25 settembre 2018

G. VASTA, I bambini una volta ci guardavano...



La presenza dei bambini. 

di Giogio Vasta

Apparire, scomparire. Sono i nodi fondamentali della fiaba, il momento improvviso in cui il mistero si concentra e lo stupore esplode, il fenomeno che dà luogo alla rivelazione e all’incanto. Perché se ciò che non c’era si manifesta, o se ciò che c’era di colpo si dilegua, a imporsi è il trauma, meraviglia e sgomento insieme. Un troppo vuoto o un incredibilmente pieno che farà da motore di un’intera storia. È il presupposto di narrazioni letterarie e cinematografiche che vanno da L’avventura di Antonioni a Il dolce domani di Russell Banks, passando per Il villaggio dei dannati di WolfRilla (e poi di John Carpenter) e Picnic a Hanging Rock (tanto il film di Peter Weir del 1975 quanto la recentissima miniserie televisiva, sempre a partire dal romanzo di Joan Lindsay), ed è il presupposto di Repubblica luminosa, il nuovo romanzo dello scrittore madrileno Andrés Barba (La nave di Teseo, traduzione di Pino Cacucci).
Siamo all’inizio degli anni ’90, e a raccontare, due decenni dopo i fatti, è un funzionario pubblico che, per ragioni professionali ma soprattutto perché ha bisogno di provare a comprendere cosa accadde, è stato coinvolto nella vicenda. A San Cristóbal – un villaggio subtropicale circondato da una selva inestricabile, un ritmo di vita così regolare da sembrare scandito da un metronomo – un giorno compaiono, ignoti e inaspettati eppure necessari come un destino, trentadue bambini, tutti tra i nove e i tredici anni. Mentre le ipotesi sulla loro origine si moltiplicano – sono arrivati alla spicciolata mescolandosi ai bambini ñeê, i nativi che ai semafori vendono orchidee e limoni; sono vittime di una tratta di minori; sono scappati da un accampamento; sono «scaturiti dal fiume» –, i bambini trascorrono il tempo giocando e girovagando,appena percepiti durante il giorno e di colpo invisibili al calar della sera.
A segnare al contempo un senso di prossimità e di straniamento tra gli adulti di San Cristóbal e i bambini, è la lingua, gioiosa e lucente come un cinguettio, che questi ultimi hanno inventato per comunicare. È una specie di spagnolo – le parole sono quelle – ma lo stesso la loro lingua magica riesce incomprensibile: a essere certo – e per i sancristobalesi ragione di turbamento – è che così, solo giocando e parlando, quei bambini stanno cominciando a cambiare i nomi a tutto. A rendere infine ancora più anomala l’apparizione è quello che potremmo descrivere come lo «stato civile», o meglio lo statuto umano, dei bambini. Estranei ai meccanismi delle famiglie di San Cristóbal, nessuno di loro può confidare in un diritto acquisito:privi di qualsiasi protezione, sia essa fisica o giuridica, per sopravvivere dentro la struttura sociale si ritrovano a rubare perché, semplicemente, non sono «eredi legittimi di nulla».
Simile a un incantesimo che si intesse nel quotidiano fino a farsi avvertire come naturale, i bambini diventano allora «presenze reali o fantasmali», anomalie al contempo indispensabili e insopportabili, una critica vivente (e inconsapevole) alla vita degli adulti: il «sogno della comunità».
Poi l’equilibrio si rompe, il sogno slitta verso l’incubo: i bambini assaltano un supermercato, la morte si mescola al gioco, dove c’era la finzione interviene l’irreversibile, da ospiti imperscrutabili si trasformano in un agente patogeno che contagia i figli dei sancristobalesi – che, l’orecchio contro il pavimento, ascoltano il caos propagarsi, e lo riconoscono e lo seguono scegliendo a loro volta di scomparire: «Non trovandosi da nessuna parte di preciso, i trentadue avevano conseguito l’impensabile: essere da tutte le parti».
Quando diventa chiaro che i bambini epifanici agiscono sulla vita sensoriale e immaginativa degli abitanti del villaggio («Bambini che si voltano nel preciso istante in cui li si guarda o che compaiono quando si pensa a loro») spingendoli verso una consapevolezza di sé che potrebbe rivelarsi fatale, la comunità reagisce brutalmente, perseguitando e punendo.
Ciò che Andrés Barba edifica con il suo romanzo è un grande apparato metaforico che, com’è giusto, non si lascia mai pienamente afferrare e definire, procedendo invece per allusioni e ambiguità (e del resto la metafora non è una chiave bensì una serratura, un foro buio che ci interroga, una domanda costante e inesauribile). E dunque – ci si chiede leggendo Repubblica luminosa – di che cosa sono immagine i bambini? Della selvatichezza, della vulnerabilità («Sono fatto di due cose che non possono essere ridicole: un selvaggio e un fanciullo» è la frase di Paul Gauguin posta in esergo al romanzo), e sono immagine dell’incapacità degli adulti di concepire e costruire un legame con il proprio naturale disordine. Soprattutto, i bambini di Barba sono immagine dell’inadeguatezza di un intero organismo socioculturale – il nostro: noi – a interpretare un’epoca che si confronta con una metamorfosi di portata planetaria, sono immagine della nostra prudenza che slitta in codardia, di un’idea di sé che non riesce a comprendere che la cosiddetta identità, che sia individuale o collettiva, per non ridursi a un fossile deve essere mobile e inafferrabile.
I bambini ci guardano, era il monito di De Sica e Zavattini nel film del ’43. I bambini ci hanno guardato, è quello che ci racconta Barba, e hanno sperato che almeno per una volta fossimo all’altezza della loro – nostra – vulnerabilità.
Poi, capito quanto c’era da capire, come erano apparsi sono svaniti.

Giorgio Vasta 

Pezzo ripreso  da http://www.minimaetmoralia.it/wp/repubblica-luminosa-di-andres-barba/

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