Margherita Sarfatti
Una doppia mostra al
Mart di Rovereto e al Museo del 900 di Milano racconta l’ascesa e
la caduta di Margherita Sarfatti: anima intellettuale del primo
fascismo poi scaricata da Mussolini. E infine costretta all’esilio:
perché ebrea.
Natalia Aspesi
Il Duce e l’amica
troppo geniale
L’ombra che oscura la figura di Margherita Sarfatti e che lei stessa aveva cercato di allontanare scrivendo nel 1955 Acqua passata, dopo il ritorno in Italia dal lungo esilio, è parte essenziale della sua storia ma non è tutta la sua storia: che due mostre contemporanee e congiunte, (fino al 24 febbraio, catalogo Electa), al museo del ‘900 di Milano (curata da Anna Maria Montaldo e Danka Giacon) e al Mart di Rovereto (curata da Daniela Ferrari), cercano di ricostruire oltre quell’ombra il suo ruolo di importante critica d’arte, di collezionista, di organizzatrice di mostre in Italia e all’estero. E pure ricordando il suo celebre salotto milanese di corso Venezia, dove ogni mercoledì si incontravano politici, poetesse, futuristi, galleristi, novecentisti, celebrità varie. Femministe. Socialisti. Bolsceviche. Fascisti. Un giovanotto dagli occhi prensili, un poeta seduttore, Mussolini e D’Annunzio.
Ma si può davvero
separare Margherita Sarfatti da Benito Mussolini, la ricca, audace,
colta (sa perfettamente tedesco, inglese, francese) signora dal
rustico figlio di un fabbro romagnolo, colei che insegnò come
indossare le ghette e scegliere il capello, da chi imporrà anni dopo
una stupida divisa a tutti, dai figli della lupa alle maestre? Forse
sì, è possibile restituire Margherita Sarfatti a séstessa, oltre
l’avventura fascista con il suo ‘devotissimo selvaggio’: che
prima delle Marcia su Roma le scrive qualcosa come, “Mio amore, il
mio pensiero, il mio cuore ti accompagnano. Abbiamo passato ore
deliziose … ti abbraccio forte, ti bacio con tenerezza
violenti...”. (citato da Antonio Scurati, in M Il figlio del
secolo); e poi nel luglio del 1929, anno VII dell’era fascista, con
la sua scrittura aguzza e minacciosa la cancella con livore:
“Gentilissima Signora, leggo un articolo nel quale ancora una volta
voi tessete l’apologia del cosiddetto ‘900, facendovi alibi del
Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più
energica …”.
Questa e altre decine
di lettere, fotografie, documenti, manifesti, libri, per la maggior
parte del fondo Sarfatti conservato al Mart, intrecciano le vicende
politiche con la ricchezza dell’arte di quei primi decenni del
secolo scorso, di cui la signora è certo protagonista: i ‘suoi’
artisti formano il gruppo ‘900 e sono Bucci, Dudreville, Funi,
Malerba, Oppi, Sironi, Marussig le cui opere si ritrovano nelle due
mostre come autori dei suoi tanti ritratti, come parte della sua
collezione privata, come immagini di quel tempo artisticamente vivo,
in quella Milano al centro di ogni tumulto politico.
Le fotografie di
inaugurazioni mostrano la signora, unica donna in mezzo a decine di
uomini con i baffi, le palandrane e il capello. Sono anni in cui le
donne si stanno imponendo: a Milano ci sono la socialista Anna
Kulishoff che combatte per il suffragio femminile, Angelica
Balabanoff vicedirettrice dell’Avanti! quando direttore è
Mussolini, Ersilia Maino presidente della Lega Femminile, Ada Negri
che è arrabbiata per non aver ricevuto il Nobel, le operaie che
precederanno gli uomini negli scontri di piazza contro i fasci.
Margherita è irrefrenabile, scrive sull’Avanti! dove ha conosciuto Mussolini e poi sul
Popolo d’Italia da lui fondato; dirige Gerarchia, la rivista
ideologica del fascismo, cresce tre figli, perde in guerra Roberto,
17 anni, resta vedova, scivola spesso a Palazzo Venezia come tante
altre signore, gira l’Italia e il mondo per i suoi artisti e per il
duce.
I collezionisti privati e pubblici sono sempre meno inclini a
prestare le loro opere, e infatti Milano e Rovereto hanno dovuto
rinunciare ad alcune importanti: ma tra le quasi 200 opere esposte ci
sono i nudi femminili dalle cosce possenti di Casorati e Bacci, le
signore annoiate sotto i cappelini ai tavoli dei caffè di Marussig e
Borra, le nature morte di Oppi e Morandi, gli autoritratti di
Dudreville e Funi, i paesaggi di Soffici e Salletti, le tozze madonne
simili alle stupefatte massaie rurali di Tozzi e Saetti, i muratori d
Campigli, i pastori di Sironi. E i tanti Mussolini scolpiti da Wildt,
Thayat, Bertelli, la foto da divo del cinema prima della marcia su
Roma, poi travestito da Napoleone con la scritta «una fisionomia
storica che ritorna, il pallido corso – il fiero romagnolo», in
divisa e a cavallo, con pennacchio bianco sul copricapo; e i ritratti
più fascinosi e privati con dedica alla colta e utile amante.
Nel 1932 Margherita viene
allontanata dal Popolo d’Italia, è l’anno in cui in uno
sfrecciare di macchine sulla strada Roma Ostia, Mussolini alla guida
di una Alfa Granturismo Zagato sorpassa quella su cui viaggia la
signorina Claretta Petacci: lui ha trent’anni più di lei e tre
anni meno di Margherita, cui nel 1936 viene proibito l’ingresso a
Palazzo Venezia.
Non solo l’antica amante è diventata fastidiosa, ma è anche ebrea: nel 1938 anno delle leggi razziali, lei sa che non sarà risparmiata e può solo fuggire. Torna nel 1947, appestata dal suo passato, abbandonata dagli ex amici, insultata anche in strada. Muore nella sua casa di campagna nel Comasco nel 1961, a 81 anni.
La Repubblica – 23
settembre 2018
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