da IL CODICE SICILIANO
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e
sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in
pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera
nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella sua lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e
sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
Stefano d'Arrigo, Codice Siciliano, Mesogea, Messina, 2015
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