10 settembre 2018

J. REED, Uno dei dieci giorni che sconvolsero il mondo

Il giornalista americano J. Reed

 
Nel primo anniversario dell’ottobre, all'incirca 100 anni fa, John Reed rievocò, in un articolo pubblicato sulla stampa americana, il secondo giorno della rivoluzione, che doveva in seguito narrare nel suo celebre libro, I dieci giorni che sconvolsero il mondo. L’articolo è comparso su “La Città futura”, il mensile dei giovani comunisti nel n.8 del marzo 1965, nella traduzione non firmata che qui riprendo. (S.L.L.)
 
Secondo congresso panrusso dei Soviet (San Pietroburgo 7-9 novembre 1917)
La seduta del secondo Congresso panrusso dei Soviet si svolge nell’ex salone da ballo ed aula magna dell’istituto Smol’nij che durante il vecchio regime era una famosa scuola alla quale avevano accesso esclusivo le fanciulle nobili, sotto gli auspici dello zar in persona. È un immenso salone bianco con due file di massicce colonne, illuminate da due lampadari di un bianco accecante, riccamente ornati e forniti di centinaia di lampadine elettriche; in fondo alla sala vi è un palco sul quale troneggiano due alti candelabri carichi di lampadine e, dietro, un’immensa cornice dorata dalla quale è stato tagliato via il ritratto dell’imperatore. Qui nei giorni di festa e alla fine dell’anno scolastico si riunivano gli ufficiali nelle loro divise rilucenti, il clero nei suoi paramenti sfarzosi, gli intimi della granduchessa.

