Alcove regali. Le prime duemila notti di nozze di Maria
Antonietta e Luigi XVI
di Stefan Zweig
In questo letto dapprima non succede nulla. Ed è veramente grottesco
l'involontario doppio senso con cui il giovane marito l’indomani annota nel suo
diario la sola parola: «Rien». Né le cerimonie di corte, né la
benedizione vescovile del talamo hanno potuto vincere una penosa malaugurata
deficienza fisiologica del delfino. Matrimonium non consummatum est, non
oggi, non domani e non negli anni subito seguenti. Maria Antonietta ha trovato
un nonchalant mari, un marito trascurato. Dapprima si pensa che sia
soltanto timidità, inesperienza o nature tardive (noi diremmo oggi:
infantilismo) a inceppare lo sposo sedicenne di fronte all'adorabile fanciulla.
Non conviene insistere e turbare il giovane già psichicamente incerto, pensa la
madre esperta. Essa esorta Antonietta a non crucciarsi troppo di quella prima
delusione coniugale: «point d’humeur là-dessus» le scrive nel maggio
1771, e raccomanda alla figlia «caresses, cajolis», ma senza eccessi di
tenerezze, giacché «trop d'empressement gâterait le tout».
Quando però tale situazione dura da
un anno, da due, l’imperatrice comincia a inquietarsi di questa «conduite si
étrange» del giovane marito. Del suo buon volere non si può dubitare,
giacché il delfino di mese in mese si mostra sempre più devoto alla sua
graziosa consorte: egli rinnova senza desistere le sue visite notturne, i suoi
vani tentativi, ma dall’estrema tenerezza lo trattiene non si sa quale «maudit
charme». Maria Antonietta pensa si tratti soltanto di «maladresse et
jeunesse», e nella sua inesperienza la poverina smentisce persino le «male
dicerie che circolano in paese sulla sua impotenza» (18 dicembre 1771). Ma ora
interviene la madre che fa venire il proprio medico di corte van Swieten e con
lui discute la «froideur extraordinaire du Dauphin». Van Swieten si
stringe nelle spalle. Se una ragazzina tanto bella e affascinante non riesce a
infiammare suo marito, ogni farmaco sarà vano. Maria Teresa continua a mandare
lettere a Parigi; alla fine è il nonno, Luigi XV, buon conoscitore e buon
esperto in materia, a tenere una paternale al nipote. Il medico di corte
Lassone viene messo a parte del segreto, e una visita stabilisce che la
disgrazia del principe non ha radici psichiche, bensì deriva da un difetto
organico (una fimosi) di nessuna gravità.
Si susseguono i consulti per
decidere se convenga l’intervento del chirurgo col bisturi... «pour lui
rendre la voix», come si sussurra cinicamente nelle anticamere. Anche Maria
Antonietta, nel frattempo edotta a cura delle amiche più esperte, fa quel che
può per persuadere il marito («Je travaille à le déterminer à la petite
opération, dont on a déjà parlé et que je crois nécessaire» 1775, alla
madre). Ma Luigi XVI - il delfino nel frattempo è bensì divenuto un sovrano, ma
dopo cinque anni non ancora un marito - non sa indursi a un'azione energica.
Esita e indugia, tenta e ritenta, e questa situazione ripugnante e ridicola si
trascina con vergogna di Maria Antonietta, con scherno della corte intera, con
rabbia di Maria Teresa, con avvilimento del re medesimo, per ulteriori due
anni, cioè complessivamente per sette terribili annate, fino al viaggio
dell’imperatore Giuseppe, che riesce a spingere il pauroso cognato all’operazione.
Soltanto allora questo melanconico Cesare dell’amore varcherà felicemente il
Rubicone. Ma il paese dell’anima in cui entra da tardo conquistatore è già
devastato da sette anni di ridicola lotta, da duemila notti in cui Maria
Antonietta come donna e come sposa ha subito l’umiliazione estrema del suo
sesso.
S. Zweig, Maria Antonietta,
Oscar Mondadori 1984
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