Nel 2001 mentre preparava
non solo con suoi attori, ma anche con allievi della scuola di teatro
del “Piccolo” e con ricercatori e studenti del Politecnico
meneghino la sua traduzione teatrale di Infinities del
cosmologo e matematico inglese John D. Barrow, rappresentata al
Piccolo Teatro di Milano a partire dal marzo 2002, fu invitato a un
convegno veneziano a discorrere del rapporto scienza-teatro.
Impossibilitato a partecipare inviò il contributo scritto che segue,
prima pubblicato nel volume che raccoglieva gli atti dell'incontro
lagunare (Matematica e cultura,
Springer Verlag 2002) poi diffusa in rete da Alfabeta 2, dal cui sito
l'ho ripreso. Non si tratta, a mio avviso, di un contributo di tipo
teorico o storiografico; è piuttosto un'interrogazione sul proprio
modo di fare teatro e sul valore della scienza dentro di esso, una
pagina di “poetica”. (S.L.L.)
Una foto di scena da "Infinities" |
La scienza in scena
Luca Ronconi
Forse come d’obbligo di
queste occasioni ufficiali, ma certo con sincerità e una convinzione
che hanno poco a che spartire con il garbato formalismo delle frasi
fatte e dei cerimoniali di circostanza, desidero in primo luogo
ringraziare gli organizzatori di questo convegno per la stima e la
considerazione dimostratemi, invitandomi a prendere parte alla
giornata di studi da loro promossa. D’altro canto a questo doveroso
ringraziamento devo subito associare delle scuse non meno doverose:
essendo ormai imminente il debutto del prossimo spettacolo, mi trovo
infatti in questi giorni nella materiale impossibilità di
allontanarmi da Milano accettando l’invito indirizzatomi. Non
potendo prendere parte all’incontro ho allora creduto giusto
affidare a queste poche cartelle di appunti il mio saluto a distanza
a tutti i presenti e soprattutto le mie opinioni, o forse meglio
impressioni – sul rapporto teatro/scienza, tema intorno al quale
avrebbe dovuto vertere la mia relazione al simposio veneziano.
Per fissare
immediatamente i limiti delle mie considerazioni ritengo necessario
premettere a questo breve intervento – quasi epistolare – una
sorta di dichiarazione di metodo o di principio. In oltre trent’anni
d’attività mi è capitato in più di una circostanza di dichiarare
di non essere, a differenza di altri miei colleghi del passato e del
presente, un regista teorico: come spesso mi sono trovato ad
osservare nel corso di interviste, dibattiti o altri appuntamenti
culturali, il mio lavoro non nasce dall’applicazione di una teoria
e nemmeno amo teorizzare a posteriori sul teatro – ho come
l’impressione infatti che se lo facessi non sarei più in grado di
cimentarmi in quell’operazione sempre nuova che è la messa in
scena di un testo. Proprio in virtù di questa mia spontanea
inclinazione al culto di quella che, con Goethe, mi piace definire la
delicata empiria, nell’affrontare una questione complessa
come quella del rapporto tra discorso scientifico e azione
drammatica, dalla tragedia greca all’allegoria barocca, dal
grandguignol alle ricerche post-avanguardia, mi limiterò ad
esprimere il mio personalissimo punto di vista riguardo alla
possibilità e all’opportunità di teatralizzare l’appassionante
avventura della scienza a partire da un caso concretissimo: lo
spettacolo scientifico che, come già stato più volte annunciato nei
mesi scorsi, nel corso della prossima stagione dirigerò per il
Piccolo Teatro di Milano lavorando su un testo scritto per
l’occasione da John D. Barrow.
Il mio interesse
registico per l’esperienza scientifica nasce dall’esigenza –
per non dire dall’urgenza – di trovare nuovi modi per portare –
o in un certo senso riportare – la contemporaneità in teatro. Da
Brech ad Artaud, da Lukacs a Szondi, tutti i maggiori militanti e
teorici della scena del Novecento si sono interrogati sulla
possibilità o impossibilità di raccontare teatralmente il mondo
contemporaneo... Veri e propri fiumi di inchiostro sono stati versati
in questi ultimi decenni intorno alla crisi della scrittura per la
scena...