Lo spazio fra le colonne è coperto da file di seggiole, ve ne sono circa mille. La maggioranza dei delegati ha l’uniforme di soldato semplice. Gli altri vestono le semplici bluse nere degli operai e qualche variopinta giubba contadina. Ci sono alcune donne. Qua e là balenano rare spalline rosse e oro degli ufficiali e qualche colletto bianco. Dappertutto all’intorno fra le colonne, sui davanzali, su ognuno dei gradini che portano al palco, e persino sui bordi del palco è seduto il pubblico, costituito anch’esso di operai, contadini e soldati. Tra il pubblico qua e là si ergono delle baionette.
Delle guardie rosse esauste coi nastri delle cartucce a bandoliera dormono sul pavimento presso le colonne.
La sala è riscaldata solo dal calore umano e sui vetri delle alte finestre si forma la brina. L’aria è azzurra per il fumo delle sigarette e il fiato della gente. Attraverso questa cortina azzurra centinaia di volti guardano la scena sul fondo nella quale sono raccolte bandiere rosse con scritte dorate.
Volti semplici, uguali, aperti e decisi, volti anneriti dal gelo delle trincee, zigomi alti, molte barbe e, alle volte, volti affilati, grifagni di abitanti del Caucaso o del Turkestan, molti di essi con radi baffi tartarici. Sono tutti rivolti in una direzione con una espressione di ingenuo interesse infantile. Non si sente disagio, probabilmente a nessuno viene in mente che ciò che avviene è qualcosa di eccezionale, tutto si svolge come se si fossero riuniti dei contadini profondamente interessati ad un nuovo meraviglioso raccolto.
La seduta era stata fissata per le sei di sera : sono già le dieci e non è ancora iniziata.
Oggi è il sette novembre, il secondo giorno dell’insurrezione bolscevica. Il decreto sulla terra è già stato approvato, il Palazzo d’inverno è stato preso. Nella sala della Duma municipale si riuniscono le forze della controrivoluzione: i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, i cadetti, i monarchici, l’unione degli ufficiali. Dicono che Kaledin si muova verso il nord e Kerenskij si avvicini dal fronte con cinque divisioni cosacche.
Al tavolo della stampa è seduto un giovane intellettuale, ben vestito, interessante, un seguace di Kropotkin che per molti anni è stato nell’emigrazione a Parigi. Egli osserva la folla rozza, e tesa con un sogghigno e un atteggiamento un po’ distaccato lanciando di tanto in tanto delle osservazioni spiritose. Gli sembra incredibile che questa gente zotica, maleducata, osi pensare di poter dirigere la grande Russia.
«Andiamo — mi dice in francese. — Mi sono seccato. Autonominiamoci comitato per la ricerca della presidenza perché questo spettacolo possa cominciare». Mentre stiamo uscendo aggiunge: «Comunque non c’è fretta. Tra quarantott’ore scapperanno a rompicollo».
Ora, a dodici mesi di distanza ricordo spesso quest’osservazione.
Camminiamo lungo il corridoio a volta debolmente illuminato, pieno di enormi figure indistinte di operai e di soldati che si muovono in fretta, e disperatamente freddo. A destra e a sinistra vi sono delle porte sulle quali sono indicati gli innumerevoli aspetti dell’attività dei Soviet: sezione internazionale, sezione soldati, la redazione delle Izvestia, il settore stampa, l’unione dei militari democratici, i sindacati, i comitati di fabbrica, la direzione dei vari partiti politici. Attraverso la porta della stanza 28 dove sono runiti i socialisti-rivoluzionari di sinistra si sentono voci di gente che discute in tono altissimo: la porta è sbarrata. La camera 18 al pianterreno è il settore di Lenin; in questa camera si accalcano alcune centinaia di bolscevichi. Sembra che non importi a nessuno che noi entriamo o no. Quando chiediamo a che ora finirà la riunione i presenti si stringono nelle spalle con impazienza. Tutti sono in preda all’entusiasmo, negli occhi di tutti c’è un’espressione decisa e trionfante. Hanno l’aspetto di gente che da molte settimane non dorme, ma gli occhi brillano.
Al piano superiore in una piccola stanzetta giorno e notte è in riunione il Comitato militare rivoluzionario, centro dell’insurrezione che si è estesa largamente. Entrano ed escono correndo delle staffette. Da questa camera giunge a noi il suono di voci basse e decise.
Andiamo nella sala dove si deve tenere la seduta.
I socialisti-rivoluzionari di sinistra sono già qui, stanchi ma eccitati. Alla loro testa sono Kamkov, Maria Spiridonova, Karelin, Kolegaev. Un attimo dopo entrano i bolscevichi che formano un gruppo compatto attorno a Lenin. Dopodiché sale sul palco la presidenza, con Aleksandra Kollontai, Martov per i menscevichi-internazionalisti, Trotzkij, alcuni menscevichi, i socialisti-rivoluzionari, Abramovic per il Bund, Kramarov che è temporaneamente presidente del gruppo Novaja Zhizri. Il presidente legge l’ordine del giorno composto, come d’abitudine, dalla presidenza. Oggi il congresso deve esaminare la questione della guerra e della pace, la formazione del governo e la difesa della capitale da Kerenskij. Ma, com’è ovvio, ci si attiene all’ordine del giorno solo in modo molto approssimativo. Iniziano lunghissimi interventi degli oratori più diversi: i soldati delegati salutano il congresso a nome dei propri reggimenti al fronte, gli ufficiali e gli intellettuali protestano contro l’insurrezione, i contadini ricchi maledicono i bolscevichi perché questi hanno arrestato il ministro Maljantovic: «è un socialista anche lui».
Con rabbia e con accanimento protestano contro l’arbitrio dei bolscevichi i rappresentanti di vari partiti politici, persino i socialisti-rivoluzionari di sinistra. Karelin racconta come le guardie rosse si sono impadronite della tipografia del giornale Znamja truda ed hanno chiuso il giornale.
Per tutta la notte la riunione con applausi e con urla esprime la sua approvazione o la sua ira: la sala mugghia come il mare in tempesta. Più volte viene proposto di limitare il tempo a disposizione degli oratori, ma tutte queste proposte vengono bocciate a maggioranza. I delegati di vari partiti protestano contro la composizione della presidenza affermando che la schiacciante maggioranza bolscevica non deve imporre tutto lo svolgimento del congresso, che la presidenza dovrebbe essere più generosa e dare anche alla minoranza la possibilità di esprimersi.
I bolscevichi hanno messo in moto ciò che noi americani chiamiamo il rullo compressore. Nelle riunioni politiche in Russia tutto il lavoro vero viene condotto fuori dalla sala, nelle riunioni private dei capi partito delle diverse frazioni. I bolscevichi sono in maggioranza. Essi non possono privare la minoranza della parola: non ci sono regole secondo le quali si può interrompere la discussione. Ma i bolscevichi hanno preso la decisione dell’insurrezione armata del popolo; essi sanno che le masse di Pietrogrado li seguono; essi sono convinti che tutta la Russia li segua; ed essi tirano diritto spietatamente e fiduciosamente.
Molto dopo la mezzanotte Lenin con voce tranquilla legge il suo appello ai popoli di tutti i Paesi belligeranti sull’armistizio e la pace. La sala ascolta tesa: le fronti degli ascoltatori sono in sudore, tanto rabbiosamente essi vogliono la pace. Lenin ha terminato. Si levano delle proteste, alcune di esse vengono accolte con un mugghio furibondo e delle grida: «Basta. Chiudi il becco!». Si vota. Persino i «moderati», i socialisti-rivoluzionari di sinistra e il gruppo Novaja Zhizri, votano a favore. Uno solo vota contro. Un’esplosione di rabbia e di risate lo costringono ad abbassare la mano.
In un unico slancio, con un unico pensiero, senza una sola parola ci alziamo in piedi, tutti, fino all’ultimo, e cantiamo l’Internazionale. Il canto si fa strada attraverso l’aria piena di fumo, straripa al di là delle pareti e vola su tutto il mondo in preda alla guerra. Vi è chi si abbraccia, le lacrime scorrono sui visi induriti, barbuti, ci colpisce un sentimento di profondissimo entusiasmo. La pace! La pace e il potere del popolo a tutta l’umanità. L’inizio della rivoluzione universale, la fine dell’ingiustizia, la nascita di un mondo nuovo! «Non dimentichiamo chi ha dato la sua vita per questa notte!» — grida una voce quando finiscono di echeggiare le ultime note.
E noi cantiamo «Siete caduti vittima», la marcia funebre, quest’inno solenne e vittorioso che tanto dice al cuore di ogni russo. Si impadronisce di noi la convinzione profonda che non si tratti di un semplice erompere di emozioni ma della manifestazione suprema del vero potere politico. Abbiamo la sensazione che forse il popolo ha veramente vinto. Ascoltate Lenin: «La rivoluzione è appena iniziata. Noi ci siamo impadroniti di Pietrogrado. Domani noi vinceremo Kerenskij. Dopodomani spezzeremo la resistenza della borghesia».
Viene proclamato il nuovo governo, «governo che poggia sui Soviet dei deputati operai, contadini e soldati». Dalla tribuna viene annunciata la composizione del Consiglio dei commissari del popolo, ed ogni nome viene salutato da applausi a seconda dei meriti rivoluzionari di chi lo porta: il nome di Trotzkij suscita un forte, disordinato battimani, e il nome di Lenin una tempesta ininterrotta di ovazioni. Ma il fatto stesso della proclamazione del governo che in occidente sarebbe il punto culminante della rivoluzione qui viene accolto come qualcosa di ovvio. Qui è il popolo che è al potere. Non hanno importanza le persone singole, è importante solo la rivoluzione.
Sono già le cinque passate quando infine usciamo. In paesi più meridionali ad oriente l’aurora sarebbe già rossa, qui ancora per quattro ore sarà notte nera. Non c’è ancora la neve ma il fango nero che copre le strade è gelato. Agli incroci, attorno a falò fiammeggianti stanno accoccolati piccoli gruppi di guardie rosse. Vedendoci ci gridano: «Viva la Russia libera»; hanno gli occhi ardenti e le loro voci sono piene di un’emozione inesauribile.
Aspettano i tram pronti a portarci per la città. Molto tempo prima, alle undici di sera, nelle strade di Pietrogrado era cessato il traffico tramviario, ma il sindacato dei ferrotranvieri manda dei vagoni con dei conduttori volontari che attendono presso lo Smol’-nij la fine della seduta del congresso dei Soviet. Ci accalchiamo sulle vetture continuando a discutere ed a gesticolare...
Lontano echeggiano a caso degli spari. Ci muoviamo e alle nostre spalle resta l’immenso Smol’nij fiammeggiante di luci e ronzante come uno sciame di api.

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