compito di muovere, nel nostro caso specifico di arrestare, l’azione lirica. I robusti cespugli di erica ondeggiano, sorprendentemente, per un vento che non esiste: si rimane spiazzati di fronte ad un fenomeno che niente ha di fisico, di umano. Il tempo non è più misurabile, esso si nasconde, l’ora è icona della caducità, essa non scandisce più i ritmi dell’esistenza umana: in codesto tragico arresto del tempo si consuma il destino di Orfeo sbranato dalle Menadi, così come è smembrata la coscienza poetica di fronte al fluttuare delle ore. In tal senso Piccolo ritiene che Kronos possa risiedere soltanto nell’indistinto spirituale.
Altro rito orfico che si compie all’interno delle liriche del Raggio è quello della dispersione delle acque. La lirica Sorgente è un esempio. Nella religiosità orfica il crosciare delle acque della fonte era veicolo attraverso il quale il popolo infero parlava all’umanità. Come alla fonte, così al poeta risalito dalle profondità terrestri è affidato il ruolo di tempio dell’udibilità del mondo ctonio. Il poeta orfico è, insomma, il medium di cui si serve l’umanità che vuole ascoltare la voce dell’altrove. Per finire, riteniamo che Piccolo, poeta anche orfico, non molto si discosta dal modello rilkiano: se per il poeta boemo anche la gioia e la libertà, correlate entrambe al concetto del fluire equoreo, altro non sono che il negativo del mondo cupo e funereo degli inferi, anche per Piccolo il mondo non è che il riflesso ombroso di una luce essenzialmente altra.
Accostarsi alla poesia di Lucio Piccolo dà sempre l’impressione compiere un viaggio attraverso la concretezza di un mondo (quello siciliano che diviene figura di ogni luogo) che sempre si muove, una sorta di teatrino meccanico, uno di quelli che passavano tempo fa per i paesi e richiamavano folle di bimbi; l’altra sensazione è quella di trovarsi di fronte a una poesia che non può finire di dirci qualcosa: versi ricchi di sfumature, parole che hanno rizomi profondi, rami e foglie multiformi. Riteniamo Lucio Piccolo così ormai non più un “caso” letterario, un autore certamente appartato ma capace di farsi influenzare dalla migliore letteratura internazionale a lui coeva come dai barocchi inglesi, altrimenti detti metafisici: “La storia della poesia deve essere considerata indistinguibile dall’influenza poetica, poiché i poeti forti costruiscono tale storia travisandosi l’un l’altro, in modo da liberare un nuovo spazio alla propria immaginazione.”[16]
© Nicola Grato

[1] Sugli autori “emarginati” del Novecento italiano suggeriamo la lettura del bel volume di Stefano Lanuzza ‘900 out. Scrittori italiani irregolari, Fermenti, Roma 2017.
[2] Le parole più ricorrenti nell’intero corpus piccoliano di prose e poesie sono “giorno” e “notte”, come nota Antonio Di Silvestro nel suo saggio La poesia di Lucio Piccolo: uno sguardo lessicografico, in “Diacritica”.
[3] Cfr. Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano 1956; Gioco a nascondere, Mondadori, Milano 1960; Plumelia, Scheiwiller, Milano 1967.
[4]  I libri postumi che raccolgono le poesie di Piccolo finora ritrovate sono stati pubblicati con la cura di Giovanni Gaglio e Giovanna Musolino per Scheiwiller nel 1984 (La seta) e nel 1993 (Il raggio verde).
[5] Cfr. L’esequie della luna e alcune prose inedite, a cura di Giovanna Musolino, Scheiwiller, Milano 1996.
[6] Idem, Il raggio verde, cit., p. 19.
[7] Cfr. W. B. Yeats, A Vision, Adelphi, Milano 1990, pp. 230-31.
[8] Ora la curva dell’anno, in Il raggio verde, cit., pp. 20- 21.
[9] W. B. Yeats, Un epilogo, in Una visione, cit., p. 315.
[10] E intanto la notte è venuta, in Il raggio verde, cit., p. 22.
[11] W. B. Yeats, Le fasi della luna, in Una visione, cit., p. 67.
[12] Ibidem.
[13] Vennero, in Il raggio verde, cit., p. 23.
[14] Ibidem.
[15] L’ora ha gettato l’ancora, in Il raggio verde, cit., p. 24.
[16] Cfr. Harold Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Abscondita, Milano 2014.

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