Dieci anni fa di marzo, a un anno dalla morte di Giuseppe Barbaglio, studioso del nuovo e vecchio testamento, teologi e amici, credenti e non credenti, si riunirono a discutere presso la Facoltà Valdese a Roma, quasi per continuare un suo progetto di lavoro sui “mille volti di Gesù” nella tradizione cristiana ed ebraica. Ne parlarono per un giorno e mezzo Alfio Filippi, Yann Redalié, Romano Penna, Stefano Levi della Torre, Jean Noel Aletti, Gabriella Caramore, Severino Dianich, Ernesto Borghi, Giancarlo Martini, Antonio Guagliumi, Carla Busato, Rossana Rossanda, Mario Tronti, Raniero La Valle e Claude Geffré. Alla vigilia “il manifesto” pubblicò – con le informazioni sul convegno - il ricordo di Barbaglio, scritto da Rossana Rossanda, che qui riprendo. (S.L.L.)
Giuseppe Barbaglio e i mille volti di Gesù
Rossana Rossanda
I mille volti di Gesù è il titolo che Barbaglio aveva dato alla messe di appunti bibliografici lasciati sul computer. Suscita molte domande, prima di tutte: in che senso Barbaglio - che aveva portato a fondo una ricerca puntuale (e ricevuta con scarso entusiasmo oltretevere) su quello che aveva chiamato l'«Ebreo di Galilea», quell'uomo, quello specifico «individuo» - si proponeva un'indagine sui suoi «mille volti»? Pensava che fossero di molteplice significato e intrepretazione i gesti e le parole raccolte nei vangeli sinottici, negli atti degli apostoli, nei testi discussi ma non ammessi nel canone, che aveva valutato con l'acribia dello storico, saggiandoli in quel ribollente tempo di attesa del messia? Tempo in cui molti uomini lasciavano casa e figli per andare cercando e predicando e guarendo, profeti come quel Giovanni Battista che tormentava la coscienza dei potenti, o guarendo come fece anche Gesù, o aggregandosi in sette riflessive alla ricerca della parola? Il suo «Ebreo di Galilea» era uno di loro.
Nessun altro studio, meno
che mai quello tranquillo ed edificante pubblicato un paio di anni
dopo da Ratzinger, restituisce a mio avviso l'impatto di quel destino
illuminato e atroce in un secolo in fermento, coagulo di miserie e
speranze d'una trascendenza salvifica. Un Gesù così diverso dal
giovane biondo e un po' melenso appeso ai muri delle sagrestie della
chiesa devozionale, ma anche dalla compostezza oltremondana dei
crocifissi italiani del rinascimento o dall'orrore dei corpi
dislocati e purulenti della pittura nordica.
Il senso, per Barbaglio,
non è come in Duchamp: il quadro è di chi lo legge. I mille volti
non sono di quello che per i cristiani è il figlio di dio, ma di
coloro che in occidente, nei duemila anni seguiti, si sono veduti in
lui, sia nel dilatarsi dell'universo cristiano sia nell'imponenza
della chiesa che vi si costruiva sopra. Teologi, filosofi, esegeti e
gente semplice, che sullo scandalo della Croce hanno rifratto idee,
dubbi, bisogni, speranze, angosce.
Barbaglio ha lasciato una
sapientissima bibliografia, ordinata capitolo per capitolo, senza
consegnarci lo schema dei capitoli di quel che aveva in mente e non
ha fatto in tempo a scrivere. I «mille volti» non indicavano,
penso, una sua nuova interpretazione delle parole del Cristo, ma la
complessità dell'itinerario dei suoi molti esegeti; a cominciare da
Paolo, per anni al centro degli studi di Barbaglio che delle parole
di Cristo aveva fatto una prima elaborazione per immetterle in una
cultura scettica e avanzata come quella dell'ellenismo. Il «pensare
di Paolo» doveva superare l'ostacolo costituito dal fatto che quel
che Gesù aveva detto come imminente non si era verificato. I
discepoli si erano attesi la resurrezione come una gloriosa epifania
davanti al mondo ed era invece apparso brevemente soltanto ad essi
lasciandoli isolati nell'ostilità degli ebrei. E con questo pareva
vanificarsi la promessa resurrezione dei morti - «se Cristo non è
risorto nessuno risorgerà». Ma la resurrezione era il cardine della
nuova fede.
E così il mancato
avvento del Messia, cui Gesù aveva avvertito di tenersi pronti.
Paolo vi si dibatte nel suo discusso «Cristo è già fra voi, fra
noi»: prendeva sulle sue spalle quel che i nostri deboli tempi
chiamano «il silenzio di Dio». Ma come si mette oggi tutto questo
in una fede? Come lo ha messo Barbaglio, sul quale è calata quella
cieca morte che Paolo diceva vinta: «Morte, dov'è la tua vittoria?»
Noi, non toccati dalla grazia, la incontriamo soltanto vincente.
Non sapremo, o almeno io
non saprò come, non avendo potuto moltiplicargli le domande -
credevamo di avere molto tempo, tanto ci azzuffavamo un po' per
scherzo perfino via telefono. Io trovavo terribile, fin odioso, a
parte il Genesi, il dio dei primi libri del Vecchio Testamento,
vendicativo, irascibile, crudele. Ma no, faceva Barbaglio con quel
suo sorriso allegro, no, c'è anche nel Vecchio Testamento un dio
amoroso, un filo rosso... Ma quale filo rosso tempestavo.
Negli ultimi mesi
battibeccammo su Ruth, cara ad alcune mie amiche e che io non amo
affatto, né mi è riscattata dalla relazione con Noemi: sono due che
si danno abilmente da fare per assicurare a Ruth un uomo, che cosa ci
trovi? Mi scombussolò sentirgli dire, piano: «Non capisci, io sono
Ruth» - uno cui molto, e quando tutto credeva perduto, era stato
dato. Incrociammo affettuosamente le spade fino all'orlo della sua
morte: mi aveva mandato una relazione di Geffré che gli era parsa
illuminante, sull'ecumenismo dove il Vaticano fa un passo indietro
dopo l'altro. Chi pregano gli «altri»? Geffré non rispondeva, come
molti credenti: «È lo stesso dio quello che ciascuno, ciascuna
prega e intravvede, nelle forme cui la sua cultura lo presenta».
Diceva che in ognuna delle grandi fedi c'è qualcosa che manca
all'altra - c'è una mancanza, un manque per cui nessuna è in
sé compiuta. Giuseppe era preso dagli scenari che apriva il manque
- l'assenza come chiave. Una mancanza nella rivelazione, ma come è
possibile, ma che Dio è? - strepitavo io tale e quale un
seminarista. «Benedetta donna, ma perché non capisci...», sono
forse le ultime battute che ci siamo scambiati.
"il manifesto", 27/03/2008
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