Se dall’antichità
classica fino alle soglie del ventesimo secolo le diverse civiltà
che si sono avvicendate nel mondo occidentale hanno sempre finito con
l’autorappresentarsi sulle tavole di ben precisi e strutturati
palcoscenici ideali, la sensazione oggi diffusa è che al contrario,
l’euforica e immemore società dello spettacolo in cui viviamo
tenda paradossalmente a sottrarsi alla possibilità di affabularsi in
altrettanto precisi e strutturati paradigmi drammaturgici.
Personalmente ritengo che la via da percorrere per riscoprire
l’attualità dell’esperienza scenica non sia tanto quella di
perseguire una iperrealistica mimesi del quotidiano – postmoderno
aggiornamento della poetica verista della tranche de vie che,
riducendo il teatro a cronaca, come per altro il proprio archetipo
borghese/ottocentesco, condanna l’esperienza drammaturgica ad
invecchiare con la stessa rapidità con cui si fa carta straccia dei
giornali del giorno prima – né tanto meno quella di un’ennesima
rivisitazione up to date del mito, modello Dioniso in scarpe
da tennis – perniciosa variazione spettacolare del pericolosissimo
progetto rètro di evasione dalla storia - ma sia piuttosto
rappresentata dal tentativo di individuare dei precisi correlati
drammaturgici ai nostri moderni modi percettivi e cognitivi.
Muovendo da questo
presupposto, credo dunque che – come già anni fa in Italia hanno
dimostrato, sul versante delle lettere, scrittori di chiara fama e di
indiscussa oltre che indiscutibile autorità quali Vittorini e
Calvino, ma come non citare con loro anche il nome dell’ingegner
Gadda con quella sua ermeneutica narrativa a soluzioni multiple,
distillato di oltre due secoli di impegno gnoseologico di letteratura
lombarda ad un tempo così scopertamente figli dell’epistemologia
novecentesca - nell’era della scienza in cui viviamo, nel saeculum
cioè che forse più di ogni altro ha visto i copioni della vita di
ogni giorno adeguarsi direttamente o indirettamente ai precetti del
pensiero scientifico, la scienza potrebbe rivelarsi il più
conveniente palcoscenico per ospitare un’azione drammatica
genuinamente contemporanea.
Sia in obbedienza ai
condizionamenti soggettivi imposti dalla mia formazione personale,
sia nel rispetto di quella che credo essere l’essenza più profonda
del fare teatro, sono dell’avviso che in questa prospettiva di
teatralizzazione della prassi scientifica, tesa ad aprire inediti e
suggestivi scorci storici sul nostro oggi, sia più conveniente
adottare il punto di vista del fruitore non competente, che quello
dell’esperto conoscitore. Perché il linguaggio della scienza,
trasferendosi in teatro possa sviluppare fedelmente trascritto in
scena, evitando ogni filtro esplicativo. In altre parole per
progettare uno spettacolo autenticamente scientifico, e non
semplicemente di argomento scientifico, sono convinto si debba
rinunciare alla strategia politicamente corretta – e tutto sommato
demagogica – della divulgazione e si debba piuttosto puntare sulla
natura squisitamente esoterica della raffinatissima scienza
specialistica moderna. Pur essendo convinto che l’esperienza
teatrale non possa non darsi come percorso di conoscenza, non nego
però di nutrire una profonda diffidenza verso una scena che si
voglia programmaticamente didattica.
