27 settembre 2018

COME REAGIRE ALLA PERDITA DI UNA PERSONA CARA




Partendo da un romanzo di recentissima pubblicazione, Massimo Recalcati tratta dalla perdita di una persona cara, della difficoltà di elaborare il lutto e di riprendere a vivere. Perché l'assenza può diventare una forma di presenza assoluta, una ossessione alla quale è impossibile fuggire. Un libro da leggere, un'apertura alla speranza. 
Massimo Recalcati
La presenza dell’assenza

Un genitore sparito nel nulla quando lei, Ida, aveva tredici anni L’assenza come presenza costante e le domande senza risposta. Il nuovo romanzo di Nadia Terranova racconta un lutto impossibile da elaborare

L’assenza può essere una forma di presenza assoluta; accade soprattutto quando abbiamo fatto esperienza della perdita di una persona cara. La sua assenza scava nella nostra vita e nel mondo un buco che non può essere riempito. Diventa una forma radicale di presenza. È quello che definiamo comunemente "lutto": la reazione affettiva di fronte ad una perdita che non si lascia digerire psichicamente, ma che insiste in noi come fosse una spina nella carne, un’assenza sempre presente che duole e che impedisce lo scorrere della vita. Come fare allora per lasciare che l’assenza diventi tale, scivoli nell’oblio, come fare per evitare che la nostra vita resti impigliata al dramma di quella perdita, per evitare che la sua presenza — la presenza dell’assenza — diventi una ossessione alla quale è impossibile fuggire?

Di questa materia tormentata e essenziale è fatto l’intensissimo ultimo romanzo di Nadia Terranova, titolato Addio fantasmi (Einaudi). Non si tratta solo di una nuova prova di scrittura capace di raggiungere livelli di equilibrio e di maturità davvero rari, ma di un vero e proprio viaggio attraverso il fantasma inquietante di una assenza che non vuole cedere il passo, che non vuole cadere nell’oblio. È la storia di Ida che ritorna nella propria casa a Messina dove è cresciuta prima di trasferirsi a Roma e ricostruire la propria vita: una casa, un lavoro, un matrimonio.
L’assenza che l’assilla è quella di suo padre, "stimato professore di liceo", che una mattina, quando lei aveva 13 anni, esce di casa senza fare più ritorno. Non una morte, dunque. Piuttosto una sparizione, una evaporazione nel nulla, una scomparsa irreversibile. Ida è "figlia dell’assenza". È questa la sua tragica eredità. La bellezza dei ricordi della sua vita di bambina col padre (i baci, le coccole, il profumo del suo tabacco, la barca insieme verso Stromboli a vedere i delfini, le passeggiate lungo il mare con i pattini) è come stordita di fronte all’enigma atroce di questo addio. Nessuna elaborazione simbolica è stata possibile, nessun lavoro del lutto di fronte alla morte ha consentito l’incorporazione dell’oggetto perduto.

Piuttosto il tempo si sospende, resta inchiodato alle lancette dell’orologio che coincidono con l’ultimo risveglio del padre prima della sua dipartita: «la sveglia segnava le sei e sedici, avrebbe segnato le sei e sedici per sempre». L’assenza diviene allora una forma di presenza; la bara del padre è "dappertutto" perché non è in nessun luogo. Il mistero indecifrabile di questa scomparsa resta senza risposta: perché lo ha fatto? voleva morire o voleva vivere diversamente? Era, la sua, una resa o una ribellione? Si è ucciso in mare? Vive ancora, magari in un Paese straniero?

Ha avuto un infarto o un aneurisma? Ritornerà? La scomparsa del padre non coincide con la sua morte. Il lavoro del lutto non può compiersi simbolicamente perché il suo ritorno resta inconsciamente sempre atteso. Non c’è pace perché quella scomparsa impedisce la sua morte. Mentre, infatti, «la morte è un punto fermo», quella scomparsa «è la mancanza di un punto»: «se mio padre non era morto, non sarebbe morto mai». Non si può piangerlo, «semmai piangiamo il non averlo pianto». I sopravvissuti sono costretti a resistere in un tempo bloccato, congelato, fermo, senza avvenire. Lo stesso che aveva caratterizzato gli anni della depressione paterna: rannicchiato tra le lenzuola, succube dei farmaci, senza desideri, senza voglia di vivere, con delle cuffie sulle orecchie attaccate ad una radio spenta e lo sguardo nel vuoto.

l tempo del padre si era fermato per primo. La vita di Ida resta minata da questa ferita che sembra non conoscere sutura: «non voglio figli perché ho paura che muoiano, che scompaiano, perché ho paura che tra me e Pietro frani l’amore…». L’ombra spessa della perdita si insedia ovunque: sulla vita cala l’assenza sempre presente del padre scomparso. Il mondo deve essere mantenuto a distanza per evitare che il dolore della perdita si possa nuovamente ripetere.

Tutto è iniziato a crollare con la scomparsa di suo padre, con la rottura del "triangolo originario" che lega la figlia e la madre al padre. Ida torna nei luoghi della sua infanzia, nella sua prima casa dove aveva vissuto sino ai vent’anni, perché essa sta crollando ancora, non ha mai smesso di crollare. Torna per scegliere cosa portare con sé e cosa lasciare andare per sempre. Una cosa tra tutte le interessa sottrarre all’oblio: una scatoletta rossa. Il suo contenuto è tutto quello che resta del padre: la sua vecchia pipa e una cassetta registrata sulla quale è impressa la sua voce mentre canta. È tutto quello che resta di lui: il suo odore e la sua voce. Sono le sole tracce superstiti.

Ma in quella scatoletta rossa Ida aveva richiuso, insieme ai "resti" del padre, anche la sua vita. È, infatti, più facile amare l’assenza, che amare chi davvero c’è. Bisogna allora lasciare cadere quel rifugio insidioso che era divenuta l’assenza del padre. Bisogna liberarsi del contenuto della scatoletta rossa. È necessario un rito di separazione, un funerale, una tomba che richiuda con sé il mistero del padre liberando la vita della figlia. La vera emergenza non sono i nostri morti, la vera emergenza, sostiene infine Ida, è «pensare ai sopravvissuti». Perché «veniamo tutti da un funerale… tutti abbiamo perso qualcosa e sappiamo quanto lunghissimo e ingiusto sia il tempo davanti a noi, il tempo senza quella persona. Il tempo che cominceremo a contare anno dopo anno, a partire dalla perdita» .
La Repubblica – 25 settembre 2018

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