01 settembre 2018

F. NIETZSCHE raccontato da C. MAGRIS


F. Nietzsche

Lou Salomé

Un grande studioso italiano si confronta al di fuori degli schemi convenzionali con la complessità e le contraddizioni di Friedrich Nietzsche. Ne esce una figura di pensatore e di uomo per molti aspetti inedita.

Claudio Magris

Nietzsche oltre l’uomo


Per molti anni l’immagine diffusa di Friedrich Nietzsche, il più grande diagnostico della crisi europea ancora e sempre più in atto, era quella dell’araldo del Superuomo o addirittura del precursore ideologico delle dottrine nazionalsocialiste. Immagine falsificante che si richiamava certo ad alcuni elementi presenti nel suo pensiero, ma astraendoli dalla sua opera complessiva e distorcendoli unilateralmente. In un suo recente, affascinante saggio Claudia Sonino analizza e illustra il grande ruolo avuto da Nietzsche per gli ebrei che volevano distanziarsi dalla borghesia ebraico-tedesca, assimilata e patriottica, e aderivano invece con passione al nascente e già vitale sionismo di Theodor Herzl. Maestri dell’ebraismo specialmente orientale, chassidico, quali Martin Buber e Gershom Scholem si proclamavano nietzscheani.

Padre dell’avanguardia che in ogni campo ha sconvolto, lacerato, dissestato e rigenerato la cultura europea e soprattutto i suoi linguaggi, Nietzsche — ha scritto molti anni fa in un acutissimo libretto Guido Morpurgo-Tagliabue — era un genio presbite e strabico. Vedeva lontano; ha visto più di un secolo e mezzo fa ciò che sta accadendo ancora oggi e avverrà ancor più furiosamente domani: l’avvento non del Superuomo, di un superman dominatore e amorale, bensì di un «oltre-uomo» felicissima traduzione-interpretazione di Gianni Vattimo nel suo saggio fondamentale e innovatore. Un nuovo stadio antropologico, quasi un salto evolutivo della nostra specie che sta avvenendo non in tempi lunghissimi come in passato ma con una velocità che sembra sfondare il muro del tempo come in un racconto di fantascienza, rendendo le diverse generazioni reciprocamente lontane quasi fossero specie diverse o stadi diversi dell’evoluzione, mutando la stessa natura psico-fisica dell’individuo e smussando le distanze tra uomo e robot.

«L’insuperato Nietzsche» — come lo ha definito qualche anno fa il cardinale Angelo Scola, che è stato patriarca di Venezia e arcivescovo di Milano, in un incontro tenuto a Trieste — ha visto e annunciato da presbite tale mutazione, ma, da strabico, ha spesso alterato e stravolto la realtà, la cultura, la vita che prendeva di mira.

Presi alla lettera, molti suoi giudizi, specialmente sull’arte e gli artisti a lui contemporanei, sono inaccettabili e talora aberranti. Un esempio estremo è la sua delirante e patetica stroncatura di Richard Wagner. Probabilmente i suoi insulti contro Wagner nascevano da uno choc morale dinanzi a certe prevaricazioni e miserie dell’uomo Wagner e dallo sgomento di fronte a un tale scompenso fra etica e genio creativo. Nietzsche, il distruttore della morale, è stato uno degli uomini più sensibili, più puri e più moralisti che siano esistiti. La prospettiva strabica dei suoi scritti su Wagner rivela forse pure un amore mai estinto anche se rimosso e capovolto per la grandissima arte di Wagner.

Ciò non giustifica il furore doloroso e anche banalmente offensivo delle sue pagine wagneriane, ma attraverso la sua distorsione strabica Nietzsche coglie un fenomeno che sarà sempre più di radicale importanza nella civiltà contemporanea ovvero le nuove modalità del consumo dell’arte e in particolare del consumo di massa. Pure in quelle pagine, insostenibili quali giudizi, Nietzsche annuncia ciò che avverrà, ciò che dopo di lui è già accaduto, che sta ancora avvenendo e che ulteriormente dilagherà, la totale e totalitaria forma del consumo della vita, dell’arte e dell’uomo stesso.

Nietzsche era un genio, forse più poeta che filosofo — «quest’anima avrebbe dovuto cantare», dice di lui un verso di un grande poeta tedesco, Stefan George — ma incapace di esprimere in poesia (tranne pochissime, dolorose liriche) la sua anima, la sua tragedia, il suo smascheramento delle cose. L’unico suo libro brutto è quello più famoso, Così parlò Zarathustra, fastidiosamente liricheggiante e retorico, impari anche stilisticamente ai suoi capolavori, asciutti e al calor bianco, quali Aurora, La gaia scienza, i Frammenti postumi e altre opere. L’opera di Nietzsche è un viatico, non un sistema; un sale e non una pietanza, ma un sale assolutamente necessario. Non si può — sarebbe solo ridicolo — essere nietzscheani, come si può invece essere kantiani o marxisti, ma senza Nietzsche non si comprende quasi nulla di ciò che accade nel mondo e nelle teste.

