Nel Cinquecento con il
nascere degli eserciti moderni nasce anche la figura del cappellano:
il prete a seguito della truppa che deve motivare i soldati a
uccidere e a farsi uccidere. E' una figura moderna, un saggio ne
ricostruisce genesi e percorsi.
Alessandro Santagata
I sacerdoti
“arruolati” dalla guerra santa alle uccisioni senza odio
In una fase storica in
cui l’idea di uno «scontro di civiltà» è tornata con forza, e
con tutto il suo carico di violenza, è particolarmente importante
andare alla ricerca delle genealogie discorsive. Una prospettiva
attenta alla lunga durata ci viene dall’ultimo studio di Vincenzo
Lavenia, Dio in uniforme. Cappellani, catechesi cattolica e soldati
in età moderna (Il Mulino, pp. 293, euro 28); un’ampia
ricostruzione storica sul lessico bellico d’impronta religiosa e
sul rapporto tra clero cattolico ed esperienza militare tra il XVI e
gli inizi del XX secolo.
Oggetto specifico
dell’analisi sono i catechismi castrensi, in particolare quelli del
Cinquecento. La ricerca, però, allarga il campo a una serie
questioni relative al linguaggio religioso della violenza e al suo
disciplinamento. Si prende le mosse dalle prime teorizzazioni della
«guerra giusta» per arrivare a alle elaborazioni successive di
Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, e Francisco Suárez.
«L’obiettivo non è quello di ripercorrere la storia ’alta’ della teologia e casistica di guerra», ma calare il discorso nella realtà storica: dalla ripresa degli appelli alla guerra santa, e poi delle guerre di religione, per arrivare oltre il tornante di Vestfalia, la pace che pone fine alla guerra dei trent’anni, considerata da Carl Schmitt lo spartiacque verso una «neutralizzazione» del carattere ideologico della guerra. Il libro illustra efficacemente gli snodi di un progressivo adattamento della religione alle retoriche belliche della tarda età moderna, almeno fino alla Rivoluzione francese, quando «sarebbe saltata di nuovo, come ai tempi delle guerre di religione, la distinzione tra eserciti e popolazione civile che aveva disciplinato i conflitti dopo il 1648».
Principali protagonisti
di questo percorso sono i gesuiti che, fin dalla fondazione della
Compagnia, si impegnano a fianco delle truppe, in Europa e lungo le
rotte coloniali. Spicca la figura di Antonio Possevino, che nel 1569
scrive un testo destinato a diventare un modello della catechistica
castrense. Per conseguire il favore divino – spiega il gesuita –
bisogna predicare e correggere «quelli peccati che sogliono essere
familiari» ai soldati e animarli. Occorre dunque fare esercizio di
carità, invogliare i soldati alla confessione, esortare al
sacrificio e al controllo della violenza. Segue quella che diventerà
per lungo tempo la tradizionale elencazione dei peccati e le
indicazioni disciplinari per evitarli. Le prescrizioni sono legate
alle letture, alla cura del corpo, alla pulizia del linguaggio.
Su questa linea si muovono, per esempio, Edmond Auger e poi Thomas Sailly. Nel corso del XVIII secolo, l’istituto del cappellano militare conosce una prima crisi, coincidente con la nascita dell’esercito moderno, e degli istituti per la formazione di ufficiali, che prendono il posto del clero nel campo dell’educazione alla guerra. La seconda parte del libro segue quindi le tappe di una progressiva, e necessaria, rimodulazione.
Centrale è il passsaggio
del 1789, quando torna prepotentemente sulla scena l’idea della
«guerra santa», questa volta combattuta contro le eresie della
modernità e i mali moderni prodotti dal pensiero dei Lumi. Lavenia
illustra il nuovo protagonismo del clero, a cui si accompagna
un’evidente radicalizzazione del linguaggio, della quale fornisce
un esempio il catechismo del missionario spagnolo Diego Josè de
Cadiz, che invita a «sterminare» i nemici della «sediziosa e
regicida assemblea di Francia». L’Ottocento fa da cornice a quel
progressivo processo di patriottizzazione del clero che, per ovvie
ragioni storiche, è diventato sempre più complesso. L’istituto
del cappellano militare viene progressivamente espulso dagli
eserciti: quello tedesco, quello francese repubblicano, ma anche
quello del Regno d’Italia, almeno fino ai primi del Novecento.
Da Leone XIII in
avanti, per la Chiesa il problema diventa allora quello di
conciliarsi con il dispositivo della nazione senza sposare però il
«nazionalismo», che si presenta come un culto alternativo e
particolarmente competitivo.
La ricostruzione si
conclude con l’ingresso nel Novecento, quando «la mobilitazione
totale dei paesi impegnati nel conflitto coinvolse sacerdoti romani,
pastori, e rabbini in misura prima sconosciuta». Sono ricordate le
divisioni provocate all’interno della Chiesa cattolica dal
coinvolgimento degli episcopati nella Prima guerra mondiale, ciascuno
dei quali afferma di avere Dio dalla propria parte. Il nazionalismo
viene ormai assunto e confessionalizzato, ponendo così le premesse
per quella che sarà la distinzione successiva tra il nazionalismo
«buono» e il «nazionalismo esasperato». Non cambia invece la
retorica dei nuovi strumenti propagandistici rivolti a ufficiali e i
soldati (libretti, raccolte di preghiere, periodici): Lepanto, i
santi e gli eroi del passato, e così via.
Quello disegnato da Lavenia è quindi un percorso non lineare, ma con significativi elementi di continuità. Può essere utile aggiungere che la Prima guerra mondiale segna una rottura radicale anche dal punto di vista culturale alzando l’asticella della violenza retorica e pratica. Il motivo dell’«uccidere senza odio», sul quale si concentrano i catechismi, non scompare, ma viene piegato alle istanze della mobilitazione di massa e della guerra tecnologica. Tappe di un percorso che solo a Novecento inoltrato vedrà la Chiesa sganciarsi (pur con alcune contraddizioni) dalla legittimazione dei conflitti.
Il Manifesto – 20
luglio 2018
Nessun commento:
Posta un commento