Leggere, oggi
Il testo originale, Aujourd’hui lire
si legge su Carnet de la langue-espace.
Traduzione di Francesco Marotta
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Traduzione di Francesco Marotta
La realtà e il pensiero animisti sono universali. In essi il brusio del continuum
immanente del mondo e lo scambio incessante tra la comunità degli
uomini e la comunità degli esseri invisibili si orientano sempre e
ovunque intorno alla vocalità della parola densa: una delle sue più frequenti modalità è il poema orale in atto.[1] Questa parola densa costituisce un corpus che il vocabolario contemporaneo può in modo appropriato definire letterario: perché si tratta di un corpus
etico, memorizzabile grazie a delle specifiche strutture formali, di
grande raffinatezza e rispettato da tutti. (Miserabili e infantili, le
idiozie razziste osano ancora parlare dell’incultura dei «primitivi»…)

Questa parola densa prescrive e
convalida i comportamenti; orienta le azioni, i gesti, le decisioni. E’
portatrice di senso. In quanto parola orale, non appartiene a nessuno,
sa scivolare fuori dal tempo presente senza tuttavia abbandonarlo. Segue
il suo percorso attraverso una bocca indeterminata e plurale, come
quella della Sibilla di Cuma, provenendo a sua volta da altre bocche
ancora. Affinché si instauri il dialogo tra comunità e spiriti
invisibili, essa è veicolata dalle labbra invasate degli iniziati,
spesso in stato di trance. Jean Rouch nei suoi documentari sui Songhaï, così come Virgilio all’inizio del sesto canto dell’Eneide, ce ne offrono una chiarissima testimonianza.
La parola densa costituisce un corpus, mobile e dai confini variabili, che va dalle semplici frasi assiomatiche fino alle ampie strofe spesso narrative. Questo corpus
è considerato e vissuto come presente. Regge ogni relazione immediata
utile al mondo, anzi si sostituisce ad essa e aiuta a vivere e a pensare
questa relazione e questo mondo; è quello che avviene con i Canti delle
Donne Anziane di Koyo, così come con l’aedo greco che canta un passo di
un’epopea per il villaggio seduto di sera intorno a lui.


Alcuni di questi testi, suggeriti dagli
spiriti agli iniziati, sono rappresentati, dipinti, anzi incisi, dai
primi posatori di segni, poi inventori della scrittura, sulla parete in
fondo a una tettoia rocciosa, come fece Ogo Ban sulla montagna di Koyo
cinque secoli fa nella sua grotta Danka komo (ne parlo nel mio libro Il tratto che nomina, qui e qui) o sul frontone della casa-tempio consacrata alla ricezione e all’ascolto della parola densa.
E si racconta, inoltre, anche di un dio che incise nella pietra con un
dito di fuoco dieci comandamenti che stabiliscono i comportamenti da
tenere tra gli uomini e col divino: secondo questa leggenda, ciò è
avvenuto in via eccezionale sulla cima di un monte, il Sinai. Sul tema
dell’emergere della scrittura, propongo al lettore il riferimento al mio
articolo L’immagine sul muro agisce, ripreso nell’edizione bilingue franco-italiana del mio libro L’immagine in atto, edito dalle Edizioni Algra nel dicembre del 2017.
Il fatto è che i tre monoteismi si creano una trascendenza senza giustificazione, fuori dal continuum, senza legame. Diffondono la loro parola densa
in testi che, di conseguenza, definiscono «rivelati». Poiché il divino
non è più tattile, né, quando sembra allontanarsi, è rintracciabile per
mezzo di sacrifici animisti ordinari, i testi diventano di natura sacra
intangibile e formano un corpus compatto, esclusivo e
assolutamente «unico» per tutta la comunità. I suoi chierici con alterne
fortune si prendono cura della loro esegesi; ma dogmatismo e
intolleranza sono immediatamente prodotti dall’idea stessa della
trascendenza e dal fatto che una casta di studiosi si impadronisce della
relazione della parola umana con essa.
A questo corpus scritto di
riferimento tutti si attengono, devono farlo; in esso e nei gesti che ne
derivano, come preghiere, posizioni rituali del corpo, pellegrinaggi,
tutti nella comunità trovano la giustificazione della loro identità, del
loro destino, della loro persona.
Tuttavia in Europa, in epoca
rinascimentale, le esegesi approfondite della Bibbia, grazie alla
riscoperta dei testi originali, particolarmente quelli in lingua greca,
destabilizzano il corpus unico degli ecclesiastici; la comunità
si scontra e si divide. Il suo ramo più attivo, quello protestante
nelle sue diverse scuole, sviluppa l’esame solitario, ovvero critico,
dei testi comunitari. La relazione intima e personale col testo prende
allora tutto il suo slancio.