L’essenza di Nietzsche non è stata ancora capita, dice Sossio Giametta, instancabile, acuto e rigoroso interprete di Nietzsche, collaboratore della fondamentale edizione critica di Nietzsche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, traduttore di tante opere nietzscheane e di recente autore dell’illuminante Introduzione a Nietzsche. Opera per opera (Garzanti). La sua passione è indissolubile da un umanesimo partenopeo che impedisce ogni succube o esaltato culto del tragico filosofo; culto in cui sono caduti, talora non senza ridicolo, anche grandi intelletti, più apostoli che studiosi.

Nietzsche, afferma Giametta, «si riteneva il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, ma ciò era vero solo rispetto agli altri rappresentanti della cultura dell’epoca; non si rendeva conto di essere egli stesso una creatura della crisi europea, maturata ai suoi tempi in tutti i campi, che nutriva sotterraneamente il suo pensiero di solitario nelle sue lunghe passeggiate nei boschi, intorno ai laghi, sulle colline, per essere poi sciolto a casa». Come fanno tutti i geni, ribadisce Giametta, Nietzsche ha incarnato la crisi del suo tempo; col suo pensiero l’ha smascherata e insieme accelerata.

C’è un tema, nelle interpretazioni-mistificazioni di Nietzsche, spesso fraintese e manipolate, particolarmente bruciante. Il suo elogio della forza e, ben più ancora, la sua ostentata avversione alla «congiura (...) sotterranea e maligna dei sofferenti». Un tema più volte ribadito, sottolinea Giametta, forse anche per desiderio di scandalizzare. Come quando scrive «istintiva congiura universale del gregge contro tutto ciò che è pastore, animale da preda, solitario e Cesare, per la conservazione e la vittoria di tutti i deboli, gli oppressi, i malriusciti, i mediocri, i semi-falliti, come una sollevazione di schiavi protratta in lungo, prima inavvertita e poi sempre più consapevole, contro ogni specie di signori e alla fine contro il concetto stesso di “signori”».

In queste espressioni c’è il peggior Nietzsche, quello più enfatico e ingiusto verso sé stesso, impari al suo genio che ha scavato a fondo, attraverso il proprio dramma e talora il proprio strazio, nelle cose essenziali dell’esistenza e nel cuore di un radicale rivolgimento dell’uomo e del mondo. Questa concezione di mettere la vita degli uomini comuni al servizio degli uomini superiori è una banalità pseudo-aristocratica e di fatto plebea ignara di essere un luogo comune di massa, perché quasi tutti, in un modo o nell’altro, si ritengono anime più profonde del volgo che li circonda, geni incompresi.

Ma, anche per quel che riguarda i «deboli» nella sua distorsione c’è un pizzico di verità. L’inaccettabile distorsione è evidente. La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è necessario e così difficile combattere. Una delle più alte parole della Scrittura dice che, della pietra rifiutata dai costruttori — ossia dell’ultimo, dell’infimo — il Signore farà la pietra angolare della sua casa. Inoltre identificare il debole — qualsiasi sia la sua debolezza — con l’indegno, non è solo crudele ma anche stupido, perché ignora le cause, di volta in volta, della debolezza e dimentica che i presunti deboli hanno tante volte dimostrato genio e coraggio e hanno dimostrato di saper combattere anche duramente.

Ma c’è pure un uso ipocrita e immorale della debolezza. Si sbandiera la propria debolezza per mettere il peso sulle spalle dei forti o presunti forti, considerati buoi perché tirano il carro senza lamentarsi. Si proclama la propria debolezza come se questa garantisse un animo delicato e sensibile che non può portare i pesi; la debolezza dovrebbe garantire una nobile fragilità dei sentimenti e dei nervi, un’anima poetica e sensitiva che soffre ad ogni contrarietà.

Spesso anche nelle famiglie c’è questa latente ingiustizia — specialmente nei confronti della donna — che destina alla fatica il «forte» solo perché non si lamenta e che vizia la dolente svenevolezza o l’ispirata sensibilità. Una punta di quest’ingiustizia c’è forse pure nell’episodio evangelico di Marta e Maria, quando la prima, indaffarata a preparare il pranzo per Gesù e per la sorella, chiede a quest’ultima, che sta ascoltando seduta la parola del Signore, di aiutarla e viene sgridata perché, dice lui, «Maria ha scelto la parte migliore». Ma chi dice che Marta, solo perché affannata con amore a lavorare e a cucinare per lui, fosse meno capace e desiderosa di ascoltare la Parola? Tant’è vero che il Vangelo in qualche modo la risarcisce, perché è lei a fare, in un altro momento, la più grande proclamazione di fede nel Cristo. Quel Cristo contro il quale Nietzsche si è scagliato, ma che ha contraddittoriamente amato, dolendosi che non avesse avuto fra i suoi discepoli un Dostoevskij, il solo a suo avviso capace di raccontare la sua persona e la sua vita, e addirittura firmandosi, al tramonto della propria esistenza, «il Crocifisso».