L’aula scolastica è la
sede più idonea alla spiegazione; il teatro – ben lo sapeva
Nietzsche – anche quello a vocazione più scopertamente
razionalista, è piuttosto il luogo deputato ad una conoscenza che
passa attraverso l’epifania del numinoso, di qualche cosa, cioè,
che eccede sempre e comunque le nostre possibilità di conoscere
analiticamente. Il futuro della scena credo sia in questo senso
legato alla sua matrice antropologica: non a caso fin dalle prime
fasi di elaborazione del progetto di drammaturgia scientifica cui ho
fatto prima cenno, e che porteremo a compimento la prossima stagione,
uno dei primi termini di riferimento – per non dire modelli –
dello spettacolo che proprio allora si cominciava a studiare, mi è
parso essere l’Orestea, la straordinaria ed inesauribile
trilogia di Eschilo espressione, all’epoca del suo compimento,
dell’ineffabile pulsione dionisiaca madre della tragedia, ad
exemplum, ai giorni nostri, di una ricchissima summa di
sapere, condannata a restare per noi inattingibile nella sua
insondabile profondità misterica ed al più soltanto intuibile per
improvvise folgorazione a-logiche.
Chiarito che principio
guida del mio soggettivo approccio teatrale al pensiero scientifico è
che la scienza debba essere messa in scena secondo la capacità
cognitiva del profano – dunque nella sua irriducibile ed
incomprensibile alterità - vorrei ora spiegare brevemente in che
termini il commercio teatrale con la scienza possa schiudere, a mio
giudizio, inediti orizzonti al linguaggio drammaturgico.
La scelta di
drammatizzare il discorso scientifico porta innanzi tutto autori,
attori, registi e pubblico a doversi porre radicalmente il problema
del funzionamento della comunicazione teatrale, oggi spesso troppo
frettolosamente eluso, non solo sul piano della possibilità di
trasmissione del messaggio – nei termini di quell’antitesi di
transitività ed intransitività del testo cui abbiamo appena fatto
cenno - ma anche e soprattutto a livello dei modi di funzionamento
del linguaggio tout court. Forma compiuta nell’immaginario
collettivo della razionalità analitica dell’oggettivo sapere
scientifico, sempre ad un passo dal rischio di sclerotizzarsi in
formula, a ben guardare il linguaggio scientifico è invece, per sua
intrinseca natura, un codice essenzialmente figurato in rapporto
conflittuale con il reale che è chiamato a designare, e che per di
più fa criticamente del proprio impianto per tropi e dei propri
corto-circuiti referenziali il vero oggetto dei propri enunciati.
Nata dalla necessità di
nominare attraverso il vecchio delle precedenti acquisizioni, il
nuovo delle continue scoperte, la lingua della scienza, in apparenza
paradigma della trasparente e anodina razionalità procedurale
postmetafisica, è di fatto il regno dell’irrazionale distorsione
della metafora e della riflessione sui fraintendimenti che proprio il
continuo ricorso alla metafora porta inevitabilmente con sé.
Concentrando di fatto l’attenzione di produttori e fruitori
dell’evento teatrale sulle dinamiche evolutive della lingua in
generale - sia nei rapporti interni tra i vari elementi del codice
linguistico, sia nei rapporti esterni tra il codice e il mondo - il
linguaggio della scienza portato in scena, credo possa riuscire a
sottrarre la drammaturgia ai ristagni espressivi più diffusi tra i
vari registi della scrittura per la scena attuale – dalle sacche
tradizionali della caduta nella retorica puramente esornativa o nel
vuoto calco gergale alle paludi, forse di più recente formazione, ma
non per questo meno pericolose, del compiaciuto abbandono
all’apologia dell’incomunicabilità interpersonale, o
dell’assurdo dell’esistenza- per restituire il linguaggio del
teatro al problematico, ma vivacissimo flusso della comunicazione
contemporanea.
Precipitato teatrale
delle alterazioni percettive che il progresso culturale e tecnologico
ha prodotto soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, la
trasposizione scenica dell’indagine scientifica permette poi di
trovare a mio parere un’adeguata traduzione drammaturgica del
mutevole e complesso punto di vista che l’uomo ha oggi sul mondo.
