23 settembre 2018

AMORE e POTERE nel ventennio fascista


Margherita Sarfatti

Una doppia mostra al Mart di Rovereto e al Museo del 900 di Milano racconta l’ascesa e la caduta di Margherita Sarfatti: anima intellettuale del primo fascismo poi scaricata da Mussolini. E infine costretta all’esilio: perché ebrea.

Natalia Aspesi

Il Duce e l’amica troppo geniale



L’ombra che oscura la figura di Margherita Sarfatti e che lei stessa aveva cercato di allontanare scrivendo nel 1955 Acqua passata, dopo il ritorno in Italia dal lungo esilio, è parte essenziale della sua storia ma non è tutta la sua storia: che due mostre contemporanee e congiunte, (fino al 24 febbraio, catalogo Electa), al museo del ‘900 di Milano (curata da Anna Maria Montaldo e Danka Giacon) e al Mart di Rovereto (curata da Daniela Ferrari), cercano di ricostruire oltre quell’ombra il suo ruolo di importante critica d’arte, di collezionista, di organizzatrice di mostre in Italia e all’estero. E pure ricordando il suo celebre salotto milanese di corso Venezia, dove ogni mercoledì si incontravano politici, poetesse, futuristi, galleristi, novecentisti, celebrità varie. Femministe. Socialisti. Bolsceviche. Fascisti. Un giovanotto dagli occhi prensili, un poeta seduttore, Mussolini e D’Annunzio.

Ma si può davvero separare Margherita Sarfatti da Benito Mussolini, la ricca, audace, colta (sa perfettamente tedesco, inglese, francese) signora dal rustico figlio di un fabbro romagnolo, colei che insegnò come indossare le ghette e scegliere il capello, da chi imporrà anni dopo una stupida divisa a tutti, dai figli della lupa alle maestre? Forse sì, è possibile restituire Margherita Sarfatti a séstessa, oltre l’avventura fascista con il suo ‘devotissimo selvaggio’: che prima delle Marcia su Roma le scrive qualcosa come, “Mio amore, il mio pensiero, il mio cuore ti accompagnano. Abbiamo passato ore deliziose … ti abbraccio forte, ti bacio con tenerezza violenti...”. (citato da Antonio Scurati, in M Il figlio del secolo); e poi nel luglio del 1929, anno VII dell’era fascista, con la sua scrittura aguzza e minacciosa la cancella con livore: “Gentilissima Signora, leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ‘900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica …”.
Questa e altre decine di lettere, fotografie, documenti, manifesti, libri, per la maggior parte del fondo Sarfatti conservato al Mart, intrecciano le vicende politiche con la ricchezza dell’arte di quei primi decenni del secolo scorso, di cui la signora è certo protagonista: i ‘suoi’ artisti formano il gruppo ‘900 e sono Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Oppi, Sironi, Marussig le cui opere si ritrovano nelle due mostre come autori dei suoi tanti ritratti, come parte della sua collezione privata, come immagini di quel tempo artisticamente vivo, in quella Milano al centro di ogni tumulto politico.

Le fotografie di inaugurazioni mostrano la signora, unica donna in mezzo a decine di uomini con i baffi, le palandrane e il capello. Sono anni in cui le donne si stanno imponendo: a Milano ci sono la socialista Anna Kulishoff che combatte per il suffragio femminile, Angelica Balabanoff vicedirettrice dell’Avanti! quando direttore è Mussolini, Ersilia Maino presidente della Lega Femminile, Ada Negri che è arrabbiata per non aver ricevuto il Nobel, le operaie che precederanno gli uomini negli scontri di piazza contro i fasci. Margherita è irrefrenabile, scrive sull’Avanti! dove ha conosciuto Mussolini e poi sul Popolo d’Italia da lui fondato; dirige Gerarchia, la rivista ideologica del fascismo, cresce tre figli, perde in guerra Roberto, 17 anni, resta vedova, scivola spesso a Palazzo Venezia come tante altre signore, gira l’Italia e il mondo per i suoi artisti e per il duce. 
I collezionisti privati e pubblici sono sempre meno inclini a prestare le loro opere, e infatti Milano e Rovereto hanno dovuto rinunciare ad alcune importanti: ma tra le quasi 200 opere esposte ci sono i nudi femminili dalle cosce possenti di Casorati e Bacci, le signore annoiate sotto i cappelini ai tavoli dei caffè di Marussig e Borra, le nature morte di Oppi e Morandi, gli autoritratti di Dudreville e Funi, i paesaggi di Soffici e Salletti, le tozze madonne simili alle stupefatte massaie rurali di Tozzi e Saetti, i muratori d Campigli, i pastori di Sironi. E i tanti Mussolini scolpiti da Wildt, Thayat, Bertelli, la foto da divo del cinema prima della marcia su Roma, poi travestito da Napoleone con la scritta «una fisionomia storica che ritorna, il pallido corso – il fiero romagnolo», in divisa e a cavallo, con pennacchio bianco sul copricapo; e i ritratti più fascinosi e privati con dedica alla colta e utile amante.

Nel 1932 Margherita viene allontanata dal Popolo d’Italia, è l’anno in cui in uno sfrecciare di macchine sulla strada Roma Ostia, Mussolini alla guida di una Alfa Granturismo Zagato sorpassa quella su cui viaggia la signorina Claretta Petacci: lui ha trent’anni più di lei e tre anni meno di Margherita, cui nel 1936 viene proibito l’ingresso a Palazzo Venezia.

Non solo l’antica amante è diventata fastidiosa, ma è anche ebrea: nel 1938 anno delle leggi razziali, lei sa che non sarà risparmiata e può solo fuggire. Torna nel 1947, appestata dal suo passato, abbandonata dagli ex amici, insultata anche in strada. Muore nella sua casa di campagna nel Comasco nel 1961, a 81 anni.

La Repubblica – 23 settembre 2018

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