Nietzsche era un grande malato e anche il rapporto con il malato può essere ambiguo. Aiutarlo, soccorrerlo, ascoltarlo, essergli vicino contribuisce a dar senso alla vita, alla propria e alla sua. Fa capire che malattia e salute sono dei ruoli che inevitabilmente si alternano, ora più ora meno, per ognuno ossia fa toccare con mano il comune destino, l’autentica fraternità umana nella fragilità. Malattia, vecchiaia, morte — debolezze cui non sfugge nessuno, neanche i forti o i pretesi forti; lo stesso Nietzsche ne è un esempio toccante. «Quando eri più giovane», dice Gesù a Pietro, «ti mettevi da solo la cintura e andavi dove volevi, ma io ti assicuro che quando sarai vecchio, tu stenderai le braccia e un altro ti legherà la cintura e ti porterà dove tu non vuoi».

Ma il malato, proprio perché debole, può essere anche un prevaricatore prigioniero della sua malattia; comprensibilmente tutto preso dal suo Io aggredito, non vede e non può vedere altro. Senza rendersene conto, vorrebbe talora che tutti vivessero solo per lui, non può capire che anch’essi possono essere in difficoltà. Si deve certo aiutare il debole ma senza permettergli di prevaricare, anche nel suo interesse, così come chi cerca di salvare un altro che annega non deve lasciarsi tirare anch’egli sott’acqua e se necessario deve pure colpirlo per poterlo portare a riva. Il male, fisico e morale, fa male a tutti e perciò bisogna arginarlo. La debolezza reclama, comprensibilmente, la centralità dell’attenzione ma talora quasi il monopolio; c’è talora in essa una specie di risucchiante vampirismo.

Ho passato, molto tempo fa, un periodo difficile per la mia salute e il mio equilibrio e mi rendevo conto di essere talora insopportabile, tendenzialmente esasperante per le persone che mi aiutavano. Resistere alla tentazione egocentrica e prevaricatrice della malattia — del corpo o dell’anima — è difficilissimo e assai raro, è una delle più grandi virtù. Ho avuto la grande fortuna di conoscere alcune (poche) persone, soprattutto donne, capaci di questa virtù — la virtus latina, valore in battaglia e capacità di preoccuparsi per gli altri pur nella sofferenza, nella consapevolezza della propria fine e nella lotta contro questa fine.
    Lou Andreas Salomé

Tutto ciò può succedere non solo a singoli individui, ma anche a gruppi, collettività, minoranze di deboli spesso barbaramente perseguitate, negate, oppresse. È ovvio che questi deboli soffocati dai forti vanno aiutati in ogni modo e con energia, pure difesi con la forza. Ma ogni organismo debole, individuale o collettivo, coltiva facilmente il compiacimento della propria debolezza, il desiderio di sentirsi e proclamarsi debole e perseguitato anche quando non lo è più, usare la propria passata debolezza come un’arma, ora non più necessaria ma intimidatoria. Pure una minoranza liberata da un’iniqua oppressione tende a sentirsi oppressa anche quando non lo è più, sentimento che la gratifica e la sprona a indurre gli ex oppressi o i loro discendenti a sentirsi ancora colpevoli e quindi a loro volta deboli.

Nietzsche era estremamente sensibile al dolore e alla sofferenza; la vista del cavallo frustato e bastonato a sangue in una via di Torino lo ha scosso e turbato al punto di far precipitare il suo collasso psichico. Ha aggredito la morale e ha celebrato la vita al di là del bene e del male, ma non era capace di afferrarla; era troppo morale, troppo buono per poter vivere «la grande quiete meridiana», la serenità marina del puro presente ignaro di comandamenti, divieti e anche pensieri, la spietata trasparenza dell’oscuro fondo della vita.

Nietzsche era vittima di quella morale che egli stesso aggrediva, di quel disagio della civiltà che aveva individuato genialmente, prima di Sigmund Freud, perché lo aveva patito. Ha smascherato genialmente, una volta per tutte, la livorosa meschinità del risentimento, nella vita personale come nella storia della civiltà, ma poteva essere anch’egli meschinamente risentito come quando, rifiutato nella sua richiesta di matrimonio e di amore da Lou Andreas Salomé, che lo amò sempre ma in altro modo, parlò di lei come di una «ragazza senza seno». Con ben altra classe, quest’ultima, tanti anni dopo, operata di cancro al petto con la devastante tecnica chirurgica dell’epoca, disse: «Adesso sì Nietzsche potrebbe dire che sono senza seno».


Il Corriere della sera/La Lettura – 22 luglio 2018

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