Come studiosi ben più dotti e competenti di me, da Walter Benjamin a
Stephen Kern, hanno ampiamente dimostrato nei loro eruditi saggi, la
nascita del cinema, il trionfo dei nuovi mezzi di locomozione,
l’avvento dei media e del sistema delle telecomunicazioni, così
come l’esplorazione dell’inconscio o l’imporsi di nuove
condizioni di vita nell’orizzonte metropolitano, hanno ridotto
negli ultimi cent’anni una drastica relativizzazione delle
categorie tradizionali di spazio e tempo, relativizzazione a cui
credo si possano aggiungere senza tema di smentita, le strutture
drammaturgiche convenzionali – di cui di fatto spesso la scrittura
per la scena contemporanea anche nelle sue varianti di ricerca più
eterodosse sembra ancora prigioniera – faticano, se non addirittura
non riescono a recepire.
L’apertura
drammaturgica alla fisica postnewtoniana, alle geometrie non-euclidee
o al calcolo infinitesimale - per non fare che alcuni esempi del
tutto casuali di teatralizzazione della scienza contemporanea –
credo sia dunque un modo per porsi quanto meno il problema di come
sia possibile portare in scena la nostra nuova logica di comprensione
e percezione della realtà. Per quanto mi riguarda, al fondo di
questa volontà di rappresentare il composito sguardo col quale siamo
ora portati a capire quanto ci circonda, sta, non lo nego, il sogno
che inseguo da una vita – tra gli anfratti dello spazio, gli
interstizi del tempo, le incrinature dell’identità e le
slabbrature dell’essere sui quali prolifera il nostro oggi, di
presentare uno spettacolo infinito, uno spettacolo cioè capace di
eccedere nel tempo e nello spazio le facoltà percettive del
pubblico, uno spettacolo costruito sulle alterazioni della percezione
che possa essere colto da ogni singolo spettatore solo per frammenti
e che a posteriori riviva nella memoria di ogni singolo fruitore come
soggettivo montaggio delle schegge di messa in scena da lui rubate
nel vario offrirsi - e sfarsi – della rappresentazione.
Necessaria conseguenza
semantica di quanto sin qui osservato – provvisoria morale in forma
di conclusione aperta che per non abusare più a lungo della pazienza
dei miei “destinatari” intendo dare a questa teoria di glosse
drammaturgiche irrelate, stese al possibile margine scenico della
sapienza attuale – è che nello sfolgorante baluginio della sua
aforistica sapienza in fitto dialogo col buio dell’enigma, il
problematico discorso scientifico contemporaneo, emblema del nostro
presente oggettivamente disperso, asincronico, trasformistico e
virtuale, portato sulle tavole del palcoscenico, pare ben prestarsi a
raccontare la sfuggente varietà dei nostri tempi non meno sfuggenti.
Luogo mentale molteplice e diveniente di incontri e separazioni
incrociate, mai uguale a se stesso nel suo metamorfico gioco di
perpetue smentite, rifondazioni, critiche e scoperte, distribuito su
temporalità plurime organizzate per fasce di sovrapposizione
simultanea e destrutturabile in un serrato montaggio di prospettive
eterogenee, pronte a dispiegarsi nell’infinita curva dell’universo,
il discorso scientifico è innegabilmente la scena ideale del nostro
senso contemporaneo, di un senso cioè che si rivela e si nasconde in
un perpetuo essere altrove, di una verità che esiste, ma sfugge e
che non possiamo immaginare ubicata in nessun segreto ricetto da
cercare e violare, ma che ci cammina a fianco, si sposta con noi,
come il discontinuo giro del nostro orizzonte.
Se il teatro vuole quindi
ritrovare oggi al propria dignità e funzione culturale “storica”
di luogo di una conoscenza complessa maturata attraverso
l’esperienza, è dunque alla scienza che deve probabilmente anche
guardare; non già per imitarla pedestramente o peggio ancora per
normalizzarla e banalizzarla, riducendola ai propri schemi, ma per
trovare in un serio confronto con questo universo cognitivo
complementare e antitetico, la propria vera identità e
inattualissima attualità.
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