Il romanzo cambia poco nel corso dei
quattro o cinque secoli di esistenza nel luogo d’origine. Il personaggio
principale è l’iniziato che, per metà morto, si è insinuato in questa
chincaglieria artificiosa, un burattino vagamente articolato, un
burattino rigonfio di gas in primo luogo emozionali. Questo fantoccio
permette al lettore, sempre più distaccato dalla sua comunità e relegato
in una cupa e impietosa solitudine dagli inganni del lavoro salariato,
da padroni castranti, da una religione del castigo e della redenzione
individuale, questo burattino permette dunque al lettore di interrogare
l’opacità del mondo. L’iniziato-burattino mostra nella narrazione
romanzesca il suo destino, il corso di una educazione e di prove
sostenute per impressionare e educare. Al lettore non resta che
giudicare e trarne un insegnamento.
Questo curioso testo romanzesco
rappresenta la gloria, il potere e il prestigio che la letteratura
europea si attribuisce. Il romanziere è il signore onnipotente; la
volontà umbratile del destino, la Tyche, l’ispirato capriccio
dei geni e degli spiriti dell’animismo si dissolvono trasferendosi nelle
mani dello scrittore romanziere, demiurgo sommario che si profonde, nei
fatti, nella lode magistrale dell’istinto proprietario, e vi si
compiace. Può anche verificarsi il caso sconcertante che lo scrittore e
l’insegnante di questa letteratura siano gli epigoni pedanti
dell’accademismo.


Ma già il testo ampio, ora principalmente
scritto e romanzato, al quale tutta la comunità fa riferimento per
interrogare il mondo e le sue inquietanti minacce, prende direzioni
diverse. In Europa le avanguardie futuriste russa e italiana,
vorticiste, espressioniste, dadaiste, surrealiste etc. degli inizi del
Ventesimo secolo destabilizzano fortemente il romanzo di formazione
(anche se, nei suoi risvolti commerciali, continua fino ad oggi a
soddisfare le esigenze di un considerevole numero di lettori,
costantemente alla ricerca di consolazione); in Europa e in America del
nord nascono inoltre antropologia e etnologia, in un primo momento
legate al colonialismo senza scrupoli, poi autonome. L’interrogazione
del mondo opaco non avviene più solo attraverso l’utilizzo
dell’immemoriale corpus testuale orale o equivocamente
trascritto; si esercita anche attraverso le scienze umane, esse stesse
continuamente alle prese con esegesi, crisi e riformulazioni.
Allo stesso modo si è creato recentemente
un nuovo e vasto spazio di parola, per ora più scritta che orale, tra
la persona e il mondo: quest’area non è unitaria, non è tenuta assieme
da una rivelazione o da dogmi; non è regolata dall’istinto proprietario.
Questa zona fluttuante produce un ascolto, un’attenzione necessariamente fluttuante, del mondo con i suoi enigmi.

Tra il frastuono del mondo e il lettore si è creato uno strato atmosferico strano, quello della «lettura», un vasto corpus
di testi scritti o anche trascritti dall’oralità. Leggere è diventato
così la grande pratica rituale animista contemporanea che interroga lo
spessore del mondo; una pratica onerosa, perché un libro costa
parecchio; finanziare una biblioteca pubblica costa caro. La «lettura»
porta via tempo. Con una autorevolezza decisiva essa spalanca uno spazio
di libertà interiore di giudizio e di destino, proprio come il coltello
dell’officiante animista che versando il sangue dell’animale
sacrificato apre temporaneamente una breccia di libertà vertiginosa e
visionaria nella sete inestinguibile dei morti e dei vivi.
Alla fine, questa «lettura» che potrebbe sembrare un modo di sottrarsi al contatto tattile con il continuum pullulante e pericoloso del mondo, crea un’istanza, lo strato atmosferico ribelle e mai asservito del corpus letto: «lettura» come controllo della trascendenza mortifera e ritorno alla mobilità animista.
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[1] Prima ancora che
sonora e vocale, quella che io chiamo la «lingua-spazio» è una
sedimentazione di elementi fisici depositati un un certo luogo dalle
generazioni successive, elementi che attualmente si presentano come
segni visivi. A differenza di quella che chiamo qui la parola densa,
la cui coerenza strutturale è intrinseca, questi segni visivi non sono
per forza coerenti tra loro; essi realizzano un ordito significativo
dello spazio, anche se questo ordito risulta talvolta caotico. Si è
sempre di fronte alla lingua-spazio, in maniera passiva se non
obbediente o in maniera dinamica, addirittura creatrice. Nello stesso
modo, si è sempre di fronte alla parola densa.
Testo ripreso da https://rebstein.wordpress.com/2018/09/03/leggere-oggi/
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