Il giornalista americano J. Reed
Nel primo anniversario
dell’ottobre, all'incirca 100 anni fa, John Reed rievocò, in un
articolo pubblicato sulla stampa americana, il secondo giorno della
rivoluzione, che doveva in seguito narrare nel suo celebre libro, I
dieci giorni che sconvolsero il mondo. L’articolo è comparso
su “La Città futura”, il mensile dei giovani comunisti nel n.8
del marzo 1965, nella traduzione non firmata che qui riprendo.
(S.L.L.)
Secondo congresso panrusso dei Soviet (San Pietroburgo 7-9 novembre 1917) |
La seduta del secondo
Congresso panrusso dei Soviet si svolge nell’ex salone da ballo ed
aula magna dell’istituto Smol’nij che durante il vecchio regime
era una famosa scuola alla quale avevano accesso esclusivo le
fanciulle nobili, sotto gli auspici dello zar in persona. È un
immenso salone bianco con due file di massicce colonne, illuminate da
due lampadari di un bianco accecante, riccamente ornati e forniti di
centinaia di lampadine elettriche; in fondo alla sala vi è un palco
sul quale troneggiano due alti candelabri carichi di lampadine e,
dietro, un’immensa cornice dorata dalla quale è stato tagliato via
il ritratto dell’imperatore. Qui nei giorni di festa e alla fine
dell’anno scolastico si riunivano gli ufficiali nelle loro divise
rilucenti, il clero nei suoi paramenti sfarzosi, gli intimi della
granduchessa.
Lo spazio fra le colonne
è coperto da file di seggiole, ve ne sono circa mille. La
maggioranza dei delegati ha l’uniforme di soldato semplice. Gli
altri vestono le semplici bluse nere degli operai e qualche
variopinta giubba contadina. Ci sono alcune donne. Qua e là balenano
rare spalline rosse e oro degli ufficiali e qualche colletto bianco.
Dappertutto all’intorno fra le colonne, sui davanzali, su ognuno
dei gradini che portano al palco, e persino sui bordi del palco è
seduto il pubblico, costituito anch’esso di operai, contadini e
soldati. Tra il pubblico qua e là si ergono delle baionette.
Delle guardie rosse
esauste coi nastri delle cartucce a bandoliera dormono sul pavimento
presso le colonne.
La sala è riscaldata
solo dal calore umano e sui vetri delle alte finestre si forma la
brina. L’aria è azzurra per il fumo delle sigarette e il fiato
della gente. Attraverso questa cortina azzurra centinaia di volti
guardano la scena sul fondo nella quale sono raccolte bandiere rosse
con scritte dorate.
Volti semplici, uguali,
aperti e decisi, volti anneriti dal gelo delle trincee, zigomi alti,
molte barbe e, alle volte, volti affilati, grifagni di abitanti del
Caucaso o del Turkestan, molti di essi con radi baffi tartarici. Sono
tutti rivolti in una direzione con una espressione di ingenuo
interesse infantile. Non si sente disagio, probabilmente a nessuno
viene in mente che ciò che avviene è qualcosa di eccezionale, tutto
si svolge come se si fossero riuniti dei contadini profondamente
interessati ad un nuovo meraviglioso raccolto.
La seduta era stata
fissata per le sei di sera : sono già le dieci e non è ancora
iniziata.
Oggi è il sette
novembre, il secondo giorno dell’insurrezione bolscevica. Il
decreto sulla terra è già stato approvato, il Palazzo d’inverno è
stato preso. Nella sala della Duma municipale si riuniscono le forze
della controrivoluzione: i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari,
i cadetti, i monarchici, l’unione degli ufficiali. Dicono che
Kaledin si muova verso il nord e Kerenskij si avvicini dal fronte con
cinque divisioni cosacche.
Al tavolo della stampa è
seduto un giovane intellettuale, ben vestito, interessante, un
seguace di Kropotkin che per molti anni è stato nell’emigrazione a
Parigi. Egli osserva la folla rozza, e tesa con un sogghigno e un
atteggiamento un po’ distaccato lanciando di tanto in tanto delle
osservazioni spiritose. Gli sembra incredibile che questa gente
zotica, maleducata, osi pensare di poter dirigere la grande Russia.
«Andiamo — mi dice in
francese. — Mi sono seccato. Autonominiamoci comitato per la
ricerca della presidenza perché questo spettacolo possa cominciare».
Mentre stiamo uscendo aggiunge: «Comunque non c’è fretta. Tra
quarantott’ore scapperanno a rompicollo».
Ora, a dodici mesi di
distanza ricordo spesso quest’osservazione.
Camminiamo lungo il
corridoio a volta debolmente illuminato, pieno di enormi figure
indistinte di operai e di soldati che si muovono in fretta, e
disperatamente freddo. A destra e a sinistra vi sono delle porte
sulle quali sono indicati gli innumerevoli aspetti dell’attività
dei Soviet: sezione internazionale, sezione soldati, la redazione
delle Izvestia, il settore stampa, l’unione dei militari
democratici, i sindacati, i comitati di fabbrica, la direzione dei
vari partiti politici. Attraverso la porta della stanza 28 dove sono
runiti i socialisti-rivoluzionari di sinistra si sentono voci di
gente che discute in tono altissimo: la porta è sbarrata. La camera
18 al pianterreno è il settore di Lenin; in questa camera si
accalcano alcune centinaia di bolscevichi. Sembra che non importi a
nessuno che noi entriamo o no. Quando chiediamo a che ora finirà la
riunione i presenti si stringono nelle spalle con impazienza. Tutti
sono in preda all’entusiasmo, negli occhi di tutti c’è
un’espressione decisa e trionfante. Hanno l’aspetto di gente che
da molte settimane non dorme, ma gli occhi brillano.
Al piano superiore in una
piccola stanzetta giorno e notte è in riunione il Comitato militare
rivoluzionario, centro dell’insurrezione che si è estesa
largamente. Entrano ed escono correndo delle staffette. Da questa
camera giunge a noi il suono di voci basse e decise.
Andiamo nella sala dove
si deve tenere la seduta.
I
socialisti-rivoluzionari di sinistra sono già qui, stanchi ma
eccitati. Alla loro testa sono Kamkov, Maria Spiridonova, Karelin,
Kolegaev. Un attimo dopo entrano i bolscevichi che formano un gruppo
compatto attorno a Lenin. Dopodiché sale sul palco la presidenza,
con Aleksandra Kollontai, Martov per i menscevichi-internazionalisti,
Trotzkij, alcuni menscevichi, i socialisti-rivoluzionari, Abramovic
per il Bund, Kramarov che è temporaneamente presidente del gruppo
Novaja Zhizri. Il presidente legge l’ordine del giorno
composto, come d’abitudine, dalla presidenza. Oggi il congresso
deve esaminare la questione della guerra e della pace, la formazione
del governo e la difesa della capitale da Kerenskij. Ma, com’è
ovvio, ci si attiene all’ordine del giorno solo in modo molto
approssimativo. Iniziano lunghissimi interventi degli oratori più
diversi: i soldati delegati salutano il congresso a nome dei propri
reggimenti al fronte, gli ufficiali e gli intellettuali protestano
contro l’insurrezione, i contadini ricchi maledicono i bolscevichi
perché questi hanno arrestato il ministro Maljantovic: «è un
socialista anche lui».
Con rabbia e con
accanimento protestano contro l’arbitrio dei bolscevichi i
rappresentanti di vari partiti politici, persino i
socialisti-rivoluzionari di sinistra. Karelin racconta come le
guardie rosse si sono impadronite della tipografia del giornale
Znamja truda ed hanno chiuso il giornale.
Per tutta la notte la
riunione con applausi e con urla esprime la sua approvazione o la sua
ira: la sala mugghia come il mare in tempesta. Più volte viene
proposto di limitare il tempo a disposizione degli oratori, ma tutte
queste proposte vengono bocciate a maggioranza. I delegati di vari
partiti protestano contro la composizione della presidenza affermando
che la schiacciante maggioranza bolscevica non deve imporre tutto lo
svolgimento del congresso, che la presidenza dovrebbe essere più
generosa e dare anche alla minoranza la possibilità di esprimersi.
I bolscevichi hanno messo
in moto ciò che noi americani chiamiamo il rullo compressore. Nelle
riunioni politiche in Russia tutto il lavoro vero viene condotto
fuori dalla sala, nelle riunioni private dei capi partito delle
diverse frazioni. I bolscevichi sono in maggioranza. Essi non possono
privare la minoranza della parola: non ci sono regole secondo le
quali si può interrompere la discussione. Ma i bolscevichi hanno
preso la decisione dell’insurrezione armata del popolo; essi sanno
che le masse di Pietrogrado li seguono; essi sono convinti che tutta
la Russia li segua; ed essi tirano diritto spietatamente e
fiduciosamente.
Molto dopo la mezzanotte
Lenin con voce tranquilla legge il suo appello ai popoli di tutti i
Paesi belligeranti sull’armistizio e la pace. La sala ascolta tesa:
le fronti degli ascoltatori sono in sudore, tanto rabbiosamente essi
vogliono la pace. Lenin ha terminato. Si levano delle proteste,
alcune di esse vengono accolte con un mugghio furibondo e delle
grida: «Basta. Chiudi il becco!». Si vota. Persino i «moderati»,
i socialisti-rivoluzionari di sinistra e il gruppo Novaja Zhizri,
votano a favore. Uno solo vota contro. Un’esplosione di rabbia e di
risate lo costringono ad abbassare la mano.
In un unico slancio, con
un unico pensiero, senza una sola parola ci alziamo in piedi, tutti,
fino all’ultimo, e cantiamo l’Internazionale. Il canto si fa
strada attraverso l’aria piena di fumo, straripa al di là delle
pareti e vola su tutto il mondo in preda alla guerra. Vi è chi si
abbraccia, le lacrime scorrono sui visi induriti, barbuti, ci
colpisce un sentimento di profondissimo entusiasmo. La pace! La pace
e il potere del popolo a tutta l’umanità. L’inizio della
rivoluzione universale, la fine dell’ingiustizia, la nascita di un
mondo nuovo! «Non dimentichiamo chi ha dato la sua vita per questa
notte!» — grida una voce quando finiscono di echeggiare le ultime
note.
E noi cantiamo «Siete
caduti vittima», la marcia funebre, quest’inno solenne e
vittorioso che tanto dice al cuore di ogni russo. Si impadronisce di
noi la convinzione profonda che non si tratti di un semplice erompere
di emozioni ma della manifestazione suprema del vero potere politico.
Abbiamo la sensazione che forse il popolo ha veramente vinto.
Ascoltate Lenin: «La rivoluzione è appena iniziata. Noi ci siamo
impadroniti di Pietrogrado. Domani noi vinceremo Kerenskij.
Dopodomani spezzeremo la resistenza della borghesia».
Viene proclamato il nuovo
governo, «governo che poggia sui Soviet dei deputati operai,
contadini e soldati». Dalla tribuna viene annunciata la composizione
del Consiglio dei commissari del popolo, ed ogni nome viene salutato
da applausi a seconda dei meriti rivoluzionari di chi lo porta: il
nome di Trotzkij suscita un forte, disordinato battimani, e il nome
di Lenin una tempesta ininterrotta di ovazioni. Ma il fatto stesso
della proclamazione del governo che in occidente sarebbe il punto
culminante della rivoluzione qui viene accolto come qualcosa di
ovvio. Qui è il popolo che è al potere. Non hanno importanza le
persone singole, è importante solo la rivoluzione.
Sono già le cinque
passate quando infine usciamo. In paesi più meridionali ad oriente
l’aurora sarebbe già rossa, qui ancora per quattro ore sarà notte
nera. Non c’è ancora la neve ma il fango nero che copre le strade
è gelato. Agli incroci, attorno a falò fiammeggianti stanno
accoccolati piccoli gruppi di guardie rosse. Vedendoci ci gridano:
«Viva la Russia libera»; hanno gli occhi ardenti e le loro voci
sono piene di un’emozione inesauribile.
Aspettano i tram pronti a
portarci per la città. Molto tempo prima, alle undici di sera, nelle
strade di Pietrogrado era cessato il traffico tramviario, ma il
sindacato dei ferrotranvieri manda dei vagoni con dei conduttori
volontari che attendono presso lo Smol’-nij la fine della seduta
del congresso dei Soviet. Ci accalchiamo sulle vetture continuando a
discutere ed a gesticolare...
Lontano echeggiano a caso
degli spari. Ci muoviamo e alle nostre spalle resta l’immenso
Smol’nij fiammeggiante di luci e ronzante come uno sciame di api.
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