Il «New Deal» viene
inscritto dallo storico anglo-tedesco Kiran Klaus Patel nel ventaglio
delle politiche di intervento di vari governi europei dell’epoca.
Un libro interessante, ma la tesi della sostanziale convergenza (al
di là dell'aspetto delle forme politiche) della politica
roosveltiana e dell'interventismo fascista nell'economia non è una
novità. Già all'inizio degli anni '50 su “Programma comunista”
Amadeo Bordiga ne aveva fatto oggetto di una attenta analisi.
Francesco Benigno
Roosevelt non fu una isolata eccezione
La grande depressione
che venne avviata nel 1929 dal crollo della borsa di New York e che
sconvolse in profondità la società statunitense, creando enormi
masse di disoccupati, di senzatetto, di sbandati, si propagò
rapidamente come un’onda tellurica, peggiorando ovunque le
condizioni di vita e producendo devastanti contraccolpi politici,
come in Germania, dove fu uno dei fattori che condussero
all’instaurarsi del regime nazista. Soprattutto, questa sorta di
tsunami planetario finì per offuscare quel concetto-base della
modernità che era stato il progresso: l’idea che il futuro sarebbe
stato migliore del presente, proprio come il presente era stato
migliore del passato. La società americana seppe tuttavia reagire
grazie a una politica di interventi statali promossa a partire dal
1932 dal presidente Franklin Delano Roosevelt, una vicenda ora
ripercorsa nell’importante volume dello storico anglo-tedesco Kiran
Klaus Patel, appena uscito da Einaudi con il titolo Il New Deal Una
storia globale (pp. XVIII-534, euro 34,00) dove si dimostra
come alle spalle ci fosse una congiuntura mondiale più che costanti
inscritte nella storia americana.
Giustamente celebrato
per aver costituito l’unica vera risposta democratica alla crisi,
il New Deal appare dalle pagine di Patel non un’eccezione, ma una
variante nel ventaglio delle politiche di intervento adottate dai
vari governi dell’epoca. Questo non vuol dire sminuire il valore di
un’esperienza che Roosevelt seppe tenere ben all’interno del
sistema liberal-democratico, ma sottolineare similitudini e
differenze delle strategie promosse dai New Dealers non solo con
quelle attuate da regimi socialdemocratici nel Nord Europa – la
Svezia divenne presto un mito, prima negli Usa e poi nel mondo – ma
anche con quelle messe in capo dai regimi autoritari e/o totalitari
in Germania, nell’Unione Sovietica e in Italia.
Una strada davvero originale fu intrapresa, per fare un esempio, nel dare sostegno agli agricoltori, penalizzati dall’eccesso di produzione, punto nodale della crisi. Malgrado una conferenza economica internazionale avesse già nel 1927 segnalato ai governi come la soluzione al problema delle eccedenze non consistesse in un aumento delle tariffe, la risposta generale fu proprio quella del protezionismo agrario.
Se le dittature puntarono sull’autarchia agricola (il fascismo ad esempio aveva già sviluppato da anni la sua «battaglia del grano») anche paesi liberal-democratici come l’Australia, si acconciarono a puntare sull’autosufficienza, lanciando nel 1930 la campagna Grow more wheat, produci più grano. Anche Roosevelt seguì il generale orientamento protezionista, ma poi, una volta erette le barriere dei dazi, scelse «una strada nuova e inesplorata», quella di sovvenzionare i produttori che avessero accettato di cessare la produzione e di eliminare il bestiame in eccesso.
Anche sull’altro fronte sensibile della crisi, quello della crisi bancaria indotta dal problema dei debiti internazionali e dal tracollo del sistema aureo internazionale, la soluzione statunitense, quella dell’universalizzazione dell’intervento statale, ebbe precisi paralleli nelle esperienze di altre parti del mondo. Più in generale fu comune la tendenza a puntare su un massiccio intervento pubblico, che prese forme diverse – un arco di misure che vanno dall’intervento emergenziale della mano pubblica ai piani quinquennali staliniani e quadriennali nazisti – ma che comportarono in ogni caso lo stravolgimento delle regole classiche dell’economia di mercato.
Nel campo delle politiche
industriali, ad esempio, gli Stati Uniti realizzarono un’inversione
di rotta completa rispetto all’epoca precedente, caratterizzata dal
liberismo e dalla legislazione anti-trust. Con gli anni Trenta si
affermava invece una nuova tendenza alla istituzionalizzazione dei
cartelle e alla partecipazione pubblica al sistema industriale;
un’osmosi ben rappresentata dal simbolo della Nra (National
Recovery Administration) l’agenzia statale dedita al salvataggio
aziendale: un’aquila blu che artiglia con la sua zampa una ruota
(l’industria) e con l’altra una saetta (il potere).
Ancora una volta le
esperienze messe in campo dal fascismo (dall’Iri all’Eni) furono
assai simili, come Mussolini non mancò di far notare: Roosevelt
stesso, del resto, e molti New Dealers con lui, rivolsero uno sguardo
attento, e in privato condiscendente, verso le esperienze fasciste,
almeno fino al 1935; anche le strategie di welfare naziste vennero
attentamente scrutinate e il piano statunitense per l’impiego della
gioventù, ad esempio, aveva notevoli punti di contatto con
l’Arbeitsdienst tedesco.
La strategia di Roosevelt fu insomma assai abile: da un lato venne incontro alle esigenze di protezione espresse dal corpo sociale, isolando l’economia americana per evitare fenomeni di contagio depressivo, mentre dall’altro lato attivò una serie di agenzie finalizzate a eseguire lavori pubblici, a lenire la disoccupazione, a costruire residenze popolari, e a spostare la lotta al crimine su un piano federale, con il rafforzamento del Fbi. Distante da qualunque tentazione autoritaria, Roosevelt era convinto, come affermò nel 1936, che quella intrapresa con successo in America fosse ben più di una guerra contro la povertà, l’indigenza e la depressione economica: «È una guerra per la sopravvivenza della democrazia».
Valendosi di un accorto uso della propaganda, specie radiofonica, Roosevelt fece fronte alla disabilità che gli impediva quella teatralizzazione gestuale tipica degli oratori del suo tempo, e inventò un nuovo format, quello delle «fireside chats» radiofoniche, che gli garantirono uno straordinario rapporto empatico con gli americani e, di conseguenza, ben quattro rielezioni successive.
Concentrata a lungo sui problemi interni, la sua politica si avvantaggiò di una generazione di tecnici che affrontarono i problemi sociali con competenza e puntiglio: da esperienze come quella della Tva (Tennessee Valley Authority) venne un impulso straordinario a razionalizzare ed affrontare i problemi del sottosviluppo. Fu la «rivoluzione dei temperamatite», condotta da una leva di giovani tecnici-manager che, dopo la fine della seconda guerra mondale, si sarebbe diffusa negli organismi internazionali.
Intanto però, a partire dal 1938, Roosevelt si impegnò a far capire agli americani che l’isolazionismo e il neutralismo di fronte alla minaccia nazista non potevano più durare e la priorità che egli stesso aveva dato ai problemi interni e che i suoi avversari continuavano a pretendere, coniando quello slogan America first! recentemente ripreso da Trump, non era più difendibile. La guerra poi, ci mostra Patel, completò davvero il New Deal, non solo perché mise fine alla depressione economica ma anche perché legittimò e normalizzò definitivamente l’intervento statale in campo economico. Più tardi, negli anni Cinquanta, Isaiah Berlin avrebbe guardando retrospettivamente all’esperienza del New Deal scrivendo che essa fu l’unica luce nell’oscurità, capace, in un momento di debolezza e di disperazione del mondo democratico, di infondere forza e fiducia.
il manifesto – 23
settembre 